a cura di Andrea Giostra - La 14^ puntata dei Romanzi da leggere online è dedicata al secondo capitolo del romanzo “Anzol” di Haria.
In copertina Placido Campolo (Messina 1693 - Messina 1743), “Herminie chez les Bergers” (1620-1625), 168 x 126 cm., olio su tela.
II Capitolo
Era accaduto
all’improvviso: all’aurora un vento del nord era penetrato negli intrichi
aprendo un varco ampio abbastanza da lasciare passare un uomo. Gli anzolani non
erano gente curiosa, perciò quando alcuni cacciatori raccontarono l’evento
alzarono le spalle e risposero che faccende insolite ne accadevano nella piana,
come quando un mattino la nebbia si era diradata mostrando per qualche istante
le finestre ai piani superiori e parte dei tetti.
Alzarono le spalle anche quando gli stranieri comparvero ad Anzol e
vi si stabilirono occupando le dimore ai margini del villaggio. Erano uomini,
donne e bambini chiusi in una cupa scontrosità e non accennavano mai al proprio
passato; sembrava non avessero tradizioni, e non c’erano vecchi fra loro. Più
tardi si affacciarono sulla piazza e presero possesso delle dimore più antiche,
che nessun anzolano voleva più abitare. Vivevano allevando pecore e coltivando
in poca terra radici e qualche ortaggio che non si era mai visto prima.
Parlavano un linguaggio incomprensibile che abbondava di suoni gutturali
opposti ad altri acuti e faticavano a familiarizzare con la lingua sdrucciola e
morbida degli anzolani. I bambini, secchi e pallidi, conoscevano soltanto due giochi
- che ripetevano senza variarli - e se ne stavano in disparte come i loro
padri, che entravano da Finìla mezz’ora prima della chiusura, si
sedevano ai tavoli incassati nella penombra di angoli negletti e centellinavano
l’ot finché Itta non mandava via tutti.
Gli stranieri -
che nessun anzolano ebbe mai la fantasia di chiamare diversamente - non fecero
una piega quando una sera Anzol fu sconvolta dalle urla devastanti di dodici
bestie d’uomini. Armati di grossi bastoni e coltellacci si riversarono in piazza,
fracassarono porte e finestre, orinarono nel pozzo dell’acqua comune e fecero
irruzione da Finìla. Chi delle solite facce poté scivolò fuori
attraverso la porticina sul retro, le altre si strinsero contro le penombre, si
restrinsero negli angoli, si confusero con le ombre.
Itta non indietreggiò;
ferma in mezzo al salone, i pugni sui fianchi e un sorriso sarcastico sulle
labbra, affrontò quei nuovi scalmanati come se si trattasse di ubriachi
rumorosi.
«Per bere si paga in
anticipo», disse ad alta voce.
Quelli la fissarono,
grugnirono e gettarono sul banco di mescita una dozzina di piccoli dischi di
metallo.
«E questi cosa
sarebbero?», fece Itta.
Il più grosso del
gruppo le andò vicino. «Sono dodici soldi, donna. Non sai contare?».
«Non ne ho bisogno. Noi
qui ci fidiamo».
«E fate male, perché
adesso ci riprendiamo i
nostri soldi e beviamo lo stesso. Hai qualcosa da ridire?».
«Non ho mai avuto
niente da ridire in tutta la mia vita. Io le cose le dico una volta sola».
«E fai bene, donna.
Dacci da bere ora, e taci».
Fuori, il pozzo
sembrava aver risucchiato la piazza; la gente aveva spento ogni luce e
aspettava il disastro. Da Finila si udirono strepiti, urla, fracasso di
panche e tavoli sbattuti contro le pareti, di vetri infranti. La porta si
spalancò scardinata e le solite facce volarono fuori rincorse da un paio di quelli
- così la gente prese a chiamare i dodici scalmanati -. I bastoni
spezzarono schiene e i coltellacci produssero sfregi.
Itta riunì le sue cose
e uscì con Lulla dall’entrata principale, seguita dai commenti volgari e
sguaiati di quelli. Non si volsero indietro, nemmeno quando il più
grosso del gruppo sbraitò: «Ci sistemiamo qui, fratelli. Che ne dite?».
Si udirono risate,
trascinamenti di tavoli e panche, poi le voci scemarono e gli strepiti si
diradarono, finché da Finìla piombò in una calma vuota, interrotta di
tanto in tanto dal tonfo sul pavimento di un’asse o di un pezzo di intonaco.
All’alba la piazza
riemerse dal buio silenzio, ma gli anzolani non si fecero vedere. Solo uno di quelli
uscì per orinare; lo fece dove gli capitò, guardando i mulinelli di polvere
che l’avanguardia di un vento sollevava a caso e disperdeva.
Chiusa in casa Itta scrutò allo specchio i segni del tempo sul proprio
viso, ma non si perse d’animo. Lasciò che la vecchia Lulla se ne andasse verso
una sorte migliore - o una morte serena - e si preparò a una nuova sfida.
Gli anzolani ripresero
cautamente a vivere, gli stranieri a pascolare pecore nella piana e quelli
si dedicarono con quotidiano zelo a ogni sorta di brutalità a danno di
vecchi, uomini, donne e persino bambini. A parte Itta - che usciva solo a notte
fonda - nessuno fu risparmiato.
Com’erano cominciati
gli abusi finirono e quelli si lasciarono andare all’apatia dello stare
sbracati e sbadigliare sui gradini della fatiscente da Finìla. Presto
l’apatia si trasformò in noia, la noia in feroce accidia, questa in rabbia e la
rabbia in cieca violenza. Uno di quelli si alzò e senza dire una parola
vibrò una coltellata nel fianco di un altro. Lo guardò rantolare nella polvere
finché non si sentì affondare un coltello nella schiena. Gli altri si
ammazzarono a vicenda in pochi minuti.
Gli stranieri fecero
il lavoro sporco: spogliarono i cadaveri (tenendosi i piccoli dischi di metallo
che tintinnavano nelle tasche dei morti al minimo spostamento), li caricarono
su delle carrette cigolanti e li scaricarono in una fossa comune all’estremo
confine meridionale della piana, dove nemmeno le pecore o i cinghiali si
spingevano.
Con spontanea naturalezza Itta aprì una rivendita di ot all’aperto
disponendo su un banco botticelle, fiasche, bottiglie e bicchierini. La gente
cercò invano nei suoi occhi la fiera determinazione che per molto tempo aveva
tenuto a bada e a freno l’irruente balordaggine delle solite facce,
l’appiccicosa malinconia degli ‘abituali’, la squinternata insolenza dei cafoni
ubriachi dalla mattina alla sera, la miserabile vacuità degli appena sborniati
e già pronti per un nuovo giro di ot, la ruvida provocazione dei
cacciatori vaganti e la stolida aggressività degli omaccioni di passaggio.
Molte stagioni prima Itta aveva passato la mano nel gioco della giovinezza per
darsi alle ragioni della parte che aveva scelto di sostenere con abnegazione;
ora che non era né una donna matura né una vecchia quella parte non la
interessava più; ora contava il tempo che le restava da vivere e Itta voleva
giocarselo a modo suo. Sedette su una panca dietro il banco e con paziente naturalezza
attese l’arrivo dei clienti.
Inaspettatamente
furono gli stranieri ad avvicinarsi per primi. Forse credettero di
vedere nel nuovo sguardo di Itta il loro stesso fatalismo, o forse furono
attratti dalla sua irreale fissità. Chiesero l’ot, pagarono con
dischetti di metallo e bevvero lentamente seduti per terra o appoggiati ai pali
di sostegno del banco. Gli anzolani si fecero vedere un po’ alla volta, a
piccoli gruppi, più incuriositi dall’insolita mescita che spinti dalla sete.
Stavolta Itta non impose limitazioni, così i bambini ripresero a sorbire il
‘nettare di Gutto’, come continuavano a chiamare l’ot.
Un caldo mattino Lulla
tornò a cavallo di un mulo rinsecchito. Si fermò davanti al banco di Itta,
smontò, si avvicinò e scrollò la testa.
«Mi avevano assicurato
che là fuori c’era il destino. Non è vero, non c’è niente per cui valga la pena
di viverci», dichiarò.
Itta fece posto a Lulla sulla panca e sorrise debolmente. «Qualcosa di
interessante ci sarà».
«Solo enormi lumache
che vagano dappertutto».
«Ecco da dove arrivano
quelle di qui».
«Quanto agli
uomini...lasciamo perdere. I dodici bestioni che hanno distrutto il nostro
passato sono agnellini in confronto agli altri che bazzicano là fuori come
padroni del mondo».
«Il nostro passato lo
abbiamo distrutto noi e continueremo a farlo. È nella logica del tempo e della
nostra incoscienza. Quanto a quelli, sono sepolti sotto due metri di
terra. Si sono ammazzati uno con l’altro sedici stagioni fa».
«Ne godo. Erano
merda».
Il silenzio sedette
fra loro, ma dovette restringersi sotto la spinta della vecchia cuoca che si
avvicinava alla nipote, e fu schiacciato dalla pressione dei due corpi che si
toccarono. Lulla diede una piccola spallata a Itta. «Ricominciamo a lavorare
insieme come in passato? che ne dici?».
«Il passato non
dovrebbe mai tornare. Ma puoi aprire un banco a fianco del mio se ti va»,
rispose Itta.
Lulla guardò la gente
arrivare e annuì.
*
Le suggestive pietanze della cuoca richiamarono gli anzolani come se niente
fosse cambiato dai tempi di da Finila e la piazza si riempì di aromi
irresistibili che il vento del sud prese a dilatare oltre il villaggio, oltre
la piana, oltre gli intrichi. Lulla cucinava con esperta rapidità e sintesi
perché la ressa era troppa e il tempo per le raffinatezze troppo poco; però non
si privava dell’azzardo di abbondare con certe spezie quando occorreva
contenerne l’uso e scarseggiare quando invece bisognava abbondare. La gente
passava dal banco di Lulla a quello di Itta strascicando i piedi per non
rovesciare gli stufati che traboccavano nelle scodelle di coccio, mangiava e
beveva ot in piedi, intorno ai due banchi. Gli stranieri continuarono
a pagare con i dischetti di metallo (finché ne ebbero), gli altri con le solite
uova, con sacchetti di lumache, di farina, con barattolini di miele e
bottigliette di latte, e i cacciatori vaganti con le immancabili lepri, -
ognuna delle quali ora valeva cinque pasti caldi - cui presto si aggiunsero tordi, pernici e quaglie.
La pratica di mangiare
e bere in piazza divenne abitudine e questa convinse gli stranieri ad
aprire a loro volta un banco: un giorno un uomo e una donna si presentarono con
una lunga tavola e tre cavalletti; in pochi attimi allestirono un’esposizione
di collane di piccole pietre finemente lavorate. Una cosa del genere non si era
mai vista, specie tutto quel colore. L’attenzione della gente fu subito
catturata, e anche Lulla, interrompendo la cottura di un arrosto, andò a
vedere. Si seppe poi che a fabbricare le collane con minuziosa gravità
nell’ovattato silenzio della notte erano i bambini. Nemmeno una restò
invenduta.
Tre banchi in piazza erano diventati una piacevole consuetudine, ma sei
avrebbero fatto un mercato. Due comari che strillavano la bontà della loro
frutta secca improvvisarono un banco alla sinistra degli stranieri, e un
giovane cacciatore ammucchiò su un tavolaccio, accanto al banco di Itta, una
montagna di pelli conciate e pelliccie di volpe. Si aggiunse un venditore di
fili e matasse, che si piazzò alla destra di Lulla.
Qualcuno notò che
quattro banchi da una parte e due dall’altra squilibravano la disposizione del
mercato, così due solerti anzolani si fecero avanti e chiesero all’ultimo arrivato
di spostarsi alla destra degli stranieri. Questi non volle sloggiare,
disse che la sua merce valeva quanto il profumo di arrosto e meritava il posto
che lui aveva scelto.
«Servono due che
facciano il terzo e il quarto nell’altra fila», tagliò corto Itta.
Due giorni dopo il
carretto di un arrotino entrò in piazza e prima del tramonto arrivò un barbiere
in groppa a una piccola cavalla. Il primo seguì scrupolosamente le istruzioni,
ma il secondo fece storie.
«Arrotino e barbiere
sono mestieri incompatibili», mugugnò. «Uno fa affilare un rasoio perché la
barba intende farsela da solo, no? e allora spiegatemi cosa ci sto a fare qui.
E poi non capisco perché il mio banco debba stare proprio accanto a quello
dell’arrotino».
«Perché non si perda
la simmetria», rispose uno dei due solerti anzolani.
Il barbiere sogghignò.
«La simmetria? come farete quando la piazza sarà stracolma di banchi?».
In molti ammisero che il barbiere non aveva tutti i torti. La gente si
riunì e a tarda sera concluse che i banchi potevano essere disposti nella
piazza dove meglio si riteneva. Solo il barbiere e Itta si spostarono (alle due
estremità della piazza), per ragioni opposte: il barbiere per calcolo e Itta
perché non ne poteva più di sentire scemenze.
Se otto banchi
facevano un mercato, ventitre fecero la piazza del mercato. Quattro stagioni
dopo centotrentadue banchi definirono una volta per tutte la piazza, che fu il
mercato. Il banco di Itta si smarrì nella labirintica mappa di tavoli,
assi, pali, cavalletti, impalcature, angoli, incastri, sostegni e tende, ma l’ot
lo mantenne un punto di riferimento; quello di Lulla - benché incastrato
fra due titanici banchi di chincaglieria - poté contare sull’impareggiabile
aroma di arrosto che, a dispetto dell’agguerrita concorrenza, saturava l’aria
del mercato. Degli altri sei fondatori, gli stranieri si accontentarono
di una ventina di clienti fedeli, il venditore di fili e matasse - circondato
da quattro banconi di stoffe - si ridusse a rammendate strappi e scuciture, il
cacciatore vagante preferì le dimostrazioni di tiro con l’arco alle penose
contrattazioni, gli strilli delle venditrici di frutta secca si perdettero nel
marasma di sonorità e schiamazzi, l’arrotino non fu che un puntino nell’intrico
di arti e mestieri e il barbiere si rassegnò a condividere il banco con un
cavadenti.
Il mercato non apriva
e non chiudeva, viveva nel perenne moto della folla. La gente si alternava alla
gente lungo il corso del giorno e della notte: l’alba era intasata come il
mezzogiorno e la notte come l’aurora. Dietro i banchi
gli ambulanti reggevano fino allo stremo, sostituiti da commessi e garzoni
un istante prima di crollare, e dormivano dove potevano: in piedi, contro un
palo, sotto il banco, per terra. Si vendeva tutto e si acquistava tutto, si
rivendeva, si riacquistava, si permutava in un vortice di gesti, di parole
sovrapposte, spezzate, perdute.
Riapparvero i
dischetti di metallo - i soldi - appena in tempo per evitare che il
congestionato baratto esplodesse. In due giorni di frenetiche compravendite
scomparvero gli svariati generi alimentari che fino ad allora erano stati la
consolidata forma di pagamento e il brulicare di voci fu soffocato dal
dilagante tintinnio dei soldi nelle tasche della gente, che nel maneggiarli
scopriva un insospettato e delirante piacere. Meno di una stagione dopo il
baratto non fu che un patetico ricordo.
Ma non per Itta. Il
suo entusiasmo per il mercato era già logoro quando il trentesimo banco fu
istallato al centro della piazza; al centesimo - una costruzione di quattro
piani - promise a sé stessa che non avrebbe sopportato la vista del
centotrentesimo. Si rimangiò la parola solo perché durante una febbrile
settimana si bevve ot a fiumi, ma ormai il disgusto era dentro di lei.
Quando i soldi irruppero fra la folla e i primi segni di avidità e usura si
manifestarono, Itta salì sul banco e urlò il suo disperato appello.
«I soldi vi porteranno
alla rovina, gente! tornate al baratto!».
Per un lungo istante
il tintinnio si placò, le teste si alzarono e le voci tacquero, poi i soldi
ripresero la loro danza con rinnovato potere. Itta
fermò un ubriaco. «Vuoi la ricetta dell’ot? è tua in cambio di
niente».
Infagottò quattro
stracci e facendosi largo a gomitate se ne andò da Anzol.
Per leggere i precedenti capitoli, clicca qui:
Note dell’editore:
«Haria vive ritirata sull'appennino ligure-emiliano, e comunica
con il mondo esterno mediante i suoi libri, in cui dispensa la conoscenza di
cui è portatrice. Ove giovani donne, in secoli diversi, in fuga dal proprio
tempo, in fuga per la consapevolezza e la libertà. Nove vite, una vita, e una
luce negli occhi che le guida e le accomuna. Nove donne oltre il varco
sull'ignoto, per un magico, solidale destino.»
“Anzol”, Haria, Collana
Letteratura di Confine, Proprietà letteraria riservata, © RUPE MUTEVOLE, prima
edizione 2013, ristampe 2017.
Cristina del Torchio
https://www.facebook.com/RupeMutevoleEditore/
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Andrea Giostra