Seconda Parte
3° Capitolo
Nessuno collegò
l’impeto del vento all’arrivo della strana donna, ma l’irritazione che gli
strani suoni provocavano crebbe, anche perché nessuno era riuscito a capire la
natura del tintinnio metallico né a decifrare l’accavallarsi delle voci, che
ora le folate spingevano contro le case. Nessuno immaginava che si potesse
trattare di echi di un altro tempo, ma era così; era la memoria della prima
Anzol che persisteva e non voleva dissolversi nell’eternità.
Quando si vide il
vento accanirsi sul gaigo e comprimerlo verso il suolo l’irritazione
mutò in costernazione, questa in greve impotenza e poco dopo dilagò il panico.
Con un’occhiata stanca
Caldaio stimò la diminuzione del getto e tornò dicendo che a suo parere non
c’era niente da fare e tanto valeva rassegnarsi: in meno di due stagioni il gaigo
sarebbe scomparso.
Nessuno osò
pensare di tornare alla legna da ardere. L’oteria fu percorsa da
febbrili discussioni circa il modo di fermare l’azione del vento e da Ottia si
finì per tenere sempre aperto. Mollo passò a mescere ot al banco e
Ottia, da qualche tempo costretta su una pesante sedia a rotelle di legno
oscuro, prese a servire ai tavoli. Ogni volta che le portava un bicchierino
vedeva la donna disegnare con le dita ipnotici percorsi sul piano del tavolo di
noce, come se quelle dita seguissero le venature del legno in un gioco ostinato
e perverso. La donna buttava giù l’ot, con uno scatto degli occhi ne
chiedeva un altro e nell’attesa fissava il vuoto, incurante del vocìo che
infittiva intorno a lei. Senza nome la donna, senza età, assente e vigile allo
stesso tempo. Ottia la guardava di sottecchi, e una notte i loro sguardi si
incontrarono.
Ot comparve sulla
porta socchiusa, ma questa volta entrò. I suoi occhi cercarono quelli di Ottia
e li trovarono in fondo alla sala, in un angolo vuoto: guardavano oltre la
gente, oltre gli oggetti. Ottia sedeva immobile sulla sedia a rotelle, la mano
destra adagiata sul tavolo. Accanto a lei Ot vide la donna: la sua mano
sinistra era aperta su quella di Ottia, i suoi occhi erano fessure
impenetrabili.
Ot sedette di fronte a
Ottia. Non disse niente, attese. Antichi, gravi, lontani, gli occhi di Ottia si
mossero e la sua voce scivolò lungo il piano di noce. «Ho visto il futuro,
fratello. Presto saremo memorie, come quelle che scompigliano il vento».
«Ho già sentito queste
parole. In sogno, credo».
«I sogni sono memorie
dell’eternità».
Ot si alzò lentamente e si avviò verso la porta. Si
sentiva sottile. “Forse stanotte l’eternità verrà a trovarmi”, pensò. Uscì nel
vento.
Morì nel sonno, poco
prima dell’aurora. Ottia lo seguì la notte successiva.
Seduto su uno sgabello
sul tetto più alto Caldaio guardava il gaigo ridotto uno zampillo.
L’odore di uova marce si era dissolto da tempo, un po’ alla volta, con mesto
abbandono. Caldaio guardò la gente avvicinarsi alla spicciolata e attingere
dallo zampillo come da una preziosa sorgente e tornare alle case sconsolata.
“Il gaigo era solo un gioco della terra, lo
sapevo”, pensò. Chiuse gli occhi e il suo corpo si irrigidì.
4° Capitolo
La donna sparì da
Anzol com’era apparsa e la gente si contese l’agonia del gaigo. Quando
un mattino plumbeo lo zampillo scomparve non pochi anzolani presero a picconate
il suolo nella speranza di trovare l’anima del getto e farla rivivere.
Scavarono in profondità alternando sudore a imprecazioni, ma fu tutto inutile.
Andarono a smaltire rabbia e spossatezza all’oteria, dove Millo - sempre
più canuto e ignaro - aveva finalmente imparato a mescere ot senza
versarlo sul banco di mescita. Fiero della sua raggiunta abilità volle dare una
grande dimostrazione: allineò sul banco, in quattro file,
trecentosessantaquattro bicchierini, dispose davanti a sé dodici brocche piene
di ot e cominciò a riempirli con mano ferma. I suoi occhi brillavano e
le sue labbra preparavano un sorriso compiaciuto. La gente assisteva
impassibile.
Non versò una goccia,
nemmeno all’ultimo, quando per un istante la sua mano esitò impercettibilmente,
quasi non credesse alla propria vittoria.
Mollo si fermò, alzò
lo sguardo sulla gente e sorrise.
«Stiamo qui a sorbirci
l’esibizione di un deficiente e intanto non sappiamo come scaldarci», disse
uno.
«Etto ha ragione,
dovremmo fare qualcosa. E poi sono stufo di bere ot. Non mi è mai
piaciuto. Andiamocene».
Mollo rimase solo.
Guardò i bicchierini immobili, pieni fino all’orlo. Si abbassò a scrutare il
liquore in trasparenza, con gli occhi ne accarezzò il colore rosso vellutato.
«A me l’ot piace»,
disse. E portò alla bocca un bicchierino.
5° Capitolo
La gente si svegliò
con un senso incipiente di fatalità. Fuori gravava un silenzio irreale, che il
vento non disperdeva. Qualcuno arrivò in piazza con la notizia della morte di
Mollo. Lo avevano trovato riverso per terra, con gli occhi sbarrati e un
sorriso compiaciuto sulle labbra. Tutti i trecentossesantaquattro bicchierini
erano vuoti.
Nessuno volle
assumersi l’onere di gestire l’oteria, tantomeno di produrre ot.
«Una volta si beveva
acqua e ci bastava», biascicò Cillo, vegliardo che in gioventù aveva condiviso
per qualche tempo i sogni di Ot.
Sprangarono l’oteria
e la dimenticarono.
Il vento scaricò su
Anzol un lacerante tintinnio metallico e ondate di voci sempre più intense,
sempre più solide. Non servì sigillare porte e finestre, il tintinnio e le voci
filtrarono nelle case.
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Note dell’editore:
«Haria vive ritirata sull'appennino ligure-emiliano, e comunica
con il mondo esterno mediante i suoi libri, in cui dispensa la conoscenza di
cui è portatrice. Ove giovani donne, in secoli diversi, in fuga dal proprio
tempo, in fuga per la consapevolezza e la libertà. Nove vite, una vita, e una
luce negli occhi che le guida e le accomuna. Nove donne oltre il varco
sull'ignoto, per un magico, solidale destino.»
“Anzol”, Haria, Collana
Letteratura di Confine, Proprietà letteraria riservata, © RUPE MUTEVOLE, prima
edizione 2013, ristampe 2017.
Cristina del Torchio
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Andrea Giostra