La 13^ puntata dei Romanzi da leggere online è dedicata al primo capitolo del romanzo “Anzol” di Haria.
«Tutti i sentieri non tracciati confluiscono ad Anzol,
perché Anzol è il centro di un labirintico sogno
non segnato sulla carta del Destino.»
In copertina Salvatore Fiume (Comiso 1915 - Milano 1997), “La battaglia di Torgiano” (1949-1952), 170x225cm., olio su tela.
LA PRIMA SORTE
I Capitolo
La gente di Anzol non ha memorie ma mutevoli ricordi
di un istante prima, che parole erose dalla nebbia moltiplicano e
contraddicono nelle oterìe separate dal fragore sotterraneo del rio
gemello del Cen. Nascono e muoiono accenni di storie, tracce di esistenze, che
un passato smesso azzarda rimbalzandole sugli smisurati tavoli in legno buio e
multiforme. E l’ot bevuto d’un fiato inebria e incupisce.
Cittadina di angoli in rovina Anzol è un crogiuolo di eventi interrotti e
intenti inespressi chiusi in nebulosi labirinti. Chi ne disegnò il destino - un
piatto mattino d’autunno - veniva da un’altra èra e aveva negli occhi un altro
mondo: per Cena, veggente in fuga per la vita, quella piana attraversata da un
rio impetuoso e circondata da invalicabili intrichi di rovi e liane di vitalba
che velavano i boschi era il luogo perfetto: una volta entrato nessuno dei
suoi oppositori ne sarebbe uscito vivo. Costruì al centro della piana - con
grigie e uniformi pietre del rio - la sua dimora, tracciò tutto intorno un
inviolabile confine e attese.
Chi la braccava non
trovò mai il varco sulla piana e Cena continuò a definire confini, consapevole
che un giorno avrebbero deciso gli spazi di un villaggio e in seguito quelli di
una cittadina. Il tempo, evento irrisolto, non la sorprese, così quando la
sorte spinse un uomo e una giovane donna oltre il varco lei si affacciò
immutata e li guardò avanzare: la giovane era incinta e l’uomo non sosteneva la
sua ansia, ma indagava nel vasto dedalo di linee incise sul fertile suolo; era
tanto avido di stabilità e risoluto a mettere radici quanto la giovane alimentava
in silenzio un vago desiderio di libertà. Cena intuì che il loro figlio non
avrebbe mai espresso né un solido intento né realizzato un impeccabile sogno;
sarebbe stato il ‘Fondatore’ per la gente del villaggio e il ‘Padre dei padri’
per gli abitanti della città.
Cena accolse la donna
e respinse l’uomo, che non si oppose. Affacciate alla finestra lo guardarono
aggirarsi fra le linee, febbrile esaminare geometrie, valutare, misurare.
«Questo posto è un anzol»,
lo udirono ripetere; un labirinto. Infine scelse. Esausto alzò il viso e
sorprese lo sguardo deluso della sua compagna; dietro di lei la strana donna lo
fissava inespressiva.
Occorsero cinque stagioni all’uomo per costruire una dimora sull’argine
occidentale del rio, in un punto dove la corrente si frangeva contro una
barriera di scogli, si elevava e ricadeva sul fare di antichi flussi ed
effluvi. Ignorava l’esistenza di un rio che scorreva sotto la piana. Quattro
linee che formavano un perfetto rettangolo gli erano bastate per decidere e
forse si era convinto che l’energia della corrente avrebbe protetto la dimora,
ma non seppe mai di aver fatto l’unica scelta possibile, imposta dalla
iperbolica mappa che Cena aveva tratto dalla visione del futuro.
Alla giovane donna non
restò che mettere al mondo suo figlio. Lo fece alla maniera delle donne
drusche, non come l’uomo - un coltivatore taro - avrebbe voluto. Si allontanò e
partorì oltre le linee dei rovi e delle liane di vitalba, ma prima dei boschi, in
una terra di nessuno, velata da un silenzio estremo. Tornò per ricongiungersi
al suo uomo e mostrargli il neonato, poi riprese a vagare nei labirinti del
sogno di libertà che per essere madre aveva interrotto.
Cena percepì nella
scelta della giovane le ragioni del destino e comprese che era tempo di andare.
Entrò in un intrico di rovi e liane, raggiunse i boschi e sparì nei lemmi della
bellezza.
L’uomo demolì la
dimora di Cena e con le stesse pietre ne edificò un’altra per suo figlio su un
rettangolo sospeso fra il rio e gli inaccessibili intrichi. Dove un tempo era
sorto il rifugio di Cena il suolo ritrovò la propria fertilità.
L’anzol crebbe con il bambino e prosperò. Più tardi - quando il
giovane ebbe sepolta la delirante fame di terra di suo padre e l’esausto sogno
di libertà di sua madre - riscattò la propria energia e così le linee divennero
solchi, le geometrie latenti fondamenta, gli spazi complessi schemi di
annunciati volumi. Al ‘Fondatore’ non rimase che seguire, docile e
inconsapevole, l’inflessibile intento del labirinto e ordinare la piana secondo
la mappa che si imponeva al suo sguardo.
Era un uomo quando un
mattino di umida primavera vide spuntare una vecchia su un mulo sfiancato;
dietro arrancava una donna appassita e claudicante. Nessuna delle due guardò il
suolo percorso dalle impazienti vibrazioni dell’anzol; guardarono lui.
Si avvicinarono e valutarono il suo aspetto.
«È tuo questo posto?»,
gli chiese la vecchia.
Il ‘Fondatore’
occhieggiò l’anzol e annuì.
«Qual è il tuo nome?».
«Anzol», rispose lui.
Puntò un dito in lontananza. «Cosa c’è là fuori?».
«Niente. È per questo
che siamo qui», biascicò la vecchia. Si girò verso la donna. «Lei non ha un
nome. Prenditela se vuoi, a lei piacerebbe rimanere. Puoi chiamarla come ti
pare. Io sono una vecchia balorda, ma lei è giovane e fresca. Però se rimane
rimango anch’io».
Gli occhi del ‘Fondatore’ interrogarono il suolo. Chiamò la donna Drusca,
come sua madre, e chiamò Ot il loro primo figlio, come suo padre. Gli mancò la
fantasia di trovare i nomi per il secondo - una femmina - e per il terzo, un
altro maschio, così lasciò fare alla vecchia, che li cercò nelle trame di
graffi, incisioni e rilievi che in quelle notti la luna piena rinveniva sulle
pietre delle nuove dimore che Anzol si era accinto a costruire. Fiscìla e Ammo
furono i nomi che la vecchia trasse dalla sintesi di sterminati indizi, ma
questo fu il suo ultimo atto: morì il mattino seguente storpiando i due nomi
nel delirio.
Ot, Finìla e Ummo
moltiplicarono l’ossessione del nonno: l’anzol si riempì di dimore che i
tre fratelli presero ad abitare a rotazione, finché venne il giorno che il
decrepito ‘Fondatore’ si sentì morire (Drusca se n’era andata molte stagione
prima). Riunì i figli e si fece portare nella spianata di terra battuta al
centro dello schema a raggiera secondo cui erano state edificate le dimore. Là
ordinò che lo facessero voltare in ogni direzione, poi lo misero a sedere su un
seggiolino perché guardasse il suo ultimo tramonto. Il vecchio alzò un braccio,
puntò in alto un dito, pronunciò anzol e morì. I tre fratelli
interpretarono così l’ultima parola del padre: siccome non si poteva dare un
nome a ciascuna delle ventuno dimore, bisognava trovarne uno che valesse per
tutte. Anzol era quel nome.
All’alba di un giorno
qualunque Ummo si svegliò, si alzò e uscì. Ci misi un po’ a capire che la
figura ritta sul vano di una porta non era Finìla. E quando un gruppo di cinque
femmine in abiti strani e variopinti comparve sulla spianata lui si rese conto
che stava accadendo qualcosa di nuovo. Due di esse si avvicinarono, sorridenti
lo presero sottobraccio e lo portarono nella penombra della dimora che avevano
occupata. Ummo uscì stravolto e diverso, finalmente consapevole che qualcosa
era cambiato.
Poi toccò a Ot. Finìla seppe d’istinto cos’era quel via vai e guardò
disgustata il fratello maggiore rientrare soddisfatto. A lui e a Ummo non
rivolse più la parola e si trasferì nella dimora del nonno che reggeva ancora e
che secondo lei avrebbe retto bene fino alla fine del tempo. Ot e Ummo misero
radici con le donne. Trenta stagioni dopo Anzol era percorsa dagli strilli di
marmocchi e ragazzini che contendevano ai topi e alle lucertole i lunghi e
stretti vuoti fra le dimore.
La nebbia arrivò un
pomeriggio umido e monotono come non se n’era mai visti. Scese lenta sui tetti,
proseguì e si consolidò all’altezza delle finestre. Nessuno riuscì più a
distinguere qualcosa oltre il grigiore delle pietre e presto i confini naturali
della piana furono un mutevole ricordo cui l’anziana Finìla ricorreva ogni tanto
per rintronare l’insistente voglia di storie dei bambini.
Un lungo inverno nebbioso concesse a Gutto - ultimo dei figli di Ummo - di
indagare sulla strana trasformazione di bacche di pruno selvatico fermentate in
una bevanda inebriante. Benché si sforzasse di comprendere come la natura fosse
riuscita a realizzare una cosa simile, non ne cavò un ragno dal buco. Ma un
giorno sorprese Ot - rimbambito più dai bagordi che dagli anni - a pasticciare
di nascosto nella poltiglia in fermentazione; allora dubitò che il mistero
della bevanda fosse meno opera della natura che della mano tremante e casuale
del fratello di suo padre. Tentare di dissuaderlo a spiegare cosa avesse fatto
alla poltiglia, o cosa vi avesse aggiunto, era inutile; lasciò quindi che Ot si
sbizzarrisse in pace. Quando tornò lo trovò riverso per terra: cantava a occhi
sbarrati l’antica ninnananna che sua madre soleva sussurrargli per farlo
addormentare.
Gutto non si arrese.
Era un uomo maturo quando uscì di corsa dallo stanzone dei suoi esperimenti con
una fiaschetta di pelle in mano. Si fermò sulla spianata - allargatasi a
dismisura nel corso del tempo - e brandì la fiaschetta come un trofeo di
caccia; obbligò la gente, anche i bambini, ad assaggiare il prezioso liquido.
Salvo un paio di cacciatori vaganti, abituati alle più aspre ruvidezze, non ci
fu un solo anzolano che non si ritrovò la gola in fiamme. Ma proprio questa era
la forza del liquore, che Gutto chiamò ot, in onore di suo zio.
Non permise a nessuno
di vedere come nasceva il ‘nettare di Gutto’ e in poche stagioni ne produsse
una quantità enorme, che segregò nell’ombra spessa di una stanza sottoterra. Di
tanto in tanto scendeva giù e si concedeva una buona bevuta - lui che non aveva
mai immaginato di bere qualcosa di diverso dall’acqua - e agli altri accordava
il privilegio di gustare l’ot in minuscoli bicchierini di coccio che
dovevano essere tenuti fra pollice e indice. Finìla guardava con sarcasmo il
via vai di gente che da ogni angolo del villaggio il giorno stabilito si recava
da Gutto per avere ‘l’assaggio’ - che in seguito fu chiamato ‘il sorso’, quando
i bicchierini furono portati a una grandezza dignitosa - e tornava indietro con
passo incerto ma soddisfatta.
Alla fine, annoiato di mescere ot e stanco di replicare un rituale
che ogni volta lo obbligava a nascondere gli strumenti della sua creazione,
Gutto annunciò che presto avrebbe aperto alla gente un locale per la pratica
giornaliera del ‘sorso’. A tutti sarebbe stata permessa l’entrata, purché si
fossero serviti da soli e lo avessero lasciato in pace.
«Ti farai pagare per
quello che berranno, vero?», si intromise Finìla con un tocco di lungimiranza.
Gutto immaginò montagne di uova pagate in cambio di bevute; sbuffò e alzò le
spalle.
La spianata era
stracolma di gente quando Gutto aprì i battenti. Entrò e vide Finìla dietro il
bancone, pronta a dare battaglia. La vecchia aveva immaginato così quel suo
primo giorno di lavoro; con poche ma decisive parole si era imposta a Gutto
nella gestione dell’oteria e si era preparata all’assalto di uomini,
donne, vecchi, ragazzi, fanciulle e bambini.
«Sono quasi tutti
nostri parenti, ma vedrai che non spenderanno una parola per ringraziarti»,
profetizzò.
Non ci fu bisogno di
invitarli a entrare.
Una notte di bevute
Gutto stramazzò a terra e non si rialzò.
«Te lo avevo detto che
continuando a bere così saresti finito male», bofonchiò Finìla pulendo un
bicchierino con uno straccetto.
Quattro omaccioni - figli di Tummo, nipote di Gutto - lo portarono via e
non tornarono. Si seppe poi che avevano scoperto l’accesso alla stanza
sottoterra e si erano lasciati andare a una bevuta colossale attingendo a
mestolate dagli orci in cui riposava l’ot. Li trovarono là, in posizioni
scomposte, con il fiato riarso e gli occhi sperduti nel vuoto.
Gutto non si rimise
più e Finìla - dopo essersi impadronita della ricetta dell’ot - fra
calcolati sospiri e scuotimenti di testa prese in mano l’oteria. Non che
non l’avesse già fatto, ma ora doveva ufficializzare l’evento.
Per prima cosa impose
che chi entrava per bere doveva anche mangiare e basta con le bevute a
stomaco vuoto e le sbornie notturne a oltranza. I bambini non erano più ammessi, se non per
consumare sul posto una fetta di torta e bere... Non aveva pensato a una
bevanda per bambini. Per qualche settimana girò per il villaggio cercando
un’idea, ma non ricavò che un secco commento di madri, zie e nonne: se i
bambini non potevano più bere ot allora avrebbero bevuto solo acqua.
Acqua. Fu allora che
Finìla capì. Un mattino - avvolto nella spessa densità nebbiosa che a quell’ora
nascondeva tutto - andò alla sorgente dell’acqua che pizzica. Ne riempì
una grande fiasca, raccolse un canestro di foglie di menta e bacche di sambuco,
tornò all’oteria e si mise al lavoro.
Quell’acqua vivace, che con le sue bollicine pizzicava la lingua, era - per
qualche oscura ragione che nessuno aveva mai saputo spiegare - ritenuta
sospetta. Finìla alzò le spalle e ne tracannò un paio di sorsi. Non trattenne
un rutto, cui seguirono altri. Bene, buona, faceva digerire. Preparò un decotto
concentrato di menta e sambuco, vi aggiunse un mestolo di miele, lo versò tutto
insieme, tiepido, nell’acqua che pizzica e assaggiò: il liquido, denso,
era pizzichevole, dolce, mentolato e di un bel colore
rosso vivo, molto simile a quello dell’ot. Anzi, a guardarle da una
certa distanza le due bevande potevano essere confuse.
Le nuove disposizioni
mandarono in bestia i soliti scontenti e qualche esagitato di passaggio, ma
Finìla tenne duro e alla fine i più dichiarono che la novità gli stava bene, a
patto che il mangiare fosse buono e non prevedesse le solite pappone di ceci e
castagne, zuppe di cavolo, frittelle e lardo che a casa ingurgitavano tutti i
giorni.
«Da me non si pranza e
non si cena, si spizzica per accompagnare l’ot», precisò Finìla. «Ma
ogni giorno sarà una sorpresa».
Aveva esagerato. Per
non sfigurare assunse un donnone, intrattabile ma capace, e la mise in cucina.
L’ordine era stuzzicare lo stomaco ai clienti del pomeriggio senza togliergli
l’appetito, e variare invitanti ritocchini per la folla che affluiva dopo cena.
Fu un successo.
L’oteria si
chiamò La dimora dell’ot, ma ogni volta che Lulla - il donnone - lo
sentiva pronunciare aveva la sensazione che si facesse riferimento alla sua
stazza; minacciò di andarsene se non si fosse rimediato al più presto. Lulla
non parlava a vanvera, così l’altisonante la dimora dell’ot fu
sostituito con un più sobrio da Finìla.
Le uova che gli avventori corrispondevano per l’ot aumentarono in
progressione geometrica nello stanzino dietro il banco di mescita. Finìla pensò
a una diversa forma di baratto, ma nessuna alternativa la soddisfece. Dovette
rassegnarsi e cedette alle insistenze di Lulla, che sognava un locale dove
servire piatti sostanziosi e originali a base di uova con cui soddisfare la
mezza dozzina di cacciatori vaganti che da qualche tempo bazzicavano i tavoli.
«Quelli sì che possono
pagare con lepri, fagiani, conigli e quant’altro», pontificò.
Niente e nessuno
l’avrebbero fermata, tanto valeva accontentarla subito.
«Come chiameresti il
locale?», le chiese Finìla.
Lulla sfoderò un
sorriso grasso. «Le uova di Lulla».
Il salone principale
fu diviso in due da una tenda e una ragazzina svelta - nipote della cuoca -
prese a servire ai cacciatori pasticci di uova, uova fritte ‘alla Lulla’, uova
strapazzate, uova sode in salsa piccante, tortine di uova e certi invitanti
sfornati di uova e verdure che presto divennero il piatto forte. La selvaggina,
appesa a frollare a dei ganci, sostituì l’ingombro delle uova.
«Che tanfo», disse
Finìla uscendo disgustata dallo stanzino. «Non si può fare qualcosa con tutta
questa roba?».
Era un pò che Lulla
aspettava quella domanda. «Certo, delle buone pietanze e il problema è
risolto».
Ai bevitori la fiumana di portate che usciva dalla
cucina e scompariva nel locale dei mangiatori dapprima parve una
discriminazione, poi un insulto. Le solite facce affrontarono Finìla e la
misero alle strette.
«O ci dai da mangiare
o qui non mettiamo più piede».
«Non vi bastano gli
stuzzichini e i ritocchini?».
«No. Pretendiamo lo
stesso trattamento riservato a quei sei dietro la tenda».
Finìla ridacchiò
sarcastica. «E con che cosa intendereste
pagare? con le solite uova?».
Le solite facce si
guardarono e tornarono mogie ai tavoli. Ma il malcontento non si placò. Stanca
di sentire tutti i giorni quel continuo mugugno, Finìla diede una manata sul
bancone. «E va bene, piagnoni. Da stasera a turno tre di voi mangeranno di là,
senza pagare. Ma l’ot vi costerà di più».
Itta, la ragazzina, si
fece un’energica giovane donna. Controllava senza controllare che ai tavoli
tutto procedesse bene, serviva impeccabilmente, ma da quei cafoni non ammetteva
né strepiti né inconsulti versamenti di ot sulle tovaglie linde. Finìla
prese a fare turni meno lunghi, poi si limitò ad aprire i locali la mattina
presto e a servire ot e stuzzichini fino all’ora di pranzo. Cominciò col
ritirarsi per pochi minuti nello stanzino e presto finì coll’assentarsi per
ore, sostituita a turno da Itta e da Lulla. Un giorno dormì dalla mattina alla
sera.
«È sfinita», disse la
cuoca.
«Sta morendo»,
corresse Itta.
Sdraiata su una branda Finìla constatò che era così: stava morendo. Aveva
sepolto i suoi due fratelli, otto fra zie e zii, una ventina di cugini e
altrettante cugine, qualche nipote e numerose amiche d’infanzia. L’esistenza
era cambiata, la gente era cambiata, persino la nebbia che gravava sulla piana
non era più quella di un tempo. Sentiva la pressione costante di una nuova èra
che spingeva per entrare e afferrare il villaggio in una frenetica corsa verso
una prosperità che le era indifferente e non l’avrebbe riguardata; lei era l’ultima
di un vecchio mondo e doveva andarsene prima di vedere quello nuovo.
Strani avventori si
aggiunsero alle solite facce. Itta cercò di sostituire i vecchi tavoli
sfiancati con altri più resistenti, ma Finìla si oppose:
«Figuriamoci se ti
permetto di fare cambiamenti. Questi tavoli sono nati con me e moriranno con
me. Del resto non manca molto. Poi qui
farai come vorrai».
Era il tramonto. La
porta si spalancò e una dozzina di omaccioni fece irruzione: facce insolite,
dure, occhi piccoli, mobili, voci tuonanti, aspre, gesti pesanti, pericolosi.
Assediarono il banco di mescita, invasero i tavoli e le panche; non erano né
cacciatori né uomini di villaggio, sembravano non interessarsi a niente, ma con
lunghe occhiate dominavano tutto. Gli anzolani si defilarono.
“È la fine”, pensò
Finìla. Dalla porta socchiusa dello stanzino osservò Itta correre avanti e
indietro con le ordinazioni: quella gente arrivata chissà da dove e chissà come
non le avrebbe dato tregua.
“Se oltre agli
intrichi ora anche la nebbia lascia passare chiunque è davvero la fine”, ebbe
la forza di riflettere. Stanca, chiuse gli occhi. I ricordi affluirono tutti
insieme.
Itta bruciò in piazza (l’antica spianata) i vecchi tavoli, le vecchie
panche, le vecchie tovaglie, le vecchie cose che per duecentoventi stagioni
avevano diffuso la prudente ma inflessibile positività di Finìla. Fece
rinfrescare a calce i locali e rifare la porta, che ormai non chiudeva più. Lo
stanzino fu trasformato prima in ripostiglio, poi in cantina e il locale dei
mangiatori fu ampliato perché da Finìla ora si servivano piatti
complessi, elaborati dall’inesauribile fantasia di Lulla. Itta volle aggiungere
alla lista dei cibi un ‘pasto caldo del vagante’ - zuppa a base di cereali,
lardo e verdure - pagabile con un sacchetto delle smisurate lumache che
infestavano la piana ed erano l’ingrediente principe di una delle pietanze più
richieste. Le nuove solite facce gongolarono e non dovendo più pensare a
cucinare per i mariti le donne tirarono un sospiro di sollievo.
Per leggere i precedenti capitoli, clicca qui:
Note dell’editore:
«Haria vive ritirata sull'appennino ligure-emiliano, e comunica
con il mondo esterno mediante i suoi libri, in cui dispensa la conoscenza di
cui è portatrice. Ove giovani donne, in secoli diversi, in fuga dal proprio
tempo, in fuga per la consapevolezza e la libertà. Nove vite, una vita, e una
luce negli occhi che le guida e le accomuna. Nove donne oltre il varco
sull'ignoto, per un magico, solidale destino.»
“Anzol”, Haria, Collana
Letteratura di Confine, Proprietà letteraria riservata, © RUPE MUTEVOLE, prima
edizione 2013, ristampe 2017.
Cristina del Torchio
https://www.facebook.com/RupeMutevoleEditore/
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Andrea Giostra