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Normal Rockwell (New York 1894-Stockbridge 1978), "Triplo Autoritratto", 1960, cm 113x88, olio su tela. |
Capitolo 8°.
Il giorno dopo Goljadkin si svegliò come al solito
alle otto; e, appena sveglio, gli si ricordò subito degli avvenimenti della
sera precedente: se ne ricordò e si rabbuiò in viso.
"Una parte da stupido ho recitato ieri
sera!" pensò, sollevandosi sul letto e gettando un'occhiata al letto
dell'ospite. Ma quale stupore! Nella camera non solo non c'era più l'ospite, ma
nemmeno il letto! "Che significa questo? Che vuol dire questa nuova
circostanza?" Mentre Goljadkin, sbalordito, guardava a bocca aperta il
posto vuoto, la porta scricchiolò e entrò Petruska, che portava il vassoio col
tè. "Ma dov'è? Dov'è?" pronunciò con voce appena udibile il nostro
eroe, indicando col dito il posto occupato la sera prima dall'ospite. Petruska
non rispose e non guardò nemmeno il suo padrone, ma girò gli occhi verso
l'angolo a destra, tanto che lo stesso Goljadkin fu spinto a guardare anche lui
in quell'angolo. Però, dopo un breve silenzio, Petruska, con voce rauca e
ruvida rispose "che il padrone non era in casa".
"Sei stupido, sai: il tuo padrone sono io,
Petruska" esclamò Goljadkin con voce spezzata e guardando con gli occhi
sbarrati il suo domestico.
Petruska non rispose, ma fissò Goljadkin in un modo
che quello arrossì fino alle orecchie; quello sguardo aveva un'aria di
rimprovero così oltraggiosa, da essere davvero simile a un'ingiuria. A
Goljadkin cascarono, come si suol dire, le braccia.
Finalmente Petruska spiegò che già da un'ora e mezzo
"l'altro" se ne era andato e non aveva voluto aspettare. Certamente
la risposta era verosimile e credibile; si vedeva che Petruska non mentiva, che
quello sguardo insultante e la parola "l'altro" da lui usata, non era
che una conseguenza della nota, disgraziata vicenda, capiva però, anche se
vagamente, che lì c'era qualcosa che non andava e che il destino gli stava
preparando ancora qualche altro tiro, non esattamente gradevole. "Bene,
vedremo," disse tra sé "vedremo e a suo tempo metteremo tutto in
chiaro... Ah, Signore mio dio!" gemette alla fine, con voce ormai del
tutto diversa.
"Perché mai l'ho invitato, perché poi ho fatto
tutto questo? Ma sono io stesso che vado a ficcarmi nelle loro trame
truffaldine, io stesso mi metto la corda al collo! Ah, testa, testa! Non sei
nemmeno capace di trattenerti dal raccontare bugie come un ragazzaccio
qualsiasi, un qualsiasi giovane di cancelleria, come un qualunque imbecille di
impiegatuccio, un cencio, un puzzolente straccio qualunque, pettegolo che non
sei altro, donnicciola!... O santi protettori! E anche dei versi ha scritto, il
furfante, e mi ha fatto una dichiarazione d'amore! Come potrei... Come potrei
mostrare la porta in modo adeguato a quel furfante, se tornasse?
Si sa, modi e metodi ce n'è in quantità. Così e
così... dirò, si sa, il mio stipendio è limitato... Oppure mettergli un po' di
paura addosso, in un modo o nell'altro, facendogli presente che, data la
situazione, sono costretto a dire le cose come stanno... e bisogna, dirò,
bisogna pagare a metà vitto e alloggio, e i soldi vanno dati anticipatamente.
Ehm! no... che il diavolo mi porti...
no! Una cosa simile mi disonorerebbe. Sarebbe
assolutamente indelicata! Ecco, si potrebbe forse fare in un'altra maniera,
così per esempio: suggerire a Petruska qualche idea perché gliene combini
qualcuna, si mostri in qualche modo negligente verso di lui, gli risponda con
insolenza, costringendolo così a andare via?
Aizzarli così l'uno contro l'altro... No, no, che il
diavolo mi porti! Questo è pericoloso e poi anche questo, a vederlo da un certo
punto di vista... be', no, non va assolutamente!
Assolutamente non va! E se lui non venisse più? Anche
questo sarebbe un male? Gliene ho raccontate tante ieri sera! Eh male, male!
Ah, questa nostra faccenda è piuttosto mal messa! Ah, testa, testa mia
maledetta! Non puoi imparare quello che si deve fare!
Be', e se lui tornasse e non accettasse? Voglia Iddio
che venga!
Sarei contentissimo, se venisse: non so che cosa
darei, perché venisse..." Così ragionava Goljadkin, mentre ingoiava il suo
tè e guardava continuamente l'orologio. "Adesso sono le nove meno un
quarto: è ora di andare. Ma qualcosa succederà: che diavolo mai succederà?
Vorrei proprio sapere che cosa si nasconde qui di
tanto particolare... lo scopo, le intenzioni e i vari sotto sotto...
Sarebbe bene poter sapere a cosa precisamente miri
tutta questa gente e quale sarà il loro primo passo..." Goljadkin non poté
resistere oltre, mise via la pipa senza aver finito di fumare, si vestì e si
precipitò in ufficio, desiderando, se possibile, di afferrare il pericolo per
le corna e di sincerarsi di ogni cosa con la sua personale presenza. E un
pericolo c'era: lo sapeva benissimo, che un pericolo c'era. "Ma ecco
noi... noi ne verremo a capo" mormorava dentro di sé Goljadkin mentre, in
anticamera, si toglieva cappotto e soprascarpe, "noi andremo a fondo di
tutte queste faccende".
Deciso così ad agire, il nostro eroe si ravviò i
capelli, prese un'aria autorevole e ufficiale, e era in procinto di entrare
nella stanza attigua, quando all'improvviso, proprio sulla soglia, si scontrò
col conoscente, amico e compagno della sera prima. Il signor Goljadkin numero
due sembrò non accorgersi del signor Goljadkin numero uno, benché si fossero
scontrati faccia a faccia.
Il signor Goljadkin numero due era, a quanto pareva,
indaffarato, correva non so dove, ansimava, aveva un'aria così ufficiale, così
impegnata, che ognuno avrebbe potuto, sembrava, leggergli in viso:
"comandato per un incarico particolare..."
"Ah, siete voi, Jakòv Petrovic'!" esclamò il nostro eroe, prendendo
per un braccio il suo ospite del giorno prima.
"Più tardi, più tardi scusatemi... mi direte più
tardi..." quasi gridò il signor Goljadkin numero due, precipitandosi
avanti.
"Però permettete; mi pare che voi, Jakòv Petrovic',
volevate..." "Che cosa? Spiegatevi alla svelta..." A questo
punto l'ospite serale si fermò quasi costringendosi, e con aria scontenta mise
il suo orecchio dritto proprio davanti al naso di Goljadkin.
"Vi dirò, Jakòv Petrovic', che io mi meraviglio
di questi modi...
di questi modi che evidentemente non mi sarei
aspettato da voi." "Per ogni cosa ci sono delle procedure.
Presentatevi al segretario di sua eccellenza e poi rivolgetevi nei modi
prescritti al signor direttore della cancelleria. Si tratta di una
istanza." "Voi, Jakòv Petrovic', voi... io non so. Mi fate
semplicemente restare di stucco, Jakòv Petrovic'! Voi certo non mi riconoscete
o, dato il vostro temperamento così allegro, avete voglia di scherzare..."
"Ah, siete voi!" esclamò Goljadkin numero due, proprio come se giusto
in quel momento avesse visto il signor Goljadkin numero uno. "Siete
proprio voi? Be', avete passato bene la notte?" A questo punto il signor
Goljadkin numero due, dopo un leggero sorriso, dopo aver sorriso in modo ufficiale
e formale, anche se non si sarebbe assolutamente dovuto fare (poiché, in ogni
caso, era comunque in debito di riconoscenza verso il signor Goljadkin numero
uno), dopo aver dunque sorriso in modo ufficiale e formale, aggiunse che lui,
da parte sua, era molto lieto che il signor Goljadkin avesse passato una buona
notte; poi fece un leggero inchino, mosse un po' i piedi lì sul posto, guardò a
destra, a sinistra, abbassò gli occhi, adocchiò una porta laterale e
bisbigliando rapidamente che aveva un incarico particolare, scivolò svelto
svelto nella stanza vicina. Non lo si vide più.
"Ma guarda un po' che roba!" borbottò il
nostro eroe, rimasto per un attimo sbalordito, "guarda che roba! Ecco in
che situazione ci si ritrova!" A questo punto Goljadkin sentì un formicolio
corrergli per tutto il corpo...
"Del resto" aggiunse, sempre mormorando,
mentre si avviava alla sua sezione, "già da un pezzo io immaginavo una
cosa simile; già da un pezzo prevedevo che avesse un incarico speciale; anzi,
proprio ieri sera stavo dicendolo, che senza dubbio quell'uomo aveva un
incarico speciale per conto di qualcuno..." "Avete finito, Jakòv
Petrovic', la vostra pratica di ieri?" domandò Antòn Antònovic' Setoc'kin,
che si era messo a sedere accanto a Goljadkin. "L'avete qui?"
"Sì, qui" mormorò Goljadkin, rivolgendo al capufficio uno sguardo
smarrito.
"Bene bene... Ve l'ho detto perché Andréj
Filìppovic' l'ha già richiesta due volte. Badate che sua eccellenza la
vorrà." "No, signore, è pronta." "Benissimo, allora."
"Io, Antòn Antònovic', mi pare, ho sempre compiuto il mio dovere come si
deve e mi prendo cura degli incartamenti affidatimi dai superiori, e me ne
occupo con zelo." "Sì, sì, d'accordo. Ma che volete dire con
questo?" "Niente, signore, niente, Antòn Antònovic'. Soltanto, Antòn
Antònovic', voglio spiegare che... che io... cioè vorrei dire che a volte la
cattiveria e l'invidia non risparmiano nessuno, e cercano il loro disgustoso
pane quotidiano..." "Scusate, non vi capisco assolutamente. Cioè, a
chi volete alludere?" "Cioè, volevo solo dire, Antòn Antònovic', che
io vado dritto per la mia strada e disprezzo le vie traverse, che non sono un
intrigante e che di questo, purché mi si permetta di esprimermi così, posso
giustamente vantarmi." "Certo, signore. Le cose stanno così e, almeno
secondo il mio giudizio, rendo piena giustizia al vostro ragionamento; ma
permettete, Jakòv Petrovic', anch'io vi faccio notare che le allusioni
personali nella buona società non sono assolutamente permesse; che io, per
esempio, sono pronto a sopportarle in mia assenza: perché infatti, chi mai,
quando è assente, non viene criticato?... Ma, in faccia, signor mio, mettetela
come volete, io, per esempio, io non sopporterò che mi si dicano delle
impertinenze. Io, signor mio, ho fatto i capelli bianchi al servizio dello
stato e impertinenze, nella mia vecchiaia, non me ne lascerò dire..."
"Nossignore, io, Antòn Antònovic', voi, vedete, Antòn Antònovic', voi, mi
pare, Antòn Antònovic', che non abbiate compreso bene. E io, scusate, Antòn
Antònovic', io, per parte mia, posso soltanto ascrivere a mio onore..."
"E ora vi prego di scusare anche noi, signore. Noi siamo stati educati
all'antica. E, per imparare secondo le vostre maniere, maniere nuove, è ormai
tardi, per noi. Per servire la patria mi sembra che, fino a ora, l'intelligenza
che abbiamo sia stata sufficiente. Io, signor mio, come voi stesso sapete, ho
il distintivo di venticinque anni di servizio irreprensibile." "Io
comprendo, Antòn Antònovic', da parte mia comprendo tutto ciò.
Ma non era di questo che io parlavo; parlavo della
maschera, Antòn Antònovic'..." "Della maschera?" "Cioè, voi
di nuovo... io temo che voi anche qui stiate sbagliando strada per ciò che
riguarda il significato dei miei discorsi, come voi stesso dite, Antòn Antònovic',
che le persone che portano la maschera hanno cominciato a non essere più tanto
rare e che al giorno d'oggi è difficile riconoscere una persona sotto la
maschera..." "Be' sapete? non è poi sempre così difficile, a volte,
anzi, è abbastanza facile e non è nemmeno necessario andare a cercare tanto
lontano..." "No, signore, sapete? Io, Antòn
Antònovic', dico di me stesso, dico, che io, per esempio, mi metto la maschera
soltanto quando è necessario, cioè soltanto per il carnevale, e per le riunioni
allegre, parlando in senso proprio, ma che non mi maschero ogni giorno davanti
alla gente, parlando in un altro senso più nascosto. Ecco ciò che volevo dire,
Antòn Antònovic'." "Be', ma ora, lasciamo perdere tutto questo. Non
abbiamo tempo" disse Antòn Antònovic', alzandosi dal suo posto e
raccogliendo alcune carte per il rapporto a sua eccellenza. "La vostra
faccenda, immagino che non ci vorrà molto tempo perché sia chiarita
completamente. Vedrete voi stesso chi dovrete incolpare e accusare e intanto vi
prego umilmente di esentarmi da ulteriori spiegazioni e da discorsi
pregiudizievoli per il servizio..." "No, signore... Io, Antòn
Antònovic'" cominciò Goljadkin, che era impallidito, alle spalle di Antòn
Antònovic' che si allontanava.
"Io, Antòn Antònovic', non intendevo affatto questo..."
"Ma che diavolo è mai questo?" proseguì tra sé e sé il nostro eroe,
rimasto solo. "Che razza di venti stanno soffiando qui e che cosa
significa questo nuovo rovello?" Nel preciso istante in cui il nostro
eroe, sconcertato e mezzo accasciato, si preparava a risolvere questo nuovo
problema, si sentì del rumore nella stanza vicina, si notò un certo tramestìo,
la porta si aprì e Andréj Filìppovic', che si era appena allontanato per andare
per ragioni d'ufficio nel gabinetto di sua eccellenza, comparve ansimante sulla
porta e chiamò Goljadkin.
Sapendo di che cosa si trattava e non volendo far
aspettare Andréj Filìppovic', Goljadkin si alzò di scatto dal suo posto e, come
si conviene, cominciò disperatamente a mettere ordine e a dare gli ultimi
definitivi ritocchi all'incartamento richiesto e si preparò a dirigersi,
seguendo Andréj Filìppovic' e l'incartamento, verso il gabinetto di sua
eccellenza. All'improvviso e quasi sotto il naso di Andréj Filìppovic' che
stava in quel momento proprio sulla porta, si infilò nella stanza il signor
Goljadkin numero due, indaffarato, ansimante, spossato dal servizio, con
un'aria d'importanza decisamente ufficiale, e si lanciò dritto dritto verso il
signor Goljadkin numero uno, che meno di tutti si aspettava un simile assalto...
"Gli incartamenti, Jakòv Petrovic', gli
incartamenti... Sua eccellenza si è degnata di chiedere se li avete
pronti" cominciò a cinguettare a mezza voce e con grande rapidità l'amico
del signor Goljadkin numero uno. "Andréj Filìppovic' vi aspetta..."
"Lo so anche senza di voi, che aspetta..." rispose il signor
Goljadkin numero uno, anche lui in un rapidissimo sussurro.
"No, io, Jakòv Petrovic', non è questo che voglio
dire: io, Jakòv Petrovic', io mi interesso della cosa e sono spinto da un senso
di affettuosa partecipazione." "Dalla quale vi prego molto umilmente
di esentarmi. Permettete, permettete..." "Voi, naturalmente,
disporrete quegli incartamenti in una copertina, Jakòv Petrovic'; e alla terza
pagina ci metterete un segnalibro, permettete, vero, Jakòv Petrovic'?"
"Permettete voi, una buona volta..." "Ma qui c'è una macchiolina
d'inchiostro, Jakòv Petrovic'; vi siete accorto di questa macchiolina
d'inchiostro?" A questo punto Andréj Filìppovic' chiamò per la seconda
volta Goljadkin.
"Eccomi, Andréj Filìppovic'; io, ecco, soltanto
un momentino, ecco qui... Egregio signore, capite il russo?" "Meglio
di tutto sarà di raschiarlo con un temperino, Jakòv Petrovic'; la cosa migliore
è che vi fidiate di me; è meglio che voi non lo tocchiate, Jakòv Petrovic',
fidatevi di me... Io ora un po' col temperino..." Andréj Filippovic' per
la terza volta chiamò Goljadkin.
"Ma, scusate, dov'è questa macchietta? Mi sembra
proprio che qui non ci sia nessuna macchietta." "E' una macchietta
enorme, eccola! Ecco, permettete, io l'ho vista qui; permettete, permettetemi
soltanto, Jakòv Petrovic'... io qui col temperino un pochino, ecco... io
proprio per simpatia, Jakòv Petrovic', col temperino e con tutta l'anima...
ecco... ecco fatto!" A questo punto e in modo del tutto imprevisto, il
signor Goljadkin numero due, senza dire né a né ba, avuta la meglio sul signor
Goljadkin numero uno nella momentanea lotta nata tra loro, e in ogni caso
assolutamente contro la volontà di quest'ultimo, s'impadronì dell'incartamento
richiesto dal superiore e, invece di procedere a raschiare lealmente col
temperino, come aveva con astuzia promesso al signor Goljadkin numero uno,
l'arrotolò in fretta e furia, se lo mise sotto il braccio e con due salti
arrivò a fianco di Andréj Filìppovic' che non si era accorto di nessuno dei
suoi piccoli trucchi e volò con lui nel gabinetto del direttore. Il signor
Goljadkin numero uno rimase come inchiodato sul posto, col temperino in mano,
come se si preparasse a raschiare qualcosa...
Il nostro eroe non si era ancora reso ben conto della
nuova circostanza. Non si era ancora riavuto. Aveva accusato il colpo, ma
pensava si trattasse di qualcos'altro. In preda a una terribile, indescrivibile
angoscia, riuscì, infine, a smuoversi dal suo posto e si lanciò dritto filato
nell'ufficio del direttore, supplicando il cielo, strada facendo, che tutto si
aggiustasse nel migliore dei modi e si trattasse per così dire, di una cosa da
niente...
Nell'ultima stanza, prima dell'ufficio del direttore,
si trovò correndo, faccia a faccia con Andréj Filìppovic' e col suo omonimo.
Erano già di ritorno; il signor Goljadkin si scostò. Andréj Filìppovic' parlava
e sorrideva allegramente. L'omonimo del signor Goljadkin numero uno sorrideva
anche lui, trotterellando e saltellando a rispettosa distanza da Andréj
Filìppovic', e con aria rapita gli bisbigliava non so che cosa all'orecchio,
mentre Andréj Filìppovic' annuiva con la testa nel modo più benevolo. Di colpo
il nostro eroe capì la situazione.
Il fatto era che il suo lavoro (come venne a sapere in
seguito), aveva quasi preceduto l'attesa di sua eccellenza e era effettivamente
arrivato entro il termine fissato. Sua eccellenza era soddisfattissimo. Si
diceva anche che sua eccellenza avesse detto parole di ringraziamento al signor
Goljadkin numero due, sì, proprio di caldo ringraziamento; e aveva detto che,
nell'occasione propizia, se ne sarebbe ricordato e mai l'avrebbe dimenticato...
Si capisce che il primo atto del signor Goljadkin
numero uno fu quello di protestare; di protestare energicamente, fino alle
estreme possibilità. Quasi fuori di sé e pallido come un cadavere, si precipitò
da Andréj Filìppovic'. Ma Andrej Filìppovic', dopo aver sentito che la storia
del signor Goljadkin era una storia di carattere privato, rifiutò di ascoltarlo,
facendo osservare in modo netto che non aveva un minuto libero nemmeno per ciò
che gli poteva servire personalmente.
Il tono secco e l'asprezza del rifiuto colpirono
Goljadkin. "Ecco, è meglio che io la prenda da un altro lato... ecco, è
meglio che vada da Antòn Antònovic'". Per disgrazia di Goljadkin, Antòn
Antònovic' non c'era: era pure lui chissà dove, occupato in chissà che cosa.
"Ecco, dunque, non era senza un preciso proposito, ecco, dunque, perché mi
pregava di esimerlo da spiegazioni e discussioni!" pensava il nostro eroe.
"Ecco a che cosa mirava il vecchio furfante! Se è così oserò semplicemente
di supplicare sua eccellenza".
Sempre pallidissimo e sentendo una gran confusione
nella testa, molto imbarazzato a proposito della decisione da prendere,
Goljadkin si mise a sedere sulla sedia. "Sarebbe molto meglio se tutto
questo fosse stato soltanto così..." rimuginava continuamente nel
cervello. "A dire il vero, una faccenda così ingarbugliata pare
addirittura inverosimile. Prima di tutto è un'assurdità, e poi non può nemmeno
accadere. Probabilmente, chissà come mai, mi è solo sembrato che fosse così,
oppure ne è venuta fuori qualche altra cosa e non quello che era in realtà; o,
con certezza, sono stato io stesso ad andare... e chissà come, ho preso me
stesso per l'altro... insomma, è una faccenda assolutamente impossibile."
Appena Goljadkin fu arrivato alla conclusione che si trattava di una faccenda
assolutamente impossibile, entrò a precipizio nella stanza il signor Goljadkin
numero due con un fascio di incartamenti nelle due mani e sotto il braccio.
Disse di sfuggita due o tre parole indispensabili ad Andrej Filìppovic',
seguite da un breve scambio di frasi con qualcun altro e rivoltosi con
familiarità a qualcun altro ancora, il signor Goljadkin numero due, che con
tutta evidenza non aveva tempo da perdere inutilmente, sembrava già che si
apprestasse a uscire dalla stanza, ma, per fortuna del signor Goljadkin numero
uno, si fermò proprio sulla soglia e si mise a discutere di sfuggita con due o
tre giovani impiegati che si trovavano lì per caso. Il signor Goljadkin numero
uno si lanciò verso di lui. Appena il signor Goliadkin numero due vide la
manovra del signor Goljadkin numero uno, cominciò subito a guardare
inquietissimo in giro come potersela battere al più presto. Ma il nostro eroe
aveva già preso per una manica il suo ospite del giorno prima. Gli impiegati
che stavano intorno ai due consiglieri titolari si spostarono e rimasero
incuriositi, in attesa di quello che sarebbe successo. Il consigliere titolare
anziano capiva benissimo che la buona opinione non era, ora, dalla sua parte,
capiva benissimo che si ordivano intrighi contro di lui: tanto più era
necessario, allora, darsi forza. Era un momento decisivo.
"Ebbene?" prese a dire il signor Goljadkin
numero due, guardando con aria abbastanza insolente il signor Goljadkin numero
uno.
Il signor Goljadkin numero uno aveva il respiro
affannato.
"Non so, egregio signore," cominciò "in
quale modo vorrete ora spiegare il vostro strano comportamento nei miei
confronti." "Avanti, signore, continuate!" E il signor Goljadkin
numero due si guardò intorno e strizzò l'occhio agli impiegati che erano lì
vicino, come per far capire che stava veramente per iniziare la commedia.
"L'insolenza e la sfacciataggine del vostro
comportamento verso di me, egregio signore, nel presente caso vi accusano
ancora più delle... mie stesse parole. Non sperate nel vostro gioco: è
piuttosto fragile..." "Dunque, Jakòv Petrovic', ditemi un po' ora
come avete passato la notte..." rispose il signor Goljadkin numero due,
fissando negli occhi il signor Goljadkin numero uno.
"Voi, egregio signore, andate al di là di ogni
limite, al di là delle convenienze" disse il consigliere titolare,
completamente smarrito, sentendo appena il pavimento sotto i piedi. "Spero
che cambierete tono..." "Animuccia mia!" esclamò il signor
Goljadkin nume due, dopo aver fatto una smorfia piuttosto indecente al signor
Goljadkin numero uno, e di colpo, in un modo del tutto inatteso, con l'aria di
vezzeggiarlo, gli afferrò con due dita la guancia destra, discretamente
grassoccia. Il nostro eroe avvampò come brace.
Appena il signor Goljadkin numero due si rese conto
che il suo avversario, preso da un tremito in tutte le membra, muto dallo
stupore, rosso come un gambero, e, infine, spinto ai limiti estremi, avrebbe
anche potuto decidersi a un vero e proprio attacco, immediatamente e nella
maniera più svergognata lo anticipò. Dopo avergli dato ancora due buffetti
sulle guance, e avergli fatto un po' di solletico, trastullandosi così ancora
qualche secondo con lui, che se ne stava immobile e fuori di sé dalla rabbia,
non senza gran divertimento della gioventù che li circondava, il signor
Goljadkin numero due, con una ripugnante sfacciataggine, assestò
definitivamente un colpetto sulla pancetta sporgente del signor Goljadkin
numero uno, e accompagnandolo col più velenoso e allusivo sorriso, gli disse:
"Tu te la spassi, fratellino, Jakòv Petrovic', tu
te la spassi!
giocheremo di astuzia noi due, giocheremo di
astuzia!" Poi, e prima che il nostro eroe potesse a poco a poco
riprendersi dall'ultimo attacco, il signor Goljadkin numero due improvvisamente
(dopo aver rivolto un sorrisetto preliminare agli spettatori che li
circondavano) prese l'aria più affaccendata, più indaffarata e più ufficiale,
abbassò gli occhi a terra, si contrasse tutto, si fece più piccolo e, dopo aver
detto in fretta e furia "per incarico speciale", slanciò la sua
gambetta corta e scivolò nella stanza accanto. Il nostro eroe non credeva ai
suoi occhi e non ce la faceva a riprendersi...
Finalmente si rimise in sesto. Resosi conto, in un
attimo, di essere perduto, di essere in un certo senso annientato, di essersi
sporcato e di aver macchiato la propria reputazione, di essere stato preso per
il bavero e sputacchiato alla presenza di estranei, di essersi proditoriamente
beccato degli insulti da colui che ancora il giorno prima considerava il suo
primo e più intimo amico, di essere infine disperatamente caduto, Goljadkin si
lanciò all'inseguimento del suo nemico. In quel momento non voleva nemmeno più
pensare ai testimoni dell'oltraggio subìto.
"Tutti costoro fanno comunella uno con l'altro"
diceva tra sé e sé, "uno vale l'altro e uno incita l'altro contro di
me." Però, fatti appena dieci passi, il nostro eroe si rese conto che
tutti gli inseguimenti erano rimasti vani e inutili, e perciò tornò indietro.
"Non te la passerai liscia" pensava; "al momento giusto avrò
partita vinta e sul lupo ricadranno le lacrime delle pecore." Con grande
sangue freddo e con la più energica decisione, Goljadkin arrivò fino alla sedia
e vi si mise a sedere. "Non te la passerai liscia!" disse ancora una
volta tra sé. Adesso non si trattava più di una qualunque difesa passiva; c'era
nell'aria l'odore di un prossimo attacco decisivo, e chi vide in quel momento
come Goljadkin, arrossendo e frenando a fatica la sua agitazione, intinse la
penna nel calamaio e con quale furore prese a farla andare su e giù sulla
carta, fu già in grado di giudicare in anticipo che la cosa non sarebbe andata
così liscia e che non avrebbe potuto sistemarsi in una qualche maniera da
donnicciola.
Nel profondo della sua anima prese una decisione e nel
profondo del cuore giurò di mantenerla. A dire il vero non sapeva ancora
proprio bene come avrebbe dovuto andare avanti, cioè, per meglio dire, non lo
sapeva per niente; ma era lo stesso, poco importava!
"Con l'impostura e la sfrontatezza, signore
egregio, nel nostro secolo non si raggiunge lo scopo. L'impostura e la
sfrontatezza, mio egregio signore, non portano al bene, ma dritto dritto alla
forca. Soltanto Griska Otrepev (1), signor mio, riuscì con l'impostura a
ingannare un popolo cieco, ma anche lui non per molto." Nonostante
quest'ultima circostanza, Goljadkin decise di aspettare fino a quando la
maschera sarebbe caduta da certe facce e in un modo o nell'altro si sarebbe
fatta luce su tutto. Perciò in primo luogo bisognava che finisse al più presto
l'orario d'ufficio e il nostro eroe decise che prima di allora non avrebbe
preso nessuna iniziativa. Poi, quando fosse finito l'orario d'ufficio, avrebbe
messo in opera un certo provvedimento. Già allora sapeva come avrebbe dovuto
agire, dopo aver preso quel provvedimento, come predisporre il suo piano
d'azione per rompere le corna all'arroganza e schiacciare il serpente, che
morde la polvere nella viltà dell'impotenza. Goljadkin non poteva proprio
permettere che lo si strizzasse come uno straccio col quale si puliscono gli
stivali infangati. Acconsentire a questo, no davvero, in particolare in questo
caso. Se non fosse stato per quell'ultimo orrore, il nostro eroe, forse, si
sarebbe convinto, anche se a malincuore, si sarebbe convinto, dunque, a tacere,
a rassegnarsi e a non protestare con troppo accanimento; così, avrebbe discusso
un po', avrebbe anche avanzato qualche pretesa,
avrebbe dimostrato di essere dalla parte della
ragione, poi avrebbe ceduto un pochino e poi, forse, ancora un altro pochino, e
infine avrebbe ceduto del tutto e poi, specialmente quando gli avversari
avessero solennemente riconosciuto che la ragione era dalla sua, poi, forse, si
sarebbe anche rassegnato e anche un po' commosso, e anche - chi lo può sapere?
- forse sarebbe rinata una nuova amicizia, un'amicizia solida e calda, ancora
più grande di quella di ieri, tanto che questa amicizia avrebbe potuto, alla
fine, superare definitivamente il disappunto di una somiglianza abbastanza
sconveniente tra due persone, di modo che i due consiglieri titolari sarebbero
stati felici al massimo e sarebbero vissuti, infine, fino a cento anni eccetera
eccetera. Per dirla tutta: Goljadkin cominciava addirittura a sentire un po' di
pentimento per aver voluto prendere le difese di sé e del suo buon diritto e
per essersene subito pentito.
"Se si sottomettesse," pensava Goljadkin
"se ammettesse di aver scherzato, gli perdonerei, lo perdonerei anche di
più, purché lo riconoscesse a voce alta. Ma non permetterò di essere calpestato
come un vecchio straccio. Io non ho dato il permesso di calpestarmi a altre
persone e tanto meno consentirò che un uomo depravato si azzardi di farlo. Io
non sono uno straccio; io, signor mio, non sono uno straccio!" A farla
breve, il nostro eroe prese una decisione: "Siete voi, signor mio, il
colpevole!" Decise di protestare, di protestare con tutte le forze fino
all'estrema possibilità.
Era un tipo così, quell'uomo! Non poteva assolutamente
permettere che lo si offendesse e tanto meno acconsentire al fatto che lo si
calpestasse come un vecchio straccio né, infine, arrivare a permettere questo a
un uomo depravato. Non discutiamo, del resto, non discutiamo. Forse, se
qualcuno avesse voluto, se qualcuno avesse assolutamente voluto, per esempio,
ridurre Goljadkin a uno straccio, ce l'avrebbe ridotto, ce l'avrebbe ridotto
senza opposizioni e con il massimo dell'impunità (Goljadkin stesso in alcuni
momenti ci si sentiva), e ne sarebbe venuto fuori uno straccio e non più
Goljadkin... Sì, ne sarebbe venuto fuori un vile, sudicio straccio, ma non
sarebbe stato un semplice straccio, ma uno straccio con dell'orgoglio, sarebbe
stato uno straccio dotato di animazione e di orgoglio, anche se di orgoglio
modesto e di sentimenti altrettanto modesti, nascosti, sì, nella profondità
delle pieghe di questo straccio, ma pur sempre sentimenti...
Le ore non passavano mai; finalmente suonarono le
quattro. Poco dopo tutti si alzarono e, seguendo il capo, si mossero ognuno
verso la propria casa. Goljadkin si mescolò alla folla; i suoi occhi erano bene
aperti e non perdevano di vista chi di dovere.
Finalmente il nostro eroe vide che il suo amico era
corso verso i custodi della cancelleria che consegnavano i cappotti e, secondo
la sua vile abitudine, trotterellava lì intorno in attesa del soprabito. Era il
momento decisivo. Non so come Goljadkin riuscì a fendere la folla e, non
volendo restare indietro, si diede da fare pure lui per avere il cappotto. Ma
diedero il cappotto prima all'amico e conoscente di Goljadkin, perché quello,
secondo le sue abitudini, era riuscito a intrufolarsi, a fare moine, a soffiare
negli orecchi qualche parolina e a comportarsi, insomma, in modo abietto.
Indossato il cappotto, il signor Goljadkin numero due
guardò con aria ironica il signor Goljadkin numero uno, facendolo apertamente e
mostrando con tutta chiarezza il suo disprezzo; poi, con quella sfrontatezza
tutta sua, diede un'occhiata in giro, sgambettò ancora - probabilmente per
lasciare una favorevole impressione di sé - intorno agli impiegati, disse una
parola a uno, mormorò qualcosa a un altro, si strofinò umilmente a un terzo, a
un quarto rivolse un sorriso, diede la mano al quinto e allegramente
trotterellò giù per le scale. Il signor Goljadkin numero uno lo seguì, e con
indescrivibile suo piacere, lo raggiunse all'ultimo gradino e lo afferrò per il
bavero del cappotto. Il signor Goljadkin numero due sembrò un po' sconcertato e
si guardò intorno con aria smarrita.
"Che significa questo?" mormorò finalmente,
con voce debole, a Goljadkin.
"Egregio signore, se voi siete appena appena un
uomo come si deve, spero che ricorderete i nostri amichevoli rapporti di
ieri" dichiarò il nostro eroe.
"Ah, sì! Ebbene, che c'è? Avete passato una buona
notte?" Il furore paralizzò per un momento la lingua del signor Goljadkin
numero uno.
"L'ho passata benissimo... Ma permettete che vi
dica, egregio signore, che il vostro gioco è imbrogliato al massimo..."
"Chi lo dice? Questo lo dicono i miei nemici" rispose a scatti colui
che si definiva signor Goljadkin, e così dicendo si liberò inaspettatamente
dalle deboli mani del vero Goljadkin. Una volta libero, si precipitò giù dalle
scale, si guardò intorno e, vista una vettura, vi corse incontro, vi saltò
sopra e in un attimo scomparve alla
vista del signor Goljadkin numero uno. Disperato e
abbandonato da tutti, il consigliere titolare si guardò intorno, ma non c'erano
altre vetture. Provò a correre, ma le gambe non lo reggevano. Col viso
stravolto, a bocca aperta, chiuso in se stesso, annientato e senza forze, si
appoggiò a un lampione e rimase qualche momento così, in mezzo al marciapiede.
Sembrava che per Goljadkin tutto fosse perduto...
NOTE:
Grigorij Otrepev, il monaco che si fece passare per
figlio di Ivan il terribile e riuscì a detronizzare Borìs Godunòv, nel 1604. Ma
due anni dopo fu ucciso dai cortigiani.
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Fëdor Michajlovič Dostoevskij
Andrea Giostra