Fëdor
Michajlovič Dostoevskij, “Il sogno di un uomo
ridicolo”, tratto dal “Diario di
uno scrittore”, “Il Cittadino”,
Mosca, 1877 | RECENSIONE di Andrea Giostra.
Questo racconto di Dostoevskij, pubblicato nel 1877, come avviene per tutti gli
scritti dei veri grandi scrittori, a distanza di oltre cento quaranta anni, è attuale più che mai. L’ho riletto di recente
dopo aver ritrovato nella mia biblioteca questo libricino pubblicato in Italia
nel 1995 da “La Biblioteca Ideale Tascabile” editore
che in questi anni, a costi bassissimi per allora (a sole mille lire), iniziò a
pubblicare una serie di opere classiche a bassissimo costo che ebbero un
successo davvero interessante. Lo lessi allora e l’ho riletto in questi giorni.
Ebbene, la storia che narra Dostoevskij
in questo racconto è quella di un uomo che vuole suicidarsi perché stanco di
questa vita terrena. Presa la decisione del suicidio da realizzare con un colpo
di pistola in testa, si dirige verso casa per compiere il gesto liberatorio, ma
lungo la strada incontra una bambina che disperata gli chiede aiuto e alla
quale non darà retta proprio perché, prossimo alla morte, non teme i sensi di
colpa che potrebbero torturarlo laddove non avesse deciso di farla finita.
Questo l’incipit del racconto che si sviluppa in
una dimensione onirica nella quale Dostoevskij riesce a fare una straordinaria
analisi filosofica, e se vogliamo profondamente umana, della disperata condizione
di solitudine dell’uomo sulla terra e di come invece potrebbe essere “l’uomo felice e senza peccato” se non
si fosse lasciato rapire e contaminare da una successione di sovrastrutture relazionali
e di “difesa” che al benessere frutto della fratellanza e dell’amore reciproco
hanno preferito la diffidenza e la paura per il prossimo passando attraverso una
serie di diabolici passaggi comportamentali che letti nella successione dostoevskijana
del racconto lasciano senza parole: «gli
insegnai a mentire e amarono la menzogna e conobbero la bellezza della menzogna
(…) quest’atomo di menzogna penetrò nei loro cuori e li sedusse (…) poi
rapidamente nacque la sensualità, la sensualità generò la gelosia, la gelosia
generò la crudeltà (…) ben presto schizzò il primo sangue (…) si meravigliarono
e inorridirono, e presero a separarsi e disunirsi (…) conobbero la vergogna e la
vergogna eressero a virtù (…) nacque il concetto dell’onore (…) presero a
distruggere gli alberi a tormentar gli animali e gli animali si allontanarono
da loro nei boschi e divennero loro nemici (…) cominciò la lotta per la
separazione, per l’individuazione, per la personalità, per il tuo per il mio,
per il mio, per il mio (…)» … e così via di questo passo fino alla
distruzione e alla compromissione della fiducia nell’uomo e della felicità su
questa terra…
Forse, per spiegare quest’impetuoso
flusso di pensieri, bisogna citare Arnold
Hauser (1892-1978), storico dell’arte ungherese che visse la sua maturità
artistica in Inghilterra e che fu un grande appassionato e studioso di
Dostoevskij, quando dice che «La vera
novità dello spirito dostoevskijano consiste nel fatto che in lui le idee hanno
la stessa forza emotiva, lo stesso impeto passionale, anzi patologico, che per
i romantici hanno il flusso ed il tumulto dei sentimenti.»
Ma detto questo, il modo
migliore per essere stimolati, per comprendere ed essere partecipi di questa riflessione
di Dostoevskij sul più grande tema esistenziale di sempre dell’Uomo, resta quello
di leggere il suo racconto “Il sogno di un uomo ridicolo”,
o almeno, il Capitolo V che riporto integralmente
a seguire:
Capitolo V
Sì, sì, andò a finire che li pervertii tutti! Come ciò poté avvenire
non lo so, ma lo ricordo chiaramente. Come una perversa trichina, come un atomo
di peste che infetta interi stati, così anch’io infettai di me tutta quella
terra, prima del mio arrivo felice, senza peccato. Gli
insegnai a mentire e amarono la menzogna e conobbero la bellezza della menzogna.
Oh, la cosa forse cominciò innocentemente, da uno scherzo, da una civetteria,
da un gioco amoroso. In realtà forse, da un atomo, ma quest’atomo di menzogna
penetrò nei loro cuori e li sedusse. Poi rapidamente nacque la sensualità, la
sensualità generò la gelosia, la gelosia generò la crudeltà… Oh, non so, non
capisco, ma presto, ben presto schizzò il primo sangue: essi si meravigliarono e inorridirono, e presero a separarsi e
disunirsi. Comparvero le associazioni, ormai l’una contro l’altra.
Cominciarono i rimproveri, le accuse. Essi conobbero la
vergogna e la vergogna eressero a virtù. Nacque il concetto dell’onore, e
ciascuna associazione levò la propria bandiera. Presero a distruggere gli
alberi a tormentar gli animali e gli animali si allontanarono da loro nei
boschi e divennero loro nemici. Cominciò la lotta per la separazione, per
l’individuazione, per la personalità, per il tuo per il mio, per il mio, per il
mio…Presero a parlare in varie lingue. Conobbero la tristezza e l’amarono,
ebbero sete di tormenti e dissero che la verità si raggiunge solo col tormento.
Allora comparve presso di loro la scienza. Quando divennero cattivi
cominciarono a parlar di fratellanza e di umanità e capirono queste idee.
Quando divennero colpevoli, inventarono la pena di morte e per la pena di morte
inventarono la giustizia e si prescrissero interi codici per conservarla, e per
far rispettare i codici, inventarono la ghigliottina! Essi si ricordavano appena,
appena di ciò che avevano perduto, anzi non volevano credere di essere stati un
tempo innocenti e felici. Ridevano perfino della possibilità di questa passata
loro felicità e la chiamavano un sogno. E, tuttavia, se mai fosse potuto
accadere ch’essi tornassero in quello stato innocente e felice che avevano
perduto, e se qualcuno d’un tratto gliel’avesse nuovamente mostrato domandando
se volevano tornarvi, di sicuro avrebbero ricusato: “siamo pur menzogneri,
cattivi e ingiusti, noi questo lo sappiamo e ne piangiamo, e per questo ci
tormentiamo da noi stessi, e ci infliggiamo castighi e torture perfino più,
forse, di quanto farebbe quel misericordioso giudice che ci giudicherà e il cui
nome ignoriamo. Ma noi abbiamo la scienza e per mezzo di essa ritroveremo la
verità, accogliendola ormai consapevolmente. Il sapere è superiore al
sentimento, la coscienza della vita è superiore alla vita. La scienza ci darà
la sapienza, la sapienza ci rivelerà le leggi, e la conoscenza delle leggi della
felicità è superiore alla felicità”. Ecco quel che dicevano, e dopo tali
parole, ciascuno prese ad amare sé stesso più di tutti. Ciascuno divenne tanto
geloso della propria personalità che con tutte le forze cercava soltanto di
abbassarla e diminuirla negli altri; e in ciò riponeva la propria vita.
Comparve la schiavitù, comparve perfino la schiavitù volontaria: i deboli si
assoggettavano volentieri ai più forti, a patto solo che questi li
proteggessero e li aiutassero ad opprimere quelli che erano ancor più deboli di
loro. In compenso presero ad apparir degli uomini che si diedero ad immaginare
come tutti avrebbero potuto vivere di nuovo tutti insieme in maniera che
ciascuno, senza smetter di amar sé stesso più di tutti gli altri, in pari tempo
non fosse d’inciampo a nessun altro, e in tal modo vivere tutti insieme, come
una società democratica e armoniosa. Intere guerre si scatenarono per questa
idea. Tutti i belligeranti credevano fermamente al tempo stesso che la scienza,
la sapienza e il sentimento di autoconservazione avrebbero infine costretto gli
uomini a unirsi in una società concorde e ragionevole, e perciò intanto, per
affrettar le cose, i “sapienti” cercavano di sterminare al più presto tutti i
“non sapienti” e quelli che non capivano la loro idea, perché non ne intralciassero
il trionfo. Ma il sentimento di autoconservazione prese rapidamente a
indebolirsi, comparvero i superbi e i voluttuosi, che addirittura pretesero
tutto o nulla. Per l’acquisto di tutto si ricorreva all’assassinio e, se esso
non riusciva al suicidio. Comparvero le religioni col culto dell’inesistenza e
dell’autodistruzione in vista di un eterno acquietamento nel nulla. Infine
quegli uomini si stancarono di tutta quella fatica inutile, e sui loro volti
comparve la sofferenza, e quegli uomini proclamavano che la sofferenza è
bellezza, giacché solo nella sofferenza c’è un senso. Io andavo fra loro
torcendomi le mani e piangendo su di essi, ma li amavo forse ancor più di
prima, quando sui loro volti non c’era ancora la sofferenza e quand’essi eran
così innocenti e belli. Amai la loro terra, da essi profanata, ancor più di
quando era un paradiso, solo perché vi era comparso il dolore. Ahimè, io sempre
avevo amato il dolore e la tristezza, ma solo per me, per me, per essi
piangevo, commiserandoli. Dicevo loro, che ero stato io a far tutto ciò, io
solo; ch’ero stato io a portar loro la depravazione, il contagio e la menzogna!
Li supplicavo di crocefiggermi, insegnavo loro come si costruisce una croce.
Avevo brama di tormenti, bramavo che in questi tormenti si versasse il mio
sangue fino all’ultima goccia, sulla croce. Ma essi cominciarono a ridere,
ridevano soltanto di me e poi cominciarono a tenermi in conto di strambo. Poi
cominciarono a dirmi che stavo diventando pericoloso per loro e poi
cominciarono a dirmi ch’era meglio ch’io fossi rinchiuso in manicomio, in
manicomio, in manicomio… (si dibatte nella camicia). Allora la tristezza entrò
nell’anima mia con tanta forza che il cuore mi si strinse ed io sentii che
morivo… e qui, qui appunto mi destai.
Era già mattino, cioè non faceva ancora giorno, ma eran circa le sei.
Mi svegliai in quella stessa poltrona, la mia candela s’era consumata tutta e
c’era intorno un silenzio… per prima cosa balzai su in preda a straordinaria
meraviglia: d’un tratto, mentre stavo in piedi e tornavo in me, d’un tratto mi
balenò davanti la mia rivoltella, pronta, carica… ma io in un attimo la scostai
da me! Oh, adesso vivere, vivere. Sì, vita e predicazione! Per tutta la vita!
Io vado a predicare, io voglio predicare; che cosa? La verità, giacché l’ho
veduta, l’ho veduta coi miei occhi, ne ho veduta tutta la gloria! Gli uomini
possono essere bellissimi e felici, senza perdere la capacità di vivere sulla
terra. Io non voglio e non posso credere che il male sia lo stato normale degli
uomini. Ed essi tutti ridono appunto solo di questa mia fede. Ma come non
credermi? Io ho veduto la verità: l’ho veduta in una si piena integrità da non
poter credere che essa non possa esistere presso gli uomini. Ma ecco, questo
appunto i beffeggiatori non capiscono: “Un sogno – dicono – hai visto, un delirio,
un’allucinazione”. Eh! Forse che questa è sapienza? E loro tanto si
inorgogliscono. Un sogno? Che è un sogno? E la nostra vita non è un sogno? Dirò
di più! Sia pure, sia pure che questo non debba mai avverarsi e che il paradiso
non possa esistere (questo sì, ormai lo capisco!): be’, ma io tuttavia
racconterò… racconterò… racconterò. E intanto la cosa è così semplice: in un
sol giorno, in una sola ora tutto si assesterebbe di colpo! Soprattutto: ama
gli altri come te stesso, ecco quel che è essenziale, ed è tutto, non occorre
proprio nulla di più: subito troverai come comportarti. E intanto è soltanto
una vecchi verità, che un milione di volte si è ripetuta e letta, eppure non ha
attecchito. “La coscienza della vita è superiore alla vita, la coscienza delle
leggi della felicità è superiore alla felicità”: ecco con che cosa bisogna
lottare! E lotterò. Sol che tutti lo vogliano, e tutto subito si assesterà.
E quella bambina l’ho trovata… E io andrò! andrò!
Fëdor Michajlovič Dostoevskij
Andrea Giostra