a cura di Andrea Giostra - La 16^ puntata dei Romanzi da leggere online è dedicata al quarto capitolo del romanzo “Anzol” di Haria.
In copertina Turi Volanti (Floridia 1930 - 2018), “Amanti”, olio su tela.
IV capitolo
Mira sognò che il
foglio si posava sulle sue mani aperte, lei alzava lo sguardo e vedeva la
nebbia dissolversi e il cielo - il cielo azzurro di cui conosceva storie e
leggende - aprirsi su Anzol. Si svegliò com’era: ragazza straniera in un
tempo non suo, sola in una casa desolata. Uscì inquieta nelle vie umide e
strette.
Il mercato la vide
entrare nella calca del mattino. La vide Falco, sceso a godersi lo spettacolo
di nuovi lazzi e pagliacciate che un gruppo di comici improvvisava in suo
onore. La vide Addo l’astromanno, la vide Donna la strega. Mira non guardò
nessuno, proseguì nel suo fare astratto.
Due armati la
bloccarono. Si ritrovò davanti a Falco, oscenamente sbracato su una poltroncina
cigolante. La vecchia la fissava, il gobbo Addo la squadrava di sottecchi.
«Chi sono io?», starnazzò Falco spogliando Mira con gli occhi.
«Il padrone del
mondo», rispose Mira.
«Brava. Hai detto
bene».
«Attento mio signore,
la ragazza è scaltra», fece Addo.
«Un giorno potrebbe servirti», gracchiò Donna.
«Mi piace», approvò
l’occhio illanguidito di Falco. «Portatela al sesto piano e datele una stanza
che non puzzi di fogna».
Due tempi dopo
Uppia partorì un maschio. Falco convocò per un parere Donna e Addo.
L’astromanno espresse qualche cauto dubbio sulla robustezza mentale del
neonato, ma la strega pronosticò che il bambino sarebbe cresciuto robusto e
coraggioso come suo padre. «Un vero capo».
Falco mostrò il figlio
alla folla. «Un giorno lui prenderà il mio posto. Imparate a temerlo».
Prima dama di Anzol,
adulata dallo strascico di parassiti che schiamazzava su e giù per i piani
dell’altobanco, vezzeggiata dalle rotonde fantesche arruolate al suo seguito e
sicura del potere conquistato Uppia si lasciò andare ai bagordi che per troppi tempi
aveva tenuti a freno. A furia di mangiate a base di trippa, lardo, ceci, fave e
castagnacci ingrassò, smise di lavarsi e dimenticò i pettini, le spazzole e i
belletti. In mezzo tempo si trasformò in una maleodorante sciattona.
Ciabattando su e giù per le scale con lo sguardo spento e il fare annoiato non
rispondeva al saluto degli adulatori - e forse ormai non li vedeva nemmeno - né
si sforzava di accennare un sorriso quando scorgeva il suo signore, che dal
giorno della nascita del piccolo Gaddo non dormiva più con lei.
Era più di quanto Falco potesse sopportare. Un giorno la raggiunse mentre
vagava lungo i corridoi, l’afferrò per i capelli stopposi e incolore, la
trascinò al primo piano, la mostrò alla folla e gridò:
«Cosa devo fare di
questa scoreggiona?».
Per un istante la
gente ammutolì, poi esplose in un coro di scherno.
«Hai sentito? ritorna
nel tuo fetido letamaio».
Anzol la guardò
allontanarsi in groppa a un mulo.
«Mi serve una donna»,
bofonchiò Falco. «Una vera dama, stavolta. Che sia bella, fiera e incuta
rispetto».
«Mio signore, una dama
così non esiste nemmeno sulle stelle», disse l’astromanno.
«Una ci sarebbe», si
intromise la strega.
«Chi è?».
«La ragazza che ti
piaceva. La straniera».
Mira non distolse lo
sguardo mentre Falco la spogliava con gli occhi. «La gente ha bisogno di una signora
e io di una donna».
Mira non rispose.
Falco tagliò corto. «È deciso. Sarai la prima dama di Anzol».
Mira lasciò fare al
rinnovato ardore amoroso di Falco e si prese cura di Gaddo, già segnato da
gesti inconsulti che disarmonizzavano il suo
corpo sproporzionato.
«Sarà un
mostriciattolo», opinò Donna.
Mira la fissò. «Ti ho
sentito dire tutto il contrario. Da che parte stai, strega?».
«Dalla mia, dalla parte delle streghe. Un giorno saranno padrone di Anzol e
tua figlia darà ragione alle mie parole».
L’incommensurabile
spazio a piano terra dell’altobanco fu trasformato in oteria, e così
continuò a chiamarsi. Non vi si mangiava, si beveva soltanto, e qualche volta i
gesti rituali dei bevitori erano accompagnati dai suoni di zampogne e strani
strumenti a corda portati da musici vaganti.
Falco di Piana era il
venerato cliente del decimo momento (le dieci e mezza di sera), ma gli
piaceva pensare che nell’oteria lo considerassero uno della gente, e con
la gente condivideva sbornie, provocazioni e pestaggi. Fino a un certo punto
però: quando la rissa si faceva incontrollabile entravano in gioco i quattro
cacciafuori e il trambusto si riduceva a una sfida a base di insulti urlati a
distanza. Allora Falco si sbracava sulla sua panca preferita e cominciava a
ridere; rideva senza freno, e non c’era musica che lo distraesse, donna che lo
infiammasse, gioco che lo attirasse. Rideva, con gli occhi liquidi e la bocca
spalancata, rideva finché i cacciafuori non lo portavano via.
Luna nacque al dodicesimo
e un quarto momento del tredicesimo aspetto del quarto tempo. Mira la
partorì accucciata su una grande bacinella piena d’acqua tiepida, secondo
l’antica usanza straniera. Donna la strega tagliò il cordone ombelicale,
avvolse la creatura in una morbida coperta di lino, la consegnò a Mira e si
affacciò a una delle ventisette finestre del dodicesimo piano. «È nata! ditelo
al padre!», urlò.
Lungo disteso sulla panca Falco rideva. Non smise nemmeno quando gli
annunciarono l’evento; ma stavolta non osarono toccarlo, perché i suoi occhi si
erano fatti rossi, il suo sguardo fisso, il suo viso paonazzo, il suo corpo
percorso da fremiti e in preda a spasmi.
«Sembra il piccolo
Gaddo quando ha gli attacchi», disse qualcuno.
Falco smise di ridere,
si alzò, fece un passo avanti e rovinò a terra travolgendo brocche, tavoli e
panche. Luna era nata, Falco era morto, Anzol sbigottiva nel caos.
La nebbia guadagnava
spazio e una notte si assestò all’altezza delle finestre a pianterreno.
All’alba Itto - mercante di sapone - vide uscire una figura con la testa
avvolta nella grigia densità. «Sei tu, Mallo?», esclamò. Il grugnito che ebbe
in risposta confermò la sua impressione.
Per riconoscersi la
gente prese a chiamarsi, e Anzol fu attraversata da una ininterrotta catena di
nomi pronunciati a gran voce. Quando questo espediente non bastò più - perché
si faceva confusione con tutti gli omonimi che circolavano - si ricorse ad appellativi
che evocavano mestieri, arti e professioni, sicché Itto divenne Itto Saponario,
Mallo fu Mallo Scavatore, Uccio fu Uccio Ferraiolo, Adda fu Adda Levatrice.
Donna la strega
valutava la situazione: erano trascorsi appena quarantadue momenti dalla
morte di Falco e già fra i piani si parlottava, si formavano gruppetti di
armati, si ipotizzavano sortite e vendette. Tutto era possibile.
Donna riunì i suoi fedeli e comandò un’azione a sorpresa. Al dodicesimo
piano annullò il manipolo di guardie che proteggeva Gaddo; scese all’undicesimo
e massacrò una dozzina di armati; calò al decimo, al nono, all’ottavo
infettando di sortilegi chiunque le sbarrava il passo; occupò il settimo piano
- il più agguerrito - spruzzando ‘acqua di putredine’ sulle facce degli
scalmanati oppositori; saltò sul sesto, dove soltanto la megera, l’astromanno e
i nani non si piegarono (e furono scannati); rovinò sul quinto piano incitando
i suoi fedeli a fare strage di baldracche, meretrici, mantenute, ruffiani,
consiglieri, adulatori e servi; volò sul quarto e piegò l’ultima, insicura
resistenza; il terzo, il secondo e il
primo piano erano già sgombrati quando apparve. A pianterreno - nell’oteria
stracolma - la gente chinò la testa.
«Il tempo delle
streghe è arrivato», proclamò Donna.
I falchi tornarono a chiamarsi soldi e il complicato
calendario imposto da Falco fu sostituito con le intuizioni, sistema che
univa l’arbitrariarità alla divinazione. Il tempo divenne un’interpretazione
che traeva dalla nebbia segni e simboli. Se uno voleva sapere in che momento
del giorno si trovava alzava lo sguardo e il primo segno che percepiva - una
sfumatura di grigio, un impercettibile movimento laterare della nebbia, un
vapore che si dissolveva o si intensificava - gli fornivano l’intuizione per
decidere se fossero le prime ore del mattino, mattino inoltrato, ora di pranzo,
primo pomeriggio o pomeriggio inoltrato. Per l’alba, il tramonto e la sera non
c’erano problemi, erano segni evidenti, e le stagioni alternanze climatiche che
ognuno poteva decifrare soggettivamente. Del computo del passato non ci si
occupò più e il futuro fu un’ infinita zona vuota nella nebbia che si
sarebbe riempita di volta in volta.
Ma la notte era
un’altra faccenda: al calare del buio non c’erano più punti di riferimento né
segni da interpretare e la nebbia era una densità minacciosa che celava
malasorte o follia. Di notte tutto poteva accadere, di notte vagavano le streghe
di Anzol.
Donna si era
catapultata nel cuore del mercato e una dopo l’altra aveva scovate sei vecchie
dall’incedere continuo e cadenzato: sei figure minute, piegate, raggrinzite,
partorite dal fetore dei vicoli bui, lerci e abbandonati. I loro abiti spenti,
sfilacciati, disadorni sprigionavano un odore di muffa, orina e muschio
fradicio: era la traccia che Donna cercava, il primo segno di complicità con la
tenebra; l’implacabilità, il secondo, lo vide nei loro occhi mobili, nei loro sguardi
accesi; il bieco sarcasmo, il terzo, lo percepì nei loro ghigni.
Le rese sentinelle del buio, ottennero il potere di attirare la gente in
fitte densità di nebbia e di insinuare l’orrore negli sguardi. E Anzol si
raccolse nei fumi dell’oteria, si trincerò nei gravi silenzi che
occhieggiavano l’esterno oltre i vetri appannati delle finestre, si rannicchiò
sul fondo di bicchieri e brocche vuote, si stordì nella musica di corde di
budello pizzicate con monotono artificio, affogò nell’ot. Chi - alzando
le spalle - sfidò la notte, non tornò o tornò folle; chi - ubriaco - si
allontanò oltre gli ultimi riverberi delle fiaccole, sparì. L’oteria fu
per Anzol il rifugio estremo e il mercato lo fu per la folla.
Sperduto in labirinti
di veli, tendaggi, tappeti e suppellettili Gaddo era cresciuto ignaro e
malaticcio, tormentato da una tossicina secca, estenuato da un cibo irreale e
soffocato dalle asfissianti premure di fantesche e servette. Ma da qualche
tempo avevano smesso di chiamarlo ‘signorino’ e non sapeva perché; gli avevano
tolto il suo gioco preferito (i dadi, con i quali si ingegnava a costruire
piccoli altobanchi) e non se ne faceva una ragione; gli era stata imposta una
vecchia acida e ingobbita che lo spaventava fino a farlo piangere. Una sera
quella entrò ciabattando, lo prese per i capelli, lo trascinò alla finestra, la
spalancò, lo costrinse a guardare fuori e gli sussurrò: «Nella nebbia ci sono
le streghe». Lo lasciò andare, ridacchiò e ciabattò fuori ripetendo: «Entrano
di notte nelle case e prendono l’anima ai bambini».
Gaddo chiuse la
finestra. Avvicinò il viso ai vetri e scrutò nel buio.
La nebbia riprese a calare; si fermò a un metro dal terreno e strinse la
folla in una morsa di vuoto. Delle case di Anzol, delle vie umide e strette,
dei suoni che riempivano il giorno non restò che un indefinito ricordo. L’oteria
sparì alla vista e a poco a poco fu dimenticata, mentre la nebbia assorbiva il
fare della gente e della folla e le streghe lo manipolavano. Le urlatrici -
donne che annunciavano sconti e saldi - persero la voce, gente ferma presso i
banchi scomparve all’improvviso, vecchi venditori ritenuti morti riapparvero
esibendo stoffe sfilacciate e cibi ammuffiti e la folla si adattò a una nuova andatura
fatta di brevi passi strascicati che ritmavano il solido tintinnio dei soldi.
Mira non si era mai
allontanata dalla sua stanza al sesto piano dell’altobanco. La sua ragione di
vita era Luna e per proteggerla aveva appreso in fretta l’arte sottile della
simulazione. Passò indenne la mattanza dei seguaci di Falco e restò nell’ombra.
Donna la lasciò stare; voleva Luna, ma non prima che la piccola avesse compiuto
quattro anni. Ripescò Gaddo, gli tolse la volontà, lo trasformò in un devoto
mostriciattolo e lo spedì all’oteria, ‘l’isola invisibile’.
Chi lo vide entrare -
una notte gelida - non lo riconobbe: quel nanetto senza età, tracagnotto, tutto
testa e capelli trotterellò verso il banco di mescita, vi si arrampicò e si
lanciò in una ipnotica sequenza di contorcimenti. La gente rise, applaudì, si
fece attenta, si avvicinò, lo circondò. Gaddo eseguì una capriola, si rizzò,
trasse una fiaschetta e schizzò tutt’intorno ‘acqua di putredine’. L’oteria fu
infettata di orrore, fuori le fiaccole si spensero e le urla e i gemiti che
dentro rimbalzavano sulle pareti, sui tavoli e le panche rovesciate, sugli
specchi dietro il banco di mescita furono echi lontani che la nebbia soffocò.
L’alba non raggiunse l’oteria. Gaddo piroettava spargendo la follia e la
morte.
L’umidità prese Anzol, avanzò lungo le vie, risalì i muri esterni delle
case, si infiltrò nelle pareti, entrò nelle stanze, si fissò addosso agli abitanti
e li piegò in una lamentosa e ripetuta sofferenza. Fuori il silenzio ristagnava
e gli sguardi non si levarono più a interpretare il tempo. Lo dimenticarono.
Fu quando la nebbia
toccò il suolo che il mercato si fermò; tacque la folla, tacquero i soldi,
tacquero le cose per un istante lungo; un incedere esitante e diseguale segnò
il nuovo rumore dei passi nel vuoto completo e un brusio incostante e
frastagliato sostituì le voci. Allora si scatenò la furia delle streghe.
E Donna scese al sesto
piano e chiese Luna a sua madre. «Tua figlia sarà una strega, nella nebbia».
Mira non si oppose. La
sua parte richiedeva che chinasse la testa, e lo fece con impeccabile
simulazione. Donna la fissò e grugnì. «Portala giù, nella stanza sotto l’oteria.
Stanotte. Tu puoi restare o andartene, ma non rivedrai mai più tua figlia».
Mira non attese
l’oscurità. Era ancora giorno quando uscì dall’altobanco tenendo per mano Luna.
La nebbia le avvolse e la folla le assorbì.
«Non avere paura,
Luna».
Molte volte urtarono
corpi, inciamparono, caddero, si rialzarono, ripresero la marcia nel vuoto
grigio. Il buio le sorprese circondate da un rado tintinnio di soldi.
«Siamo quasi fuori.
Corri».
Un muro le fermò. Mira
toccò la superficie: colava umidità. Udì un urlo di rabbia in lontananza: era
Donna, lo sapeva. Altri urli seguirono. Il tintinnio si placò. Mira prese in
braccio Luna e corse.
La piana, gelata, satura di nebbia, non le respinse né le attirò nei solchi
che il tempo irrisolto di Anzol ignorava. Gli intrichi le accettarono. Mira
avvolse Luna in una coperta e si inoltrò con lei nel fitto; si ferì, si lacerò,
ma proseguì. Si fermò in una piccola radura che i rovi non sovrastavano e
sedette sfinita sull’erba. Vide il cielo stellato, lo guardò a lungo e ricordò
le vecchie storie che lo descrivevano. Cercò di imginare una terra al di là di
quel confine, ma seppe che non poteva andare oltre, che il suo destino si era
compiuto, non le concedeva una nuova vita e le imponeva un’ultima sfida. Guardò
Luna addormentata: era libera, pura, e in sonno o in veglia forse una donna
degli intrichi l’avrebbe trovata e tenuta con sé. Sperò che fosse così, che
le figure che nelle leggende popolavano gli intrichi esistessero davvero.
Tornò indietro, sola.
Corse nella nebbia e si avventò con furia sull’urlo delle streghe.
Luna si svegliò nel
docile tepore di un intreccio di rovi e liane di vitalba: era un luogo
sconosciuto, ma le piaceva. Una luce intensa lo dominava e scaldava il suo
corpo; era così forte che la obbligava a tenere gli occhi socchiusi.
«È il sole», disse una
voce. Luna volse lo sguardo su una giovane donna: era diversa da sua madre, era
minuta, con lunghi capelli neri e occhi di un colore mutevole. «Il sole che non
hai mai visto, piccola, che illumina la terra, che dà il sorriso ai bambini».
Luna alzò lo sguardo
sul cerchio abbagliante.
«Non guardarlo, guarda
il cielo, che è la sua casa», disse la giovane donna.
«Il cielo è così
grande?».
Per leggere i precedenti capitoli, clicca qui:
Note dell’editore:
«Haria vive ritirata sull'appennino ligure-emiliano, e comunica
con il mondo esterno mediante i suoi libri, in cui dispensa la conoscenza di
cui è portatrice. Ove giovani donne, in secoli diversi, in fuga dal proprio
tempo, in fuga per la consapevolezza e la libertà. Nove vite, una vita, e una
luce negli occhi che le guida e le accomuna. Nove donne oltre il varco
sull'ignoto, per un magico, solidale destino.»
“Anzol”, Haria, Collana
Letteratura di Confine, Proprietà letteraria riservata, © RUPE MUTEVOLE, prima
edizione 2013, ristampe 2017.
Cristina del Torchio
https://www.facebook.com/RupeMutevoleEditore/
https://www.reteimprese.it/rupemutevoleedizioni
Andrea Giostra