a cura di Andrea Giostra - In copertina Nadia Fanelli (Castel Goffredo), “Otium”, olio, acrilico e resina su tela, cm. 40 x 40 | https://www.nadiafanelli.it/
VI
Ma la gente non si
arrese alla fatalità. All’alba uomini, donne e bambini uscirono armati di
zappe, picconi e vanghe e si diressero dove prima zampillava il gaigo. In
febbrile silenzio cominciarono a bucare il suolo.
Mezza stagione dopo la
piana era disseminata di buche profonde sei volte una casa. Seduto su uno
sgabello traballante sul bordo di una buca Cillo guardava il suolo violato
dall’accanimento della gente.
“Che stupidaggine”,
pensò. “E di un altro gaigo nemmeno l’ombra”.
VII
Il vento si placò
all’improvviso. Il tintinnio metallico e le voci svanirono. Il sole brillò nel
cielo più azzurro che Anzol avesse mai conosciuto.
Etto uscì di casa
quasi contemporaneamente a tutti gli anzolani.
“Questo è un giorno
speciale”, pensò.
Il suolo si aprì e
sotto la piana, in un tempo ritrovato, il rio gemello del Cen risucchiò
l’antica fertilità di un luogo al quale gli uomini non si erano abbandonati.
Poi fluì lontano, trascinando la seconda sorte di Anzol.
L’ULTIMA SORTE
Per il Destino quella piana attraversata da un rio impetuoso e circondata
da invalicabili intrichi di rovi e liane di vitalba che velavano i boschi era
il luogo perfetto...
*
Il primo lampo -
evento di un altro tempo - aprì a Calla, sfigurata megera dei pantàni del sud,
un passaggio attraverso gli intrichi. Il secondo - evento di un’altra èra - lo
aprì a Nerja, donna di conoscenza delle montagne del nord remoto.
Calla entrò ad Anzol
dalla porta meridionale. L’incongrua afa di umide e torride estati, di
acquitrini, terre desolate, fango, tafani, zanzare impregnava i suoi occhi; la
sua veste sfilacciata emanava fetore di decomposizione, acqua putrida, cibo
rancido, miseria, superstizioni, odio, follia, deliquio.
Circospetta transitò sotto il grande arco
sorvegliato da quattro armati chiusi in corrose armature. Nell’ombra mutevole
proiettata dall’arco la fermò Uccio, Capitano della Guardia.
Calla saliva tortuose
rampe di scalini di pietra; l’intollerabile canicola di quel pomeriggio di
mezza estate la tonificava. Guardò davanti il Capitano procedere ingolfato
nell’abito di pesante panno nero, ferito dalla troppa luce che infieriva sui
muri merlati, i torrioni, i contrafforti, gli spalti, le feritoie, il villaggio,
la cittadella. Guardò il ponte levatoio abbassato sul rio in secca infestato di
rapaci che pullulavano sulle carogne di vacche, vitelli, cinghiali adagiati sul
fondo e inalò il tanfo che si sprigionava dalle viscere aperte delle bestie.
L’ossessivo ronzio delle mosche carnarie la fece sentire a casa.
Uccio la guidò lungo
un labirinto di vie strette, attraverso gallerie che gocciolavano umori (qui
Calla riconobbe il familiare lezzo di urine imputridite che trasudava quello di
cenere bagnata) e passaggi incassati fra muraglie in pietra squadrata, fino a
una porta di ferro. Uno spioncino si aprì, la porta si spalancò e Calla fu
sospinta nel salone delle Cerimonie.
Gillot, signore di
Anzol, dormiva a bocca aperta sbracato su un trono cigolante. Alla sua destra
Otta, prima dama di Anzol, subiva immobile un fascio di luce; alla sua sinistra
Gurgo, vegliardo centenario, astrologava a fil di voce su una carta del cielo
che pendeva dal soffitto.
Calla si inginocchiò e
ristette in quella posizione; dilatò le narici per meglio percepire
nell’ambiente il puzzo di morte che sfidava il profumo di essenza di gelsomino.
“Non è il vegliardo
che lo emana, né la smunta dama, tantomeno il lardoso principe. Deve arrivare
da qualche parte oltre il salone”, rifletté.
«Alzati. Il mio
signore si sveglierà presto, e allora ti parlerà», affettò il Capitano.
Gillot sbadigliò nel
sonno.
*
Nerja entrò ad Anzol
dalla porta settentrionale. Una folata di vento scompigliò i suoi lunghi
capelli neri mentre superava l’ombra densa e persistente dell’arco. Due vecchi
armati, chiusi in antiche armature, la guardarono in silenzio. La fermò Uccio,
anziano Capitano della Guardia.
Nerja scendeva ripide
scalinate di pietra che al suo passaggio il vento batteva disperdendo strati di
foglie secche; davanti, avvolto in un pesante mantello nero, il Capitano
procedeva con passi lenti e misurati. Si fermarono presso una grande porta di
ferro. Uno spioncino si aprì e la porta si dischiuse.
Gillot, signore di
Anzol, sedeva immobile su un trono di ferro sbalzato; la sua incolta barba
bianca contrastava con la fitta penombra del salone delle Cerimonie. Alla sua
destra Otta, prima dama di Anzol, fissava nel vuoto; ombre sottili e
labirintiche risaltavano la pelle raggrinzita del suo viso.
Nerja si inchinò
leggermente. Uccio la toccò su una spalla.
«Il mio
signore sta riposando, ma presto si risveglierà, e allora ti parlerà», disse
sottovoce.
*
«Tu saresti la
megera?», cominciò Gillot con voce impastata. «Ti aspettavamo prima. Nel
frattempo qui il Destino si è dato da fare».
Le labbra di Calla
disegnarono un verso di assenso. «Dov’è la gente, mio signore?».
Il corpo flaccido di
Gillot si raddrizzò sul trono. «Chiusa in casa, quella che resta». Si volse
verso il vegliardo alla sua sinistra. «Poca, davvero poca. Sembra che le stelle
siano state a guardare. Mute come un ratto di fogna senza lingua». Si rivolse a
Calla. «Tu che intendi fare?».
«Non si può
contrastare il Destino, ma si può assecondarlo; è il modo migliore per fargli
cambiare direzione».
«Spiegati meglio,
megera».
«Il Destino fa sempre
il contrario di quello che fanno gli uomini. Se cercate di ripulire Anzol
liberete l’intento delle cose marce e si scatenerà la peste nera».
«Uhm. Allora?».
«Allora si tratta di
non fare niente, mio signore.
«È questo il rimedio,
dunque?».
«È la vostra scelta».
Nerja guardò gli occhi
di Gillot animarsi, finché misero a
fuoco i suoi. Il signore di Anzol parlò con voce grave, lontana. «Un tempo alla
mia sinistra sedeva un astrologo. Non ricordo il suo viso, ma ricordo che era
molto vecchio».
Fece una lunga pausa.
Alla sua destra gli occhi di Otta si mossero impercettibilmente.
«Non siamo stati
capaci di capire il Destino, donna. Ma forse tu puoi ancora cambiarlo», riprese
Gillot.
«Io vengo dal nord
remoto, mio signore. Lassù il Destino asseconda il fare della gente e la gente
asseconda il fare del Destino, non cerca di cambiarlo; sarebbe inutile».
«Cosa dobbiamo fare
per assecondarlo?».
«Vivere, comprendere
il senso della vostra vita e accettarlo».
«Qui tutto muore a
poco a poco, in un gelo inesorabile. Comprenderlo è già la nostra pena,
accettarlo sarebbe il nostro disastro».
«La vostra pena è
considerare un disastro il vostro destino, mio signore. Ma se assecondate il
vento, il gelo, il tempo, se apprenderete a conoscerne l’intento, la pena
svanirà e troverete la pace».
«È questo il rimedio,
dunque?».
«È la vostra scelta».
*
...per lasciare agli
esseri umani la scelta di scomparire nel tempo dell’eternità o vivere
nell’eternità del tempo.
FINE
Per leggere i precedenti capitoli, clicca qui:
Note dell’editore:
«Haria vive ritirata sull'appennino ligure-emiliano, e comunica
con il mondo esterno mediante i suoi libri, in cui dispensa la conoscenza di
cui è portatrice. Ove giovani donne, in secoli diversi, in fuga dal proprio
tempo, in fuga per la consapevolezza e la libertà. Nove vite, una vita, e una
luce negli occhi che le guida e le accomuna. Nove donne oltre il varco
sull'ignoto, per un magico, solidale destino.»
“Anzol”, Haria, Collana
Letteratura di Confine, Proprietà letteraria riservata, © RUPE MUTEVOLE, prima
edizione 2013, ristampe 2017.
Cristina del Torchio
https://www.facebook.com/RupeMutevoleEditore/
https://www.reteimprese.it/rupemutevoleedizioni
Andrea Giostra