Francesca Natoli Hien e il 1° romanzo "Apriti Cielo" tra mito, mistero e sorellanza. L'intervista di Fattitaliani



Con Apriti Cielo (Operaincerta Editore), Francesca Natoli Hien firma il suo primo romanzo, dopo esperienze nel giallo e nella narrativa per l’infanzia. Una storia che mescola il fascino della mitologia classica con la tensione psicologica, intrecciando mito e quotidianità, archeologia e vita vissuta. La Sicilia non è solo sfondo, ma un vero personaggio che accompagna la protagonista Carla in un viaggio di dolore, rivelazioni e riscatto. Un’opera intensa, visionaria e coraggiosa, che non lascia indifferenti e fa della sorellanza e della ricerca di sé il suo cuore pulsante. L'intervista di Fattitaliani all'autrice.

Apriti Cielo è il suo primo romanzo dopo esperienze nel racconto giallo e nella narrativa per bambini. Com'è nato il desiderio di scrivere questa storia più ampia e ambiziosa?

Sentivo la necessità di scrivere una storia più articolata, in cui poter tracciare l’evoluzione psicologica dei protagonisti e creare un mondo fantastico ma pieno di realismo e di dettagli.

La protagonista Carla intraprende un viaggio in Sicilia che diventa anche un percorso interiore. Quanto c'è di autobiografico o personale in questa scelta narrativa?

Noi donne siamo sempre piene di sensi di colpa e alla disperata ricerca di controllo e perfezione. Dovremmo cercare di essere più indulgenti con noi stesse. Sin da piccole, invece, ci sentiamo oppresse dal peso delle aspettative altrui e dal nostro innato desiderio di compiacere chi ci ama. Inoltre aspiriamo a una parità di ruoli e diritti con l’altro sesso, il cui mancato compimento è fonte di quotidiana frustrazione.

Il titolo Apriti Cielo è molto evocativo: da dove nasce e che significato racchiude per lei?

Sarebbe bello di tanto in tanto ricevere un aiuto dall’Alto. Nel mio romanzo il Cielo non è legato alla religione cattolica, ma alla mitologia greca, a dimostrazione del fatto che da sempre l’umanità ha rivolto lo sguardo verso l’alto per avere risposte sul proprio destino. Apriti Cielo è quindi una speranza, un’illusione che ciò possa avvenire.

Lei intreccia il fascino della mitologia classica con la tensione del giallo psicologico. Come ha trovato l'equilibrio tra questi due registri narrativi?

Ho raccontato una storia con la libertà assoluta di un foglio bianco, non mi interessava rientrare in un genere o nell’altro. Apriti Cielo è un grande contenitore di esperienze e di emozioni.

Nel libro i miti diventano una lente per parlare di violenza e riscatto. C'è un mito in particolare che sente più vicino al cuore del romanzo?

Nessuno in particolare perché le storie femminili si assomigliano un po’ tutte: il femminicidio, lo stalkeraggio, il revenge porn sono termini recenti per soprusi antichi. Rileggere le Metamorfosi di Ovidio oggi, alla luce di questa consapevolezza, mette in dubbio l’effettiva evoluzione del ruolo della donna nei secoli.

Si percepisce una forte componente visionaria. Ha attinto a esperienze personali, a studi o a suggestioni letterarie specifiche per costruire questa dimensione?

Il liceo classico e la mia professoressa di italiano sono stati determinanti per la creazione di questo romanzo. Con l’età adulta però ho visto più chiaramente come questa stessa cultura abbia creato stereotipi ancestrali che, a venti secoli di distanza, sono ancora profondamente radicati in noi.

La Sicilia non è solo ambientazione ma un vero personaggio della storia. Qual è la sua relazione personale con questi luoghi?

Sono siciliana, anche se vivo all’estero da più di vent’anni. In Sicilia succedono cose strane, molti miti sono nati qui. Per attraversare lo Stretto, il ponte non aiuterebbe: ci sono Scilla e Cariddi a dare il benvenuto; sotto l’Etna è imprigionato Tifone e Kore, quando era ancora una ragazzina spensierata, correva felice nei pressi del lago di Pergusa.
Probabilmente ogni angolo della Terra ha i suoi miti e le sue leggende, ma sono queste le storie con cui sono cresciuta io.

Nella scrittura ha cercato di restituire più la Sicilia dei miti, quella archeologica, o quella viva e quotidiana?

Entrambe. I miei personaggi vivono nel presente, ma il passato entra con forza nelle loro vite. Le due realtà si fondono perché quello che è raccontato nel mito non è altro che una trasposizione colorata di fatti realmente accaduti.

Le suggestioni culinarie che emergono nel romanzo sono un dettaglio affascinante: come si legano alla narrazione?

In Sicilia la cucina è cultura gastronomica, frutto della sedimentazione di decine di invasioni. Il cibo è passione, scialo, scoperta. Le porzioni sono abbondanti perché la generosità degli isolani è tangibile in ogni sua manifestazione e perché il peccato di gola è in realtà la principale virtù epicurea.
Così i protagonisti del mio romanzo non possono esimersi dal provare e dal sorprendersi dell’opulenza e dell’incredibile varietà della cucina siciliana, tutta a chilometro zero.


Lei cita Agatha Christie e Andrea Camilleri come riferimenti. In che modo questi autori hanno influenzato il suo stile?

Io leggevo Agatha Christie quando i miei coetanei leggevano Pollyanna e L’isola del tesoro. Per me era come una prova di enigmistica, un puzzle da decifrare prima che il nome dell’assassino venisse svelato.
Con i film tratti dai romanzi di Andrea Camilleri è cresciuta un’intera generazione: anche per lui la Sicilia è un personaggio quasi fisico.
Di entrambi gli autori apprezzo molto il fatto che riuscissero a parlare di delitti senza tutta quella violenza gratuita, senza dettagli macabri, scene splatter così di moda oggi. Sono romanzi gialli per tutte le età: stimolano il pensiero, mai l’aggressività.

Il suo romanzo mescola thriller, diario di viaggio e manifesto di sorellanza. È stata una scelta consapevole fin dall'inizio o si è imposta strada facendo?

Io chiudo gli occhi e apro la mente, fino ad ora la mia musa non mi ha mai lasciato sola. Lei sa suggerirmi storie che io non avrei mai immaginato di poter inventare. Poi nascono i personaggi, posso quasi vederli, anche perché assomigliano a persone che conosco davvero, e loro agiscono secondo la loro personalità.
Per questo il genere letterario non è definito: dipende dai giorni, dalle situazioni, come la vita.

Ha dichiarato: "Può piacere o no, ma certamente non annoia". Crede che la scrittura debba provocare, anche a costo di dividere i lettori?

Certo. Non possiamo piacere a tutti. Io scrivo quello che mi piacerebbe leggere. Odio quei romanzi in cui leggi le prime cinquanta pagine e non è successo niente. Non amo perdermi in descrizioni, mi piace sorprendere con eventi inattesi e sconvolgimenti improvvisi. Amo disorientare.

La forza delle figure femminili attraversa tutto il romanzo. È un tema che le sta particolarmente a cuore e che intende portare avanti anche nelle sue prossime opere?

Non saprei, dipende da cosa mi sussurrerà la mia musa la prossima volta. In realtà ci sono tanti temi validi e tante storie diverse da poter raccontare.

Secondo lei la letteratura può contribuire concretamente a rafforzare il senso di sorellanza e solidarietà tra le donne?

Sì. Perché conosco alcune donne misogine: la cultura maschilista e patriarcale non ha solo donato un senso di superiorità ad alcuni uomini, ma anche quello di inferiorità a molte donne. Dobbiamo invece ribadire sempre la parità nella diversità.

Come si sta preparando alle presentazioni e che tipo di dialogo si aspetta con i suoi lettori?

Attendo con ansia questo confronto, anche perché vivendo a Barcellona ho pochi amici a cui far leggere il mio romanzo in anteprima. Mio marito, ad esempio, non parla italiano e mia figlia è troppo piccola.


Fattitaliani

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