Romanzi da leggere a puntate online. 19^ puntata, II Parte, 1° capitolo del romanzo “Anzol” di Haria

a cura di Andrea Giostra - La 19^ puntata dei Romanzi da leggere online è dedicata alla II parte, 1° Capitolo del romanzo “Anzol” di Haria.

In copertina Barbara Pietrolino (Torino 1977), “Donna sdraiata”, 2018, olio su tela, https://www.barbarapietrolinopaintings.com/

Seconda Parte, 1° Capitolo

LA SECONDA SORTE

Per Ottia, veggente che veniva da un’altra èra e aveva negli occhi un altro mondo, quella piana attraversata da un rio impetuoso e circondata da invalicabili intrichi di rovi e liane di vitalba che velavano i boschi era il luogo perfetto.
Smontò dal mulo strabico e piantò i piedi sul suolo umido e fertile, poi costruì una dimora presso l’argine settentrionale del rio. A notte fonda i suoi occhi sognarono un luogo sterminato, invisibile ai nuovi uomini che altrove si accanivano a popolare un mondo vuoto. Si addormentò supina sull’erba che non ricordava di essere nata nel fango.
Il tempo non la sorprese, perciò quando un uomo e una donna apparvero dagli intrichi Ottia non si stupì. Il loro sguardo era colmo di timore per l’ignoto e i loro occhi avidi di terra. Li lasciò avvicinare e permise loro che la scrutassero inespressivi, mentre con parole intrecciate - che scimmiottavano il linguaggio dei gesti - le chiedevano il permesso di vivere lì. Illo e Ulla si dettero subito da fare, senza fretta ma senza riposo. A Ottia parvero ostinati e metodici come pioggia di primavera, ma si sbagliava: al primo tuono di un remoto temporale abbandonarono zappa e vanga e corsero a rannicchiarsi spauriti nell’angolo più buio della sua dimora. Ottia li guardò tendere l’udito, gemere in anticipo sull’eco di un secondo tuono, che non si udì. Non riuscì a convincerli che si trattava di un evento che riguardava un altro luogo e forse un altro tempo, e non servì a niente mostrare loro dalla finestra il cielo sereno. Uscì stizzita, vagò per la piana e finalmente comprese.
“Ecco perché sono arrivata qui, per preparare il terreno al destino. E così sia”.
Tornò indietro, raccolse le sue cose e chiamò fuori i due.
«Me ne vado. Vi lascio questa dimora e la terra che la circonda. È fertile, abbiatene cura come avrete cura di vostra figlia. Chiamatela Ottia».
Montò sul mulo e lo spronò. Illo e Ulla la guardarono allontanarsi lungo la piana, verso l’ignoto.

*

Era un maschio, non una femmina.
«E ora?», fece Illo palpando il suo primo figlio.
«Lo chiameremo Ot», decretò Ulla.
Il tempo si rese metodico. A intervalli regolari nacquero Ottia, Gumma, Tenna, Pilla e -quando Illo e Ulla disperavano ormai di avere un altro maschio - Mollo.
Si capì presto che Ot, il primogenito, aveva carattere: non parlava ancora e già imponeva i suoi capricci; ragazzino, riusciva ad addomesticare volpi, conigli selvatici, cinghiali, topi, lucertole e biscie; giovane uomo, in mezza stagione tracciò sul suolo della piana, senza ripensamenti, la pianta di un labirintico villaggio. Alzò la testa, fiutò nel vento e disse: «Arriverà gente».
Non dovette aspettare molto. In meno di una stagione la piana si riempì di uomini, donne, giovani, vecchi, bambini con lo sguardo vagante nel vuoto del vento e gli occhi affamati di solidità.
Illo e Ulla, invecchiati con l’animo sereno di chi ha fatto la propria parte, spendevano il loro riposo seduti in silenzio su due sgabelli a pochi passi dagli intrichi. Guardavano la gente uscire dall’ignoto, entrare alla spicciolata nella piana seguendo la scia del vento e diramarsi lungo i solchi che definivano i multiformi perimetri delle future dimore.
Disinvolto, Ot si autonominò supervisore dei lavori di edificazione. Non dispensava consigli, ma con eloquenti gesti le sue mani invitavano la gente a rispettare le linee perimetrali, indicavano questa o quella imprecisione nella disposizione delle pietre, esortavano a non cedere alle scaltrezze dell’estetica. Contavano sobrietà e resistenza.
Un terzo di stagione dopo il villaggio era fatto. Ot salì sul tetto più alto per avere una visione d’insieme: si voltò nelle quattro direzioni, valutò l’opera e si ritenne soddisfatto. Ora bisognava riunire la gente e dare un nome al villaggio.
Per primi sortirono i nomi più scontati: Piana, La Piana, Ventoso (per via del vento che ormai si era stabilito nella piana), Oltreintrico, ma furono subito scartati. Parvero migliori nomi che esprimevano il concetto di collettività: Villaggionostro, Casacomune, Dimoraperta, ma non pochi dubitarono che con l’andare del tempo il villaggio avrebbe meritato di conservare un nome simile. Cosecase, Vittoalloggio, Pietraforte suonavano troppo generici e allo stesso tempo pretenziosi; Uk, Ol, Et casuali e troppo brevi.
Ci pensò la natura. Un mattino la gente si svegliò con un odore di uova marce nel naso, leggero ma persistente. Si ipotizzò che il vento lo avesse portato dall’ignoto, ma l’aria era stranamente ferma - anzi, immobile - e il cielo velato di vapori. La gente si raccolse nella piazza principale e Ot risalì sul tetto più alto. Vide un getto continuo di un liquido scuro schizzare in alto con un sibilo che ricordava quello di un serpente e irrorare a fontana il suolo circostante. Ot ricordò l’oscura frase che un giorno suo padre aveva pronunciata avviandosi con due sgabelli sottobraccio verso l’estremo confine occidentale della piana: «Tua madre e io andiamo a sederci presso l’Anzol». Allora non aveva capito, ma ora, guardando i genitori seduti a dieci passi dal getto, le parole di suo padre echeggiarono profetiche. Se anzol era il getto, Anzol sarebbe stato il nome del villaggio.

*

Illo morì una sera d’autunno e Ulla lo seguì il mattino dopo. Ot e i suoi fratelli li seppellirono nel breve spazio erboso che aveva ospitato il loro silenzioso affetto per il fertile suolo, le erbe e i fiori della piana.
Gumma, Tenna e Pilla si accasarono con tre operosi costruttori di dimore, ma Ottia non ne volle sapere di prendere marito; si prese invece cura del giovane Mollo, che alternava irrealtà a insensatezze.
Però il getto restava un mistero e nessuno sembrava ansioso di scoprire la sua natura. Ci pensò Ot. Con cauta determinazione una sera si presentò sotto il getto con l’aria di chi non teme il pericolo ma lo rispetta; lo scrutò a lungo, poi riempì una pentola di coccio di quel liquido oleoso. Tornò e si chiuse in casa.
Uscì tre giorni dopo con la stessa pentola sottobraccio, piena a metà del liquido. La gente era già riunita in piazza e biascicava la saliva dell’attesa. Ot posò a terra la pentola e vi avvicinò la punta infuocata di un bastoncino. Immediatamente il liquido si incendiò. Ot guardò la gente ritrarsi spaventata. Sorrise.
«Sapete cosa significa? che non avremo più bisogno di legna per scaldarci», disse con orgoglio.
Gaigo fu il nome che Ot dette al liquido, e la gente prese a riempire di gaigo pentole, pignatte e brocche. Presto non ci fu dimora ove non si ostentasse la portentosa qualità del liquido, ma benché i vantaggi fossero evidenti, scaldarsi obbligava la gente a sopportare l’odore di uova marce che si sprigionava per le stanze; era un problema.
Ci pensò Caldaio, marito di Gumma: costruì una giara cilindrica di coccio resistente a una fiamma continua e sostenuta da quattro piedi di legno che la isolavano dal pavimento; all’interno il gaigo era contenuto in un recipiente collegato a un tubo di coccio che saliva per tutta la giara e usciva all’esterno attraverso un foro praticato nel tetto. Si dava fuoco al gaigo attraverso una piccola apertura sulla giara e il fumo saliva lungo il tubo e si disperdeva nel vento.
Bastarono due dimostrazione pubbliche perché la caldaia divenisse l’oggetto più richiesto. E a Gumma bastò un semplice calcolo per convincere Caldaio a dedicarsi completamente alla costruzione di caldaie.
Deluso dagli avvenimenti che lo avevano messo in disparte Ot si estenuò in lunghe passeggiate solitarie lungo il bordo degli intrichi.
Fu in quei giorni che si imbatté - un pò per caso, un pò per curiosità - in un’estensione di arbusti carichi di bacche nere dai vividi riflessi blu. Sfidando l’ignoto ne assaggiò una: era aspra, legava la bocca, ma gli piacque. Tornò a casa con le tasche piene di bacche, le rovesciò in una cesta e andò difilato da Caldaio.
Lo trovò seduto per terra nel suo laboratorio, con la testa fra le mani.
«La caldaia mi ha rovinato la vita», piagnucolava. «Da quando l’ho inventata non faccio che ripetermi. Non vivo più».
«Conosco il rimedio che ti sbarazzerà di quella tenia», rispose Ot.
«Hai detto bene, costruire caldaie è la mia tenia».
«Io so come produrre l’ebbrezza, ma ho bisogno del tuo genio», ribatté Ot.

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Note dell’editore:
«Haria vive ritirata sull'appennino ligure-emiliano, e comunica con il mondo esterno mediante i suoi libri, in cui dispensa la conoscenza di cui è portatrice. Ove giovani donne, in secoli diversi, in fuga dal proprio tempo, in fuga per la consapevolezza e la libertà. Nove vite, una vita, e una luce negli occhi che le guida e le accomuna. Nove donne oltre il varco sull'ignoto, per un magico, solidale destino.»

“Anzol”, Haria, Collana Letteratura di Confine, Proprietà letteraria riservata, © RUPE MUTEVOLE, prima edizione 2013, ristampe 2017.

Cristina del Torchio
https://www.facebook.com/RupeMutevoleEditore/
https://www.reteimprese.it/rupemutevoleedizioni 

Andrea Giostra

Fattitaliani

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