A cura di Andrea Giostra - La 33^ puntata dei Romanzi da leggere online è dedicata all’undicesimo capitolo de “Il sosia” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij.
In copertina: Ennio Zancheri, «Neo-homer-pope», 2019, tecnica mista.
IL SOSIA | Poema
pietroburghese
Capitolo 11°.
Goljadkin sentiva il respiro mancargli: come portato
da due ali, volava sulle tracce del suo nemico, che con grande velocità si
allontanava. Sentiva dentro di sé una formidabile energia. Però, nonostante
quella formidabile energia, Goljadkin poteva audacemente sperare che in quel
momento anche una modesta zanzara, sempre che avesse potuto in quella stagione
vivere a Pietroburgo, sarebbe tranquillamente riuscita a spezzarlo con la sua
ala.
Inoltre sentiva di essere debole, affranto, di essere
trasportato da una forza estranea e tutta particolare e di non essere lui a
camminare perché, al contrario, le gambe gli si piegavano e si rifiutavano di
servirlo. Del resto, anche questo poteva sistemarsi per il meglio. "Meglio
o non meglio," pensava Goljadkin, quasi senza respiro per la gran corsa
"ma che la faccenda sia perduta, non si può nemmeno lontanamente non
pensarlo: che io sia completamente a terra, ormai si sa, è cosa certa, decisa e
controfirmata." Nonostante tutto ciò, al nostro eroe sembrò di essere resuscitato
alla vita, sembrò di aver sostenuto una battaglia e di avere conquistato la
vittoria quando riuscì ad agguantare per il cappotto il suo nemico che già
aveva messo un piede su una carrozzella e si era accordato col vetturino per
andare chissà dove.
"Egregio signore!" cominciò a gridare, alla
fine, raggiungendo l'ignobile signor Goljadkin numero due.
"Egregio signore, io spero che voi..."
"No, vi prego, non sperate niente" rispose ambiguamente lo spietato
nemico del signor Goljadkin, stando con un piede sul predellino della
carrozzella e tentando con tutte le forze di arrivare al lato opposto della
vettura con l'altro piede, agitandolo inutilmente nell'aria per lo sforzo di
mantenersi in equilibrio, e nello stesso tempo cercando di strappare dalle mani
del signor Goljadkin il proprio cappotto, al quale quello, da parte sua, si era
afferrato con tutti i mezzi fornitigli da madre natura.
"Jakòv Petrovic'! soltanto dieci minuti..."
"Scusate, non ho tempo." "Vorrete voi stesso convenire, Jakòv
Petrovic'.... vi prego, Jakòv Petrovic'... in nome di Dio, Jakòv Petrovic'...
le cose stanno così e così... bisogna spiegarsi... con sincerità... Un minutino
solo, Jakòv Petrovic'!" "Carino mio, non ho tempo" rispose con
scortese familiarità, mascherata da cordiale bonomia, il falsamente nobile
nemico del signor Goljadkin; "in un altro momento, credetemi, con tutta
l'anima e di tutto cuore; ma adesso, ecco, adesso è davvero impossibile."
"Mascalzone!" pensò il nostro eroe.
"Jakòv Petrovic'!" gridò, invece, con voce
angosciata. "Vostro nemico io non lo sono stato mai. Gente malvagia mi ha
ingiustamente dipinto... Da parte mia sono pronto... Jakòv Petrovic', vi fa
comodo che noi due, Jakòv Petrovic', entriamo subito? E lì, di tutto cuore,
come giustamente avete detto voi poco fa, e con chiare e nobili parole... ecco,
in quel caffè:
allora tutto fra noi si chiarirà... ecco come sono le
cose, Jakòv Petrovic'! Allora tutto certamente si chiarirà..." "Nel
caffè? Bene... Io non sono contrario, entriamo pure nel caffè, ma soltanto a un
patto, gioia mia, a un unico patto, che là tutto si spieghi da sé. Si dice: le
cose sono così e così, animuccia" disse il signor Goljadkin numero due,
scendendo dalla carrozzella e battendo sfacciatamente sulla spalla del nostro
eroe. "Amico bello! per te, Jakòv Petrovic', io sono pronto ad
attraversare il vicoletto (come giustamente voi, Jakòv Petrovic', vi
compiaceste un giorno di osservare). E' proprio vero che il briccone fa di un
uomo ciò che vuole!" proseguì il falso amico di Goljadkin, trotterellando
e agitandosi accanto a lui, con un lieve sorrisetto.
Il caffè lontano dalle grandi vie in cui entrarono i
due Goljadkin era in quel momento completamente deserto. Appena trillò il
campanello, comparve al banco una tedesca piuttosto grassoccia.
Goljadkin e il suo indegno nemico si inoltrarono nella
seconda saletta, dove un ragazzetto paffutello, coi capelli tagliati molto
corti, era affaccendato con un fascio di ramoscelli vicino alla stufa, cercando
di ravvivare il fuoco quasi spento. A richiesta del signor Goljadkin numero
due, fu servita una cioccolata.
"Capperi, che donnetta!" esclamò il signor
Goljadkin numero due, strizzando furbescamente un occhio al signor Goljadkin
numero uno.
Il nostro eroe si fece rosso e non disse niente.
"Ah, già, dimenticavo, scusatemi... Conosco i
vostri gusti. Noi, signore, siamo ghiotti di delicate tedeschine; noi due,
diciamolo pure, anima sincera che sei, Jakòv Petrovic', tu e io siamo ghiotti
di delicate tedescucce, anche
se, del resto, non ancora prive di attrattive;
prendiamo in affitto camere da loro, cerchiamo di sedurle per una zuppa alla
birra o al latte, dedichiamo loro il nostro cuore e mandiamo loro dichiarazioni
scritte; ecco ciò che facciamo, Faublas che non sei altro, traditore che
sei!" Tutto questo disse il signor Goljadkin numero due, facendo così una
inutile, anche se malignamente astuta, allusione a una ben nota persona di
sesso femminile, circuendo Goljadkin, sorridendogli con aria affabile, e
mostrando falsamente, in quel modo, cordialità verso di lui e gioia per
quell'incontro. Resosi conto però che il signor Goljadkin numero uno non era
tanto stupido e non privo di istruzione e di belle maniere al punto di
credergli ciecamente, l'ignobile uomo decise di cambiare tattica e di trattare
la faccenda con le carte in tavola. E a questo punto, dopo aver lanciato quella
sua infamia, il falso Goljadkin concluse, in modo così sfacciato da essere
addirittura ripugnante, con una bella manata sulla spalla del calmo Goljadkin,
poi, non ancora soddisfatto di questo, si avventurò con lui in certi scherzi
assolutamente sconvenienti nella buona società e precisamente si mise a
ripetere una sua precedente volgarità, e cioè, nonostante la resistenza e i
leggeri gridi dello sdegnato Goljadkin, prese a dargli dei pizzicottini sulle
guance. Di fronte a una farsa così turpe il nostro eroe si sentì ribollire, e
però non disse niente, per il momento.
"Queste sono parole dei miei nemici" rispose
infine, saggiamente trattenendosi, con voce fremente. E nello stesso tempo il
nostro eroe si girò allarmato verso la porta. Il fatto è che il signor
Goljadkin numero due era, evidentemente, di ottimo umore e pronto a lanciarsi
in vari scherzetti del tutto illeciti in un luogo pubblico e, generalmente
parlando, non ammessi dalle leggi del mondo e soprattutto nella distinta
società.
"Be', se è così, come volete voi" replicò
con viso serio il signor Goljadkin numero due al pensiero del signor Goljadkin
numero uno, dopo aver posato sul tavolo la tazza da lui vuotata con
sconveniente avidità. "Be', noi due non abbiamo di che tirarla tanto per
le lunghe, del resto... Dunque, come ve la passate, adesso, Jakòv Petrovic'?"
"Una cosa soltanto vi posso dire, Jakòv Petrovic'" rispose con calma
e dignità il nostro eroe; "vostro nemico io non sono stato mai."
"Ehm!... e Petruska? Come si chiama più?... Petruska, mi pare...
Ah, sì! Ebbene, come sta? Va bene? Come prima?"
"Anche lui come prima, Jakòv Petrovic'" rispose un po' meravigliato
il signor Goljadkin numero uno. "Io non so, Jakòv Petrovic'... Da parte
mia... da un lato nobile... dal lato della franchezza, Jakòv Petrovic', ne
converrete anche voi, Jakòv Petrovic'..." "Sì. Ma sapete anche voi,
Jakòv Petrovic'" rispose con voce sommessa e espressiva il signor
Goljadkin numero due, falsamente spacciandosi in tal modo per un uomo afflitto,
pentito e degno di compatimento, "voi stesso sapete che viviamo in tempi
difficili...
Lo chiedo a voi, Jakòv Petrovic': voi siete un uomo
intelligente e che ragiona bene" commentò il signor Goljadkin numero due,
bassamente blandendo il signor Goljadkin numero uno. "La vita non è un
giochetto, lo sapete anche voi, Jakòv Petrovic'" concluse con aria molto
significativa il signor Goljadkin numero due, fingendosi, così, persona
intelligente e istruita, capace di ragionare su argomenti elevati.
"Da parte mia, Jakòv Petrovic'" rispose con
animazione il nostro eroe, "da parte mia, disprezzando le scappatoie e
parlando in tutta franchezza, parlando con un linguaggio nobile e retto, e
mettendo la faccenda su un piano di nobiltà, vi dirò, e posso sinceramente e
nobilmente assicurarvelo, Jakòv Petrovic', che io sono perfettamente puro e
che, voi stesso lo sapete, Jakòv Petrovic', un reciproco malinteso (tutto può
accadere), il giudizio del mondo, l'opinione di una folla servile... lo dico
francamente, Jakòv Petrovic', tutto può accadere. E dirò inoltre, Jakòv
Petrovic', se si deve giudicare così, se si deve giudicare la faccenda da un
nobile e delicato punto di vista, oserò dire, dire senza falsa vergogna, Jakòv
Petrovic', e mi sarà persino gradito rivelarlo, che da parte mia è stato un
malinteso e mi sarà gradito riconoscerlo. Voi stesso lo sapete, voi siete un
uomo intelligente, e soprattutto una nobile persona. Senza vergogna, senza
falsa vergogna, sono pronto a riconoscerlo..." concluse il nostro eroe con
nobile dignità.
"La fatalità, il destino! Jakòv Petrovic'... ma
lasciamo stare tutto questo..." esclamò sospirando il signor Goljadkin
numero due. "Usiamo meglio i brevi istanti del nostro incontro per una più
utile e piacevole conversazione, come si conviene tra due colleghi... Davvero
non sono mai riuscito a scambiare con voi due parole, in tutto questo tempo...
Ma la colpa non è mia, Jakòv Petrovic'..." "E nemmeno mia,"
interruppe con calore il nostro eroe "nemmeno mia! Il cuore mi dice, Jakòv
Petrovic', che io non sono per niente responsabile di tutto questo. Ne
accuseremo il destino, Jakòv Petrovic'" aggiunse il signor Goljadkin
numero uno in tono conciliante. La voce incominciava a poco a poco a
indebolirglisi e a tremare. "Ebbene? Come va in complesso la vostra
salute?" disse quell'uomo corrotto con voce carezzevole.
"Ho un po' di tosse" rispose, ancor più
carezzevolmente il nostro eroe.
"Curatevi. Adesso dilagano tali epidemie, che non
è difficile prendersi un'angina e io, ve lo confesso, comincio già a coprirmi
di flanella." "E' proprio così, Jakòv Petrovic', è facilissimo
prendersi un'angina..." disse il nostro eroe dopo un breve silenzio.
"Jakòv Petrovic'! Mi accorgo proprio di aver preso una cantonata... Io
ricordo con commozione quei felici momenti che ci è capitato di trascorrere
insieme sotto il mio povero, ma oso dire, cordiale tetto." "Nella
vostra lettera, però, non avete scritto questo" replicò con leggero
rimprovero perfettamente giusto (giusto, poi, soltanto sotto questo aspetto) il
signor Goljadkin numero due.
"Jakòv Petrovic'! Sono caduto in errore... Me ne
rendo ben conto, adesso, che sono caduto in errore anche in quella malaugurata
mia lettera. Jakòv Petrovic', ho vergogna di guardarvi, Jakòv Petrovic' voi non
mi crederete... Datemi quella lettera, che io possa strapparla davanti a voi,
Jakòv Petrovic', o, se questo non è possibile, vi supplico di leggerla a
rovescio, completamente a rovescio, cioè, voglio dire, con amichevoli
intenzioni, attribuendo a ogni parola della mia lettera il significato opposto.
Ho sbagliato. Perdonatemi, Jakòv Petrovic'... ho sbagliato, ho sbagliato amaramente,
Jakòv Petrovic'..." "Voi dite?" chiese distrattamente e con una
certa indifferenza il perfido amico del signor Goljadkin.
"Io dico che mi sono completamente sbagliato,
Jakòv Petrovic', e che da parte mia io, assolutamente, senza falsa vergogna..."
"Ah, sono contento! Sono contento che abbiate sbagliato" rispose
rudemente il signor Goljadkin numero due.
"Io, Jakòv Petrovic', ho avuto persino
l'idea" aggiunse con nobile gesto il nostro sincero eroe, non accorgendosi
affatto della terribile perfidia del suo falso amico, "ho avuto persino
l'idea che, ecco, siano stati creati due esseri perfettamente uguali..."
Ah! questa è la vostra idea!" A questo punto il signor Goliadkin numero
due, famoso per la sua assoluta inutilità, si alzò e afferrò il cappello. Non
accorgendosi ancora dell'inganno, anche il signor Goljadkin numero uno si alzò,
sorrise con bonaria affabilità al suo falso amico, facendo di tutto, nel suo
candore, per essere affettuoso con lui, per fargli coraggio e per riannodare
così una nuova amicizia...
"Addio, eccellenza!" gridò all'improvviso il
signor Goljadkin numero due. Il nostro eroe sussultò, e, avendo visto nel viso
del suo nemico un non so che di bacchico, unicamente per liberarsene ficcò
nella mano che l'immorale gli aveva teso due dita della propria mano: ma ecco,
ecco che a questo punto l'impudenza del signor Goljadkin numero due passò ogni
limite. Afferrate le due dita della mano del signor Goljadkin numero uno e
strettele prima un po', l'indegno, proprio sotto gli occhi del signor
Goljadkin, decise di ripetere il suo sfacciato scherzo del mattino. La misura
dell'umana pazienza era esaurita...
Aveva già rificcato in tasca il fazzoletto col quale
si era strofinato le dita, quando il signor Goljadkin numero uno si riprese e
si lanciò dietro di lui nella stanza attigua, dove, secondo la propria
sfacciata abitudine, il suo accanito nemico si era affrettato a sgattaiolare.
Come se nessuno lo vedesse, se ne stava vicino al banco, mangiava focaccette e
calmissimo, come l'uomo più virtuoso del mondo, corteggiava la pasticcera
tedesca.
"Davanti alle signore è impossibile"
rifletté il nostro eroe e, fuori di sé dall'agitazione, si avvicinò pure lui al
banco.
"Davvero, la donnina non è affatto male! Che ne
dite?" riprese di nuovo con le sue sconvenienti uscite il signor Goljadkin
numero due, contando di certo sulla pazienza senza limiti del signor Goljadkin
numero uno. La tedescona, da parte sua, guardava i suoi clienti con occhi
stupidi e opachi, non capendo evidentemente la lingua russa, e con un amabile
sorriso. Il nostro eroe si fece rosso come il fuoco per le parole del signor
Goljadkin numero due che non conosceva vergogna e, impotente a dominarsi, gli
si lanciò finalmente contro con la chiara intenzione di farlo a pezzi e così
farla finita una buona volta con lui; ma il signor Goljadkin numero due,
secondo la sua abietta abitudine, era già lontano: se l'era data a gambe e
aveva già raggiunto la scaletta. Viene da sé che, dopo il primo momento di
stupore che, naturalmente, aveva colpito il signor Goljadkin numero uno, si
riprese e si lanciò a gambe levate dietro l'offensore, che già saliva sulla
carrozzella del "vanka" che lo aspettava e che evidentemente era già
d'accordo con lui in tutto e per tutto. Ma proprio in quel momento la tedescona,
vedendo i suoi due avventori in fuga, si mise a gridare e si lanciò a tutta
forza sul campanello. Il nostro eroe si girò, le lanciò a volo il denaro per sé
e per quello sfacciato individuo che non aveva pagato, senza esigere il resto
e, nonostante si fosse così attardato, riuscì tuttavia, ma anche questa volta
soltanto a volo, ad afferrare il suo nemico. Aggrappatosi al parafango della
carrozzella con tutti i mezzi datigli da madre natura, il nostro eroe corse per
un po' di tempo a grande velocità per la strada, cercando di arrampicarsi sulla
carrozzella difesa a tutta forza dal signor Goljadkin numero due. Intanto il
vetturino, con la frusta, con le redini, col piede e con le parole eccitava lo
sgangherato ronzino, che inaspettatamente si lanciò di gran carriera,
stringendo il morso tra i
denti e scalciando, secondo la sua deplorevole
abitudine con le zampe posteriori, ogni tre passi.
Finalmente il nostro eroe riuscì ad arrampicarsi sulla
carrozzella, col viso verso il suo nemico, la schiena al vetturino e le
ginocchia contro le ginocchia di quello svergognato, aggrapandosi con la mano
destra e con tutte le sue forze all'orribile bavero di pelliccia del cappotto
del suo turpe e acerrimo nemico...
I due nemici filavano a tutta velocità e per un po' di
tempo rimasero zitti. Il nostro eroe riusciva a fatica a tirare il fiato; la
strada era pessima e a ogni passo c'erano dei grandi sobbalzi, con il pericolo
di rompersi l'osso del collo. Inoltre il suo acerrimo nemico non si dava ancora
per vinto e provava in tutti i modi a ricacciare nel fango l'avversario. A
completare l'elenco delle avversità, il tempo era orrendo. La neve cadeva
fittissima e provava in ogni modo a insinuarsi sotto il cappotto, che si era
sbottonato, del signor Goljadkin, quello autentico.
Intorno l'aria era cuca e non si riusciva a vedere
niente. Era difficile poter distinguere in quale direzione e per quale strada
corressero... Goljadkin ebbe l'impressione che gli stesse capitando qualcosa di
già noto. Per un attimo cercò di farsi tornare in mente se il giorno prima non
avesse previsto qualcosa... in sogno, per esempio... Finalmente l'angoscia
raggiunse l'apice dell'agonia. Premendo con tutta la forza sul suo spietato
avversario, stava quasi per mettersi a gridare, ma il grido gli morì sulle
labbra... Ci fu un minuto in cui Goljadkin dimenticò tutto e decise che tutto
ciò non aveva assolutamente importanza e che accadeva soltanto così, chissà
come, in modo inspiegabile, e che, dato il caso, protestare sarebbe stato
inutile e soltanto tempo perso... Ma all'improvviso e quasi nel preciso momento
in cui il nostro eroe stava tirando queste conclusioni, un sobbalzo imprudente
cambiò tutta quanta la faccenda. Goljadkin rotolò giù dalla carrozzella come un
sacco di patate e rimbalzò chissà dove, riconoscendo con equanimità, al momento
della caduta, che in effetti si era accalorato troppo e molto a sproposito.
Rialzatosi finalmente, osservò il luogo dove si trovava: la carrozzella era in
mezzo al cortile, e il nostro eroe si accorse, alla prima occhiata, che si
trattava precisamente del cortile della casa in cui abitava Olsufij Ivànovic'.
E nello stesso tempo si accorse pure che l'amico stava già salendo sul
pianerottolo d'ingresso, diretto, sicuramente, da Olsufij Ivànovic'. In uno
stato di indescrivibile angoscia si precipitò all'inseguimento del nemico, ma,
per sua fortuna, saggiamente, cambiò parere in tempo. Senza dimenticare di
pagare il vetturino, Goljadkin si lanciò sulla strada e corse a gran velocità
dove lo portavano le gambe. La neve continuava a cadere fitta fitta; l'aria era
sempre cuca, buia e umida. Il nostro eroe non correva, volava... travolgendo
tutto sulla sua strada, contadini, donne e bambini, e veniva travolto a sua
volta da donne contadini e bambini. Intorno a lui e alle sue spalle si
sentivano voci spaventate, grida, strilli... Ma sembrava che Goljadkin fosse
completamente fuori di sé, e non voleva fare attenzione a niente e a nessuno...
Si riprese, del resto, già al ponte Semjonovskij, ma fu soltanto per il fatto
che era arrivato, non si sa come, a malamente contro due donne e a buttarle in
terra con certi loro articoli di gran smercio, e nello stesso tempo a cadere
anche lui lungo disteso. "Non ha importanza" pensò Goljadkin,
"tutto questo può benissimo volgere al meglio", e subito si ficcò la
mano in tasca volendo farla finita, con un rublo d'argento, di tutti quei
mostacciuoli, quelle mele, quei piselli e tutte le altre cose che si erano
sparpagliate qua e là. Di colpo una nuova luce colpì Goljadkin: nella tasca
aveva sfiorato la lettera, datagli al mattino dallo scrivano. Ricordatosi, tra
l'altro, che poco lontano si trovava una trattoria a lui ben conosciuta, si
affrettò in quella direzione, senza perdere tempo si accomodò a un tavolino
illuminato da una candeletta di sego e, senza pensare a nient'altro e senza
ascoltare il cameriere comparso a prendere ordini, strappò la busta e si
precipitò a leggere quanto riportiamo sotto, che gli diede il colpo definitivo.
"Nobile uomo che soffrì per me e caro in eterno
al mio cuore! Io soffro, io soccombo: salvami!
Il calunniatore, l'intrigante, l'uomo noto per la
fatuità delle sue inclinazioni, mi ha avviluppata nelle sue reti e io sono
perduta. Sono caduta! Ma egli mi è odioso; tu, invece! Ci hanno separati, le
mie lettere per te sono state intercettate e tutto ciò è opera di quell'essere
immondo, che ha approfittato dell'unico suo pregio: la somiglianza con te. In
ogni caso poi si può essere brutto d'aspetto, ma affascinante per intelligenza,
viva sensibilità e simpatico modo di fare... Io sto soccombendo!
Mi fanno sposare a viva forza e colui che più di ogni
altro sta ordendo intrighi è il mio genitore e benefattore e consigliere di
stato Olsufij Ivànovic, che favorisce chi desidera probabilmente salire alla
mia posizione e alle mie relazioni nell'alta società... Ma io sono decisa a
protestare con tutti i mezzi fornitimi dalla natura. Attendimi oggi con la tua
carrozza, alle nove precise, davanti alle finestre dell'abitazione di Olsufij
Ivànovic'. A casa nostra ci sarà di nuovo un ballo e ci sarà il bel tenente. Io
verrò e voleremo via insieme. Inoltre, esistono ancora altri uffici pubblici
dove si può ancora essere di utilità alla patria. In ogni caso ricorda, amico
mio, che l'innocenza è forte della sua stessa innocenza. Addio. Aspettami con
la carrozza davanti all'ingresso! Mi abbandonerò alla protezione dei tuoi
abbracci alle due precise dopo mezzanotte.
Tua fino alla tomba Klara Olsùfevna."
Letta la lettera, il nostro eroe rimase per alcuni
minuti disfatto. In preda a un'angoscia terribile, a una terribile agitazione,
pallido come un cencio, tenendo tra le mani la lettera, camminò parecchie volte
su e giù per la stanza; ad aggravare al massimo la sua posizione, il nostro
eroe non si rese conto di essere, in quel momento, oggetto dell'esclusiva
curiosità di tutti i presenti nella stanza. Probabilmente il disordine del
vestito, l'insopprimibile agitazione, quel suo continuo camminare su e giù, il
suo gesticolare con tutte e due le mani, e forse alcune misteriose parole
lanciate al vento e in stato di confusione, tutto questo, certamente, mal
deponeva in favore di Goljadkin, nell'opinione di tutti gli avventori; e
persino il garzone cominciava a osservarlo con occhio sospettoso. Ripresosi, il
nostro eroe si rese conto di trovarsi in mezzo alla stanza e di guardare in
modo quasi sconveniente e ineducato un vecchietto dall'aspetto assai
rispettabile, che, dopo aver pranzato e pregato davanti all'immagine di Dio, si
era rimesso a sedere e, da parte sua, non toglieva gli occhi di dosso a Goljadkin.
Il nostro eroe rivolse in giro una vaga occhiata e si accorse che tutti,
proprio tutti, lo guardavano con aria maligna e sospettosa. All'improvviso un
militare in pensione, col bavero rosso, chiese ad alta voce il "Gazzettino
della Polizia". Goljadkin sussultò e si fece rosso:
inconsapevolmente abbassò gli occhi e notò di aver
indosso un abito così indecente che non solo in un luogo pubblico, ma neppure
in casa sua avrebbe potuto indossarlo. Gli stivali, i calzoni e tutto il suo
fianco destro erano coperti di fango, la staffa del piede destro era strappata,
e anche la marsina era lacerata qua e là in parecchi punti. In preda a
un'angoscia infinita, il nostro eroe si avvicinò al tavolo al quale aveva letto
la lettera e vide che gli si avvicinava il garzone della trattoria, col viso
atteggiato a una strana e insolente espressione. Completamente smarrito e
disfatto, il nostro eroe cominciò a fissare il tavolo presso il quale stava,
ora, in piedi. Sul tavolo c'erano i piatti usati di qualcuno e non ancora
rigovernati, un tovagliolo sporco, e vi giacevano in disordine un cucchiaio, un
coltello e una forchetta, che erano stati appena adoperati. "Chi ha
pranzato qui?" pensò il nostro eroe. "E' possibile che sia stato io?
Tutto può darsi! Ho pranzato e non me ne sono accorto; ma come può essere?"
Alzati gli occhi, Goljadkin vide di nuovo vicino a sé il garzone, che si
preparava a dirgli qualcosa.
"Qual è il mio debito, caro?" chiese il
nostro eroe con voce trepidante.
Una sonora risata echeggiò intorno a Goljadkin: rideva
anche il garzone. Goljadkin capì che anche lì l'aveva sbagliata e che aveva
commesso qualche terribile stupidaggine. Compreso questo, si confuse tanto che
fu costretto a ficcare la mano in tasca alla ricerca del fazzoletto, tanto per
fare qualcosa e non rimanere lì dritto impalato; ma, con indescrivibile stupore
suo e di tutti quelli che lo circondavano, invece del fazzoletto tirò fuori il
flacone di una certa medicina che quattro giorni prima gli aveva prescritto
Krestjàn Ivànovic'. "I medicinali di quella farmacia" balenò in testa
a Goljadkin... Di colpo sussultò e poco ci mancò che lanciasse un grido di
terrore. Una nuova luce stava diffondendosi... Un liquido bruno, di un
ripugnante colore rossiccio, brillava, con maligni riflessi, sotto gli occhi di
Goljadkin... La boccetta gli era caduta dalle mani e era andata in mille
pezzi... Il nostro eroe lanciò un grido e indietreggiò di due passi davanti al
liquido sparso... Un tremito gli percorreva le membra e un abbondante sudore
gli spuntava sulle tempie e sulla fronte. "Dunque la mia vita è in
pericolo!" Intanto nella stanza si era creato un certo movimento, un po'
di trambusto: tutti avevano circondato Goljadkin, tutti parlavano a Goljadkin,
alcuni avevano perfino afferrato Goliadkin. Ma il nostro eroe era muto e immobile,
senza né vedere né ascoltare né sentire nulla... Infine, come se si fosse
sradicato dal posto, si lanciò fuori dalla trattoria, fece a gomitate con tutti
quelli che cercavano di trattenerlo e, quasi svenuto, si abbandonò sulla prima
carrozzella capitatagli a tiro e volò verso casa.
Nell'anticamera del suo appartamento gli si fece
incontro Micheiev, il custode del dipartimento, con un plico di stato tra le
mani. "So amico mio, so tutto" rispose con voce debole e depressa il
nostro eroe, accasciato. "E' una cosa d'ufficio..." Il plico
conteneva realmente l'ordine, a firma di Andréj Filìppovic', che Goljadkin
consegnasse le pratiche che si trovavano nelle sue mani a Ivàn Semjònovic'.
Preso il plico e data una moneta da dieci copechi al custode, Goljadkin entrò
nel suo appartamento e vide che Petruska stava preparando e riunendo in un
mucchio tutti i propri stracci e cianfrusaglie e tutta la sua roba, con
l'intenzione evidente di lasciare Goljadkin e di passare dal suo servizio a
quello di Karolina Ivànovna, che lo aveva adescato perché prendesse il posto di
Evstafij.
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Fëdor Michajlovič
Dostoevskij
Andrea Giostra