a cura di Andrea Giostra - La 18^ puntata dei Romanzi da leggere online è dedicata al sesto capitolo del romanzo “Anzol” di Haria.
In copertina Mimmo Germanà (Catania 1944 - Milano 1992), “Paesaggio con figure e violino”, 1983, olio su tela
VI Capitolo
Vincente su sei strati
Gaddo era stato acclamato signore della folla. Come avesse vinto non lo
sapeva nemmeno lui. Trotterellando ubriaco nella nebbia si era ritrovato nel
cerchio; qualcuno gli aveva urlato di azzardare un numero e con voce impastata
lui aveva detto ‘sei’. Ricordava vagamente le circolari densità nebbiose che
risalivano con ostinazione e i suoi pugni rabbiosi che le fendevano. Il
silenzio della folla lo aveva incoronato un istante prima del suo urlo.
Per prima cosa impose
al mercato un nuovo nome: giocomercato, poi - sborniato di successo ma ebbro di
malignità - decretò che il tempo non era mai esistito, che il gioco
doveva proseguire senza interruzioni, che chi perdeva contro il primo strato
doveva azzardarne subito altri due, che la privazione della dignità - per chi
era perdente contro tre strati - comportava anche la perdita dell’identità.
Infine si autoproclamò boia. Saltò nel cerchio e con gusto scannò Donna.
«E ora basta con le
streghe», disse.
Anzol si svuotò, restarono i moribondi e i folli; le poche luci si spensero
e l’umidità entrò dalle finestre scardinate, dalle porte abbattute, dalle crepe
nei muri, dai tetti sfondati. Nelle stanze il gelo spezzò la memoria del tempo
e il silenzio ascoltò gli ultimi lamenti dei moribondi, che le urla dei folli
sgangheravano.
Nel cuore spento di
Anzol - nella vecchia casa di sua madre - Luna ricordava il cielo, il sole, la
luna, le stelle. Ricordava Eia, la donna di conoscenza che negli intrichi
l’aveva avviata alla consapevolezza. Le doveva tutto e un giorno sarebbe
tornata per riprendere con lei il cammino verso la libertà. Ricordava il mondo
in cui era vissuta, reale, esuberante, dove ogni attimo era un impulso di
energia, ogni luogo un evento di bellezza, ogni sguardo un soffio di vastità.
Ricordava le rupi oltre gli intrichi, i boschi immensi, guardiani di segreti, e
ricordava l’estensità, la magica via della bellezza. Si sforzò di
allontanare i ricordi e si concentrò sul suo agguato.
Gaddo ripristinò
l’abitudine all’ot. Aprì non una, ma venti oterie tutto intorno
al giocomercato, ripescò nella folla musici e cantori e li nominò ‘festanti’.
Melodie strascicate e cori ridondanti presero ad accompagnare i racconti di
questa o quella vittoria al gioco degli strati. I bevitori esultavano
alle iperboli dei vincitori, schernivano i piagnistei dei perdenti, sghignazzavano
sui bastonati, ironizzavano sui braccati, sugli scovati e ridotti servi dei
servi, compativano gli scannati. Sarcasmo e adulazione si intrecciavano in
infinite sfumature e varianti. Fuori il tintinnio dei soldi scandiva
l’eccitazione della folla.
Al centro del gioco
si arrivava, oltreché per caso, seguendo voci, scalpiccii e ogni tanto
occhi.
Ma per chi si trovava
ai lontani margini del giocomercato (o per chi vi accedeva la prima volta)
raggiungere il cerchio era una sfida. Mettersi in gioco nell’impresa di trovare
una via che portasse direttamente al cerchio fu il lemma di un altro gioco che
si impose (ma non scalfì il primo) un po’ per voglia di novità e molto per
necessità: l’azzardo.
«Azzardi?».
«Azzardo».
Si entrava nella
nebbia con lo sguardo nudo. Era facile perdersi e quando accadeva non contavano
più il cerchio, il gioco, la vittoria o la sconfitta, il fio o il
premio; contava trovare una traccia che ti facesse uscire dal quell’insondabile
grigiore. Ma lo scoprivi quando era troppo tardi, quando il vuoto ti aveva già
risucchiato e vedevi la folla senza essere visto e chiamavi senza essere udito.
E ti chiedevi dov’eri, chi eri, dove andavi, cosa ti aspettava. Eri solo, eri
ignorato, eri sperduto, dimenticato. Non esistevi più, se mai eri esistito.
Molti di quelli che
azzardarono scomparvero e per la folla non furono che nomi pronunciati come
domande senza risposte.
Quando Luna si sentì
pronta uscì, entrò nella nebbia e seguì lo scalpiccio della folla. Intorno
risuonavano voci monotone: «Azzardi?». Luna tenne dietro al tintinnio dei
soldi, al coro che inneggiava al gioco e si ritrovò ai bordi del
cerchio, subito pressata da figure invisibili. Il cerchio era fermo
nell’attesa.
Gli occhi avidi di una
donna entrarono nel cerchio. «Due!», gridò la sua voce.
«Che tu sia perdente!», inveì una voce di vecchia.
«Maledetta».
La donna non rispose. Due strati di nebbia si
formarono ai suoi piedi e risalirono piano scoprendo le sue gambe livide e
magre, il suo stretto bacino, i suoi piccoli seni, le sue lunghe braccia e le
sue grandi mani chiuse a pugno. Era nuda.
«Maledetta», ripeté la vecchia.
Per un istante gli strati parvero fermarsi all’altezza
degli occhi chiusi della donna, poi rivelarono la completa nudità di quel corpo
ormai segnato. La donna urlò la sua sconfitta. Il tintinnio dei soldi vibrò.
«Io! io la bastono!». Era la vecchia. Entrò nel
cerchio e impietosamente infierì sulla donna. Luna udì un coro di voci
lamentose accompagnare il dolore della perdente, finché esausta la vecchia si
fermò. I suoi occhi valutarono l’efficacia delle bastonate inflitte a quel
corpo a lungo invidiato, temuto, odiato, e si ritenne soddisfatta. Non disse
niente, uscì dal cerchio e scomparve nella nebbia. La donna raccolse gli abiti
dal suolo e si dileguò a capo chino.
«Quattro!».
La voce di un uomo tuonò sicura. Il tintinnio dei
soldi cessò.
«È Lallo, il capo carpentiere», disse qualcuno. «Ha
già vinto su tre strati. Per me vince ancora».
Quattro strati risalirono le gambe muscolose
dell’uomo. Il tintinnio dei soldi riprese.
«Lallo ha perso la dignità», era la voce che circolava
nel fare della nebbia.
«È servo di chi?».
«Delle serve di Polla, la megera del bordello».
Luna si fece largo fra la folla che quella notte
assediava il gioco. Un uomo rantolava al suolo, appena scannato. Gaddo
lo guardava senza espressione e puliva la corta lama curva del suo coltello su
uno strofinaccio incrostato di sangue secco. Sentì dei passi avvicinarsi e alzò
la testa. «Chi azzarda adesso?».
«Io». Luna entrò nel cerchio e affiancò Gaddo in modo
che tutti la vedessero e prima che gli strati ridiscendessero a ricomporre il
vuoto.
«Sei nuova, qui? non ti ho mai vista azzardare».
«È la prima volta».
«Conosci le regole del gioco, ragazza?».
«Le conosco».
«Quanti strati, allora?».
«Sei». Luna cominciò a spogliarsi.
Gaddo si ritirò fra il mormorio della folla.
«Sarà scannata», ridacchiò una voce di donna. Nel vuoto
Gaddo biascicava la saliva dell’attesa.
La luce negli occhi di Luna infranse subito gli
strati. Luna non urlò la sua vittoria, non si mosse. Il tintinnio dei soldi
ammutolì.
«Mi sfidi?», tuonò Gaddo.
«Sfido le sei streghe che resero folle mia madre. So
che si nascondono lì intorno».
«Non so niente di tua
madre, ma se sfidi le streghe rinunci a sfidare me e io continuerò a essere signore
della folla».
«Tienti il tuo potere, io voglio loro».
«Hai coraggio, ma non puoi vincere sei volte di seguito».
«Azzardo sei volte sei strati in una volta sola».
«Sei pazza. Dovrò scannarti».
«Sei volte sei strati».
Luna non si volse indietro, non si concesse il
privilegio di ricordare la sua vittoria, non ne valeva la pena. Mira, sua
madre, era vendicata: le streghe - cui il potere del gioco aveva tolto
ogni energia - erano state scovate e scannate dal coltello esperto di Gaddo.
Contava questo. Attraversò la piana, entrò negli intrichi e sparì nella
bellezza. Anzol la dimenticò, e fu notte.
*
La gente di Anzol non ha memorie, ma mutevoli ricordi
di un istante prima, che parole erose dalla nebbia moltiplicano e contraddicono
nelle oterie separate dal silenzioso fragore sotterraneo del rio gemello
del Cen. Si beve ot in attesa di altro ot.
Gaddo trotterella verso il cerchio, la folla strascica
i passi, il tintinnio dei soldi rintuzza l’obeso vuoto della nebbia, l’ot brinda
a sé stesso e...
Sotto la piana, in un
tempo ritrovato, il rio gemello del Cen esplose, aprì il suolo e risucchiò
l’antica fertilità di un luogo al quale gli uomini non si erano abbandonati.
Prese le case, la nebbia, il giocomercato, gli altobanchi, la folla, il
tintinnio dei soldi, il gioco, l’ot e fluì lontano trascinando la
prima sorte di Anzol.
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Note dell’editore:
«Haria vive ritirata sull'appennino ligure-emiliano, e comunica
con il mondo esterno mediante i suoi libri, in cui dispensa la conoscenza di
cui è portatrice. Ove giovani donne, in secoli diversi, in fuga dal proprio
tempo, in fuga per la consapevolezza e la libertà. Nove vite, una vita, e una
luce negli occhi che le guida e le accomuna. Nove donne oltre il varco
sull'ignoto, per un magico, solidale destino.»
“Anzol”, Haria, Collana
Letteratura di Confine, Proprietà letteraria riservata, © RUPE MUTEVOLE, prima
edizione 2013, ristampe 2017.
Cristina del Torchio
https://www.facebook.com/RupeMutevoleEditore/
https://www.reteimprese.it/rupemutevoleedizioni
Andrea Giostra