La 31^ puntata dei Romanzi da leggere
online è dedicata al nono capitolo de “Il sosia” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. A cura di Andrea Giostra.
In copertina: Giorgio De Chirico (Volo 1888 -
Roma 1978), «Lotta antica», cm. 73x100, olio su tela.
IL SOSIA | Poema
pietroburghese
Capitolo 9°.
Sembrava che ogni cosa e la natura stessa si fossero
armate contro Goljadkin; ma era ancora in piedi e non ancora vinto; sentiva di
non essere vinto. Era pronto alla lotta. Ripresosi dal primo stupore, si
stropicciò le mani con tanto sentimento e tanta energia che, al solo vederlo,
si sarebbe potuto concludere che Goljadkin non avrebbe ceduto. Del resto, il
pericolo era lì, sotto il naso, era evidente; Goljadkin sentiva anche questo,
ma come affrontarlo, quel pericolo? Ecco il problema. Per un istante, nella
testa di Goljadkin frullò perfino il pensiero se non avrebbe invece dovuto
lasciare le cose com'erano e rinunciare, semplicemente. "Be', che c'è?
Niente. Io me ne starò per conto mio, come se non fossi io" pensava
Goljadkin; "lascio perdere tutto; non sono io, e tutto è finito: lui pure,
forse, se ne starà per conto suo; brancolerà un po', il birbante, certo, si
rigirerà, ma finirà con il piantarla pure lui. Sicuro, ecco come stanno le
cose! Io raggiungerò lo scopo con la rassegnazione. E poi, dov'è il pericolo? E
che pericolo c'è? Vorrei proprio che qualcuno mi facesse vedere un pericolo in
questa faccenda. È una cosa da niente! Una storia comunissima!" A questo
punto Goljadkin si fermò. Le parole gli morirono in gola; poi arrivò
addirittura a insultarsi per quel pensiero e giunse al punto di convincersi di
essere un vile e meschino per avere avuto quel pensiero, la faccenda però non
si mosse di un'unghia dal punto in cui si trovava. Si rendeva conto che per lui
era una inevitabile necessità prendere una decisione in quel preciso momento;
si rendeva perfino conto che avrebbe dato chissà cosa a chi gli avesse indicato
quale decisione dovesse davvero prendere.
Be', ma come indovinarla? D'altronde, mancava anche il
tempo per provare a indovinarla. In ogni caso, per non perdere minuti preziosi,
noleggiò una carrozza e via a casa, come il vento.
"Ebbene? come ti senti adesso?" pensò.
"Come favorite di sentirvi, Jakòv Petrovic'? che cosa hai intenzione di
fare? Che cosa farai adesso, farabutto che sei, canaglia che non sei altro! Ti
sei ridotto a questo punto e ora piangi e frigni, eh!" Così prendeva in
giro se stesso Goljadkin, sobbalzando sullo scricchiolante trabiccolo del suo
"vankal" (1). Stuzzicarsi e rimestare così nelle proprie ferite dava
in quel momento a Goljadkin una certa soddisfazione, quasi una voluttà. "Se
ora" andava pensando, "mi si presentasse un qualche mago o se, in via
ufficiale, mi toccasse fare in un modo piuttosto che in un altro, e mi si
dicesse: su, Goljadkin, da' un dito della mano destra e i conti saranno pari:
non ci sarà più un altro Goljadkin e tu sarai felice, ma ti mancherà un dito;
lo darei immediatamente il dito, senz'altro lo darei, lo darei senza la più
piccola smorfia di dolore. Che i diavoli si portino via tutto!" esplose
alla fine il disperato consigliere titolare. "Ma via, che cos'è tutto
questo?
Ma, insomma, bisognava proprio che capitasse tutto
questo, proprio questo, ecco, veramente tutto questo, come se non fosse stato
possibile che succedesse qualcos'altro? All'inizio tutto andava a meraviglia,
tutti erano felici e contenti; e invece no, doveva capitare proprio questo! Del
resto, però, con le parole non risolverai proprio nulla. Bisogna agire."
Così, presa quasi una decisione, Goljadkin, entrato nel suo appartamento, senza
aspettare un minuto afferrò la pipa e tirando a tutta forza e lanciando sbuffate
di fumo a destra e a sinistra, in preda a una grande agitazione, cominciò a
camminare velocemente avanti e indietro per la stanza. Intanto Petruska si mise
ad apparecchiare la tavola. Finalmente Goljadkin arrivò a una definitiva
decisione: mise via la pipa, si buttò il cappotto sulle spalle, disse che non
avrebbe pranzato in casa e uscì di corsa dall'appartamento. Sulle scale fu
raggiunto da Petruska che, tutto ansimante, gli portava il cappello che aveva
dimenticato.
Goljadkin prese il cappello e aveva quasi voglia di
trovare una sia pur piccola giustificazione agli occhi di Petruska, perché
quello non dovesse pensare a qualcosa di particolare, come, ecco, a una
circostanza tale per cui aveva dimenticato il cappello eccetera eccetera; ma,
visto che Petruska non volle nemmeno guardarlo, tornandosene subito indietro,
Goljadkin, senza perdersi in ulteriori spiegazioni, si ficcò in testa il
cappello, scese di corsa le scale e, dicendo tra sé e sé che tutto, forse, si
sarebbe risolto per il meglio e che la faccenda, in un modo o nell'altro, si
sarebbe aggiustata, anche se tra l'altro sentiva un certo freschetto corrergli
addirittura per i
calcagni, uscì in strada, noleggiò una vettura e volò
da Andréj Filìppovic'.
"Però, non sarebbe meglio rimandarla a
domani?" si chiese Goljadkin quando fu sul punto di afferrare il cordone
del campanello alla porta dell'appartamento di Andréj Filìppovic'.
"Che gli dirò di speciale? Qui, del resto, di
speciale non c'è proprio niente. Si tratta di una faccenda così meschina, in
sostanza, proprio così meschina, sì, è una faccenda così meschina, da niente,
cioè quasi da niente... è anch'essa, come tutto il resto, una semplice
circostanza..." D'improvviso Goljadkin tirò il campanello; il campanello
tintinnò e dall'interno arrivò un rumore di passi... A questo punto Goljadkin
si maledisse addirittura, vuoi per la sua fretta e vuoi per l'audacia. I
recenti dispiaceri, dei quali Goljadkin si era quasi dimenticato tra le
faccende d'ufficio e il battibecco di poco prima con Andréj Filìppovic', gli si
affacciarono in un lampo alla memoria. Ma ormai era troppo tardi per correre
via: l'uscio si aprì. Per fortuna di Goljadkin gli fu detto che Andréj
Filìppovic' non era tornato dall'ufficio e che non avrebbe pranzato in casa.
"So dove pranza" pensò il nostro eroe. "Pranza al ponte
Izmajlovskij," e fu preso da un enorme senso di gioia. Alla richiesta del
cameriere che cosa dovesse riferire al signore, rispose: "Digli, amico
mio, che io sto bene, che io, amico mio, ripasserò" e di corsa, starei per
dire baldanzosamente, ridiscese le scale. Uscito in strada decise di licenziare
la vettura e si apprestò a pagare il vetturino. Quando poi il vetturino gli
chiese un soprappiù perché: "Signore, vi ho aspettato per un bel po' e per
voi non ho risparmiato il cavallo", diede all'uomo un'aggiunta di cinque
copechi e lo fece anche volentieri; e poi si avviò a piedi.
"La faccenda, a dire il vero, è combinata in un
modo" rimuginava Goljadkin "che non è possibile lasciarla così come
sta; d'altronde, a ragionarci su, e a giudicare con buonsenso, che motivo c'è
per affannarsi tanto? Suvvia, lo dirò sempre, però, perché mi ci devo tanto
affannare? perché affaticarmi, lottare, tormentarmi e battermi? In primo luogo
è ormai cosa fatta e tornare indietro non si torna... non si torna, no...
Ragioniamo così: si presenta un tizio... si presenta un tizio con una
raccomandazione sufficiente, cioè che è un impiegato capace, di ottima
condotta, però è povero e è passato attraverso diversi guai - questo e
quest'altro... - e poiché, si sa, la povertà non è un vizio, io, dunque, me ne
sto in disparte. Be', in verità che razza di assurdità sarebbe mai? Dunque
quello si presenta, si sistema, grazie alla natura stessa; quel tizio si
sistema e somiglia a un altro uomo come una goccia d'acqua somiglia a un'altra,
come se fosse la copia perfetta di quell'altro: sarebbe un motivo questo per
non accettarlo al dipartimento? Visto che il destino, soltanto il destino e la
cieca natura ci hanno colpa, perché si dovrebbe calpestarlo come un cencio
vecchio e non permettergli di prestare servizio? Se dovesse succedere così,
dove andrebbe a finire la giustizia? E poi quel tizio è povero, smarrito,
spaventato; fa dolere il cuore, e la pietà ci impone di non respingerlo.
Sicuro!
non c'è niente da dire... Che razza di superiori
sarebbero se ragionassero come me, testa balorda che sono! Ma che zucca è mai
la mia! Capace di combinare stupidate per dieci! No, no! Hanno fatto bene e li
ringrazio per aver dato aiuto a un poveretto...
Ebbene, sì, ammettiamo, per esempio, di essere
gemelli, di essere nati così, sicuro... basta... è tutto qui! Be', che c'è di
strano?
Proprio niente, mi pare... È possibilissimo che tutti
gli impiegati ci si abituino... e un estraneo qualsiasi che entrasse nel nostro
ufficio non troverebbe certo niente di sconveniente e di offensivo in una
circostanza di questo tipo. Anzi, direi che ci sia in essa un non so che di
toccante; potrebbe venirne fuori, diciamo, questo pensiero: guarda un po'... la
divina Provvidenza ha creato due esseri perfettamente uguali, e i superiori di
buon cuore, considerata la divina Provvidenza, hanno accolto i due gemelli.
Certo" continuò Goljadkin, tirando il fiato e abbassando un po' la voce,
"certo... certo sarebbe meglio che non ci fosse niente, niente di tutto
questo, niente di commovente e che non ci fosse nessun gemello... Che il
diavolo si porti via tutto! A che scopo era necessario tutto questo? E che
bisogno c'era così urgente da non sopportare nessun indugio? Signore dio mio! Ma
vedi un po' che razza di pasticcio mi hanno preparato i diavoli! C'è questo,
però, che lui ha un caratterino, così puntiglioso e cattivo, è un tale
furfante... un tale mascalzone, un tale farfallone e che razza di leccapiatti
e... che razza di Goljadkin!... Capace anche di comportarsi male e di
sputacchiare sul mio nome, quel farabutto! E adesso tu, ecco, tienilo d'occhio
e prenditi cura di lui! Che po' po' di castigo è questo! Del resto, poi, che
c'è? Non ce n'è mica bisogno! Be', è un mascalzone, e malscalzone sia... ma
l'altro è onesto. Insomma, lui sarà mascalzone, ma io sarò onesto e si dirà,
ecco, che questo Goljadkin è un mascalzone e non badategli e non confondetelo
con l'altro; quest'altro, invece, è onesto, è un galantuomo, è mite,
fidatissimo per tutto ciò che riguarda il servizio e degno che lo si faccia
andare su nei gradi, sicuro! Tutto bene, dunque... Ma se quelli là... se quelli
là facessero confusione? Da quel tipo c'è da aspettarsi qualsiasi cosa! Ah,
Signore mio dio! Quello
scalzerà l'altro, lo scalzerà... è un tale
mascalzone... scalzerà l'altro come uno straccio vecchio e non penserà che un
uomo non è uno straccio. Ah, Signore mio dio! Che infelicità è questa!"
Ecco che, rimasticando e ragionando così, Goljadkin andava di corsa senza stare
minimamente attento alla strada e senza sapere nemmeno lui dov'era che andava.
Si riprese soltanto sul Nevskij Prospèkt, e anche qui per un puro caso, perché
andò a sbattere così in pieno e con tanta precisione contro uno che passava da
far scaturire scintille. Goljadkin, senza nemmeno alzare la testa, borbottò
qualche scusa e soltanto quando il passante, mormorando qualcosa di non troppo
lusinghiero, di certo, era già a una certa notevole distanza, alzò il naso e
guardò dove si trovasse e come mai fosse capitato lì. Data un'occhiata intorno
e accortosi che si trovava proprio vicino a quel ristorante dove si era
riposato per prepararsi al gran pranzo in casa di Olsufij Ivànovic', il nostro
eroe sentì di colpo certi colpetti e pizzicotti allo stomaco che gli fecero
ricordare che non aveva pranzato e che nessun pranzo di gala era prevedibile e
perciò, per non perdere altro tempo per lui prezioso, salì di corsa la scala
del ristorante per mandare giù un boccone alla svelta, cercando di affrettarsi
il più possibile per non fare tardi. E, benché nel ristorante tutto fosse
piuttosto caro, questo fatto questa volta non trattenne Goljadkin; non c'era
proprio il tempo, ora, per far caso a simili piccolezze.
Nella sala vivamente illuminata, vicino al banco su
cui era preparato con grande abbondanza tutto quello che le persone perbene
richiedono come antipasto, c'era una discreta folla di clienti. Il cameriere al
banco faceva appena in tempo a versare le bevande, a servire, a prendere e a
consegnare il denaro. Goljadkin aspettò il suo turno e, quando arrivò, tese
modestamente la mano verso un pasticcino ripieno. Ritiratosi in un angolo dando
le spalle ai presenti, mangiò con appetito, poi si girò verso il cameriere,
posò sul banco il suo piattino e, sapendo già quanto avrebbe dovuto pagare,
tirò fuori dieci copechi d'argento e mise la moneta sul banco, cercando di
cogliere lo sguardo del cameriere come a dirgli: "Ecco qui, la moneta per
un pasticcino ripieno: è qui sul banco..." eccetera eccetera.
"Un rublo e dieci copechi" mormorò tra i
denti il cameriere.
Goljadkin rimase sbalordito.
"Dite a me?... Io... io... mi pare di avere un
pasticcino solo." "Undici ne avete presi" rimbeccò con sicurezza
il cameriere.
"Voi... a quanto mi pare... voi... credo... siete
in errore...
Credo davvero di averne preso uno solo." "Li
ho contati: avete preso undici pezzi. Dal momento che li avete presi, bisogna
pagarli. Qui non si dà niente gratis." Goljadkin era paralizzato.
"Che diavolo succede? Che stregoneria si mi stanno facendo?" si
chiedeva. Il cameriere, intanto, aspettava che si decidesse; la gente
cominciava a farglisi intorno; Goljadkin aveva già ficcato la mano in tasca per
tirarne fuori un rublo d'argento e pagare immediatamente e non piombare in
pieno in un altro guaio.
"Be' se sono undici, undici siano..."
pensava, facendosi rosso come un gambero; "che c'è, infine, di strano che
si siano mangiati undici pasticcini? Be'... uno ha fame e si mangia undici
pasticcini... be', buon pro gli facciano; e non c'è proprio niente da stupirsi
e niente da ridire..." All'improvviso fu come se qualcosa lo avesse punto;
alzò gli occhi e... di colpo ecco la rivelazione dell'enigma... della
stregoneria, di colpo tutte le difficoltà svanirono... Sulla porta che dava
nella sala vicina, quasi dietro la schiena del cameriere e di fronte a
Goljadkin, sulla porta che, tra l'altro, il nostro eroe avea fino a quel
momento preso per uno specchio, stava dritto un ometto... stava dritto lui,
stava dritto lo stesso Goljadkin, non il vecchio Goljadkin, non l'eroe della
nostra storia, ma l'altro Goljadkin, il nuovo Goljadkin. L'altro Goljadkin era
evidentemente di ottimo umore. Sorrideva al signor Goljadkin primo, gli faceva
cenno con la testa, strizzava gli occhietti, sgambettava e guardava come per
dire che, se appena appena fosse successo qualcosa, lui se la sarebbe data a
gambe nell'altra stanza e di là, magari, per la porta di servizio, si sa... e
tutti gli inseguimenti sarebbero stati inutili. Aveva in mano l'ultimo pezzetto
del decimo pasticcino ripieno che, proprio davanti agli occhi di Goljadkin, si
portò alla bocca, facendo schioccare le dita dal piacere. "Mi ha
sostituito, il briccone!" pensò Goljadkin, rosso come il fuoco per la
vergogna "non ha avuto un po' di pudore, così in pubblico! Ma gli altri,
non lo vedono?
Sembra che nessuno se ne accorga..." Goljadkin
gettò il rublo d'argento come se gli scottasse le dita e, rinunciando a fare
caso al significativo, insolente sorriso del cameriere, un sorriso di
vittoriosa e calma potenza, si fece strada tra la folla e si lanciò fuori senza
più guardare indietro. "Posso ringraziarlo che, almeno, non ha
definitivamente compromesso un uomo!" pensò il vecchio Goljadkin.
"Siano grazie a quel bandito, a lui e al
destino, perché tutto è finito bene. Soltanto il
cameriere è stato insolente. Ma che c'è poi? era pure nel suo diritto, lui!
Faceva un rublo e dieci, perciò era nel suo diritto. L'ha detto: senza denaro
da noi non si dà niente! Se almeno fosse stato un po' più garbato, quel
fannullone." Tutto questo andava pensando Goljadkin scendendo dalla scala
verso l'atrio. All'ultimo gradino, però, si fermò come inchiodato, e di colpo
arrossi così violentemente che gli vennero persino le lacrime agli occhi per un
eccesso di penoso amor proprio. Dopo essere rimasto immobile come un palo per
mezzo minuto, con gesto deciso batté il piede, con un balzo saltò i gradini e
si trovò sulla via e senza voltarsi indietro si precipitò a casa sua nella via
delle Sei Botteghe. Là, trascurando persino di togliersi la giacca, contrariamente
all'abitudine di starsene in casa in libertà e di prendersi come prima cosa la
pipa, si mise a sedere in fretta sul divano, avvicinò a sé il calamaio, afferrò
la penna, tirò fuori un foglio di carta da lettere e cominciò a scrivere, con
mano tremante per l'intima agitazione, la lettera seguente:
"Egregio signor Jakòv Petrovic', non avrei mai
preso la penna se le circostanze in cui mi trovo e voi stesso, egregio signore,
non mi avessero costretto a farlo.
Credete che soltanto la forza maggiore mi ha costretto
ad arrivare a una simile spiegazione con voi e perciò vi prego prima d'ogni
cosa di considerare questo mio atto non come una premeditata intenzione di
offendervi, egregio signore, ma come una necessaria conseguenza delle
circostanze che attualmente ci legano."
"Mi sembra che vada bene, che sia cortese,
decorosa, anche se non priva di forza e di decisione, non è vero? Mi pare che
qui non ci sia di che offendersi. E, oltre a questo, io sono nei miei
diritti" pensò Goljadkin rileggendo le righe già scritte.
"La vostra inattesa e strana comparsa, egregio
signore, in una notte burrascosa, dopo il brutale e indecoroso comportamento
dei miei nemici, il cui nome ometto in segno di disprezzo, è stato il germe di
tutti gli equivoci che attualmente esistono tra noi. La vostra ostinata
volontà, egregio signore, di non cedere e di entrare a forza nel cerchio della
mia vita e di tutte le contingenze della mia personale attività, va oltre i
limiti richiesti dalla sola cortesia e dalla semplice convivenza. Io credo che
non sia qui il caso di ricordare l'appropriazione da voi commessa, egregio
signore, delle mie carte e in special modo del mio onorato nome per
conquistarvi la benevolenza dei superiori, benevolenza da voi non meritata. E
non è neppure il caso di ricordare qui le vostre offensive e premeditate
acrobazie per evitare le spiegazioni indispensabili al caso. Finalmente, per
dire tutto, non voglio nemmeno ricordare qui l'ultimo strano e, si può
affermare, incomprensibile vostro comportamento nei miei confronti al caffè.
Lontana da l'intenzione di fare questioni per la spesa, per me superflua, di un
rublo d'argento; ma non posso esimermi dall'esprimere tutto il mio sdegno al
ricordo dell'evidente attentato da voi fatto, egregio signore, a danno del mio
onore e, per di più, alla presenza di varie persone, anche se a me sconosciute,
ma tuttavia di ottime maniere..."
"Ma forse non oltrepasso i limiti?" pensava
Goljadkin. "Non sarà troppo? Non sarà troppo offensiva questa allusione
alle buone maniere, per esempio?... Ma no, non importa! Bisogna mostrare
fermezza di carattere. Del resto si può, tanto per attenuare, adularlo e
ungerlo un po', alla fine. Ma ora si vedrà."
"Ma io non sarei qui a stancarvi con la mia
lettera, egregio signore, se non fossi fermamente convinto che la nobiltà dei
vostri cordiali sentimenti e il vostro aperto, retto carattere indicheranno a
voi stesso i mezzi per riparare a tutte le mancanze e per ristabilire ogni cosa
come era in precedenza.
Con questa certezza, oso sperare che voi non
considererete la mia lettera offensiva per voi e nello stesso tempo non
rifiuterete di darmi precise spiegazioni per iscritto, su questi incidenti,
tramite del mio cameriere.
In attesa ho l'onore di essere, egregio signore, il
vostro umilissimo servo Ja. Goliadkin."
"Bene, tutto a posto. Ormai la cosa è fatta:
siamo arrivati anche a scrivere. Ma chi è il colpevole? E' lui, il colpevole: è
lui che mette un uomo nella necessità assoluta di esigere documenti scritti. Ma
io sono nel mio diritto..." Dopo aver riletto per l'ultima volta la
lettera, Goljadkin la mise nella busta, la sigillò e chiamò Petruska. Petruska
comparve, come suo solito, con gli occhi pieni di sonno e irritatissimo per non
so che cosa.
"Tu, mio caro, porta questa lettera...
capisci?" Petruska taceva.
"Prendila e portala al dipartimento: là cerca
l'impiegato di turno, il segretario provinciale Vachrameiev. È lui di turno,
oggi. Capito?" "Sì, capisco." "Capisco! Non puoi dire:
capisco, signore? Chiederai dell'impiegato Vachrameiev e gli dirai che per
favore così così...: il mio padrone ha ordinato di salutarvi e di chiedervi
umilmente di cercare nel libro degli indirizzi del
nostro ufficio dove abita il consigliere titolare Goljadkin." Petruska non
rispose nulla ma, a quanto sembrò a Goljadkin, fece un sorrisetto.
"Suvvia, dunque: tu, tu, Pjotr, gli chiederai
l'indirizzo e saprai dove, dico, dove abita l'impiegato Goljadkin recentemente
assunto." "Va bene." "Gli chiederai l'indirizzo e a
quell'indirizzo porterai questa lettera. Capito?" "Capisco."
"Se là... ecco, se là dove porterai la lettera... quel signore al quale
consegnerai la lettera, quel Goljadkin, insomma... che hai da ridere,
tanghero?" "Perché dovrei ridere? A me che importa! Non dico niente,
io...
Noi non abbiamo niente da ridere..." "Be',
ecco... se quel signore ti chiederà per caso come sta il tuo padrone, che cosa
fa... se insomma... cercherà di farti parlare, tu taci e rispondigli che, sì,
il tuo padrone sta discretamente e prega, per favore, di dargli una risposta di
suo pugno. Capito?" "Capisco, signore." "Bene, così, ecco,
digli: il mio padrone sta abbastanza bene, digli, e si sta preparando per
andare a fare una visita: e vi chiede, digli, una risposta scritta.
Capito?" "Capisco." "E allora va'!" "Ma, guarda
un po' come ci si deve affaticare con questo tanghero!
Ride dentro di sé, ne sono certo. Ma di che cosa ride?
Doveva proprio capitarmi una disgrazia, proprio così doveva capitarmi una
disgrazia! Del resto, però, forse le cose volgeranno al meglio...
Questo mascalzone adesso, di certo vagabonderà per due
ore almeno e andrà a ficcarsi chissà dove... Non lo si può mandare da nessuna
parte. Che disgrazia! Ma guarda che disgrazia mi è capitata tra capo e
collo!" Conscio in tal modo della sua disgrazia, il nostro eroe decise di
aspettare passivamente il ritorno di Petruska per due ore almeno.
Per circa un'ora misurò avanti e indietro la stanza,
fumò, poi mise via la pipa e si mise a sedere con un libro in mano, poi si
sdraiò sul divano, poi riprese ancora la pipa, e poi di nuovo cominciò a
sgambettare per la stanza. Voleva mettersi a riflettere un po'; ma proprio non
ce la faceva. Infine l'agonia di quel suo stato passivo aumentò a tal punto che
Goljadkin decise di prendere qualche provvedimento.
"Ci vorrà almeno un'ora prima che Petruska
ritorni" pensava; "potrei dare la chiave al portiere e intanto io
stesso potrei...
già... potrei indagare un po' sulla faccenda, indagare
un po' per conto mio." Senza perdere tempo, per la fretta di mettersi a
indagare sulla faccenda, Goljadkin prese il cappello, uscì dalla stanza, chiuse
l'appartamento, scese dal portiere, gli diede la chiave e una moneta da dieci
copechi - Goljadkin era diventato, chissà come, insolitamente grandioso - e si
slanciò là dove doveva. Goljadkin corse a piedi, prima di tutto, al ponte
Izmajlovskij. Per arrivarvi ci volle circa mezz'ora. Arrivato alla meta del suo
viaggio entrò sparato nel cortile della casa a lui ben nota e diede un'occhiata
alle finestre dell'appartamento del consigliere di stato Bernadeiev. Salvo tre
finestre con le tendine rosse, tutte le altre erano buie.
"Da Olsufij Ivànovic', oggi, non ci sono
certamente visite" pensò Goljadkin; "certamente oggi sono tutti in
casa." Dopo aver aspettato un po' in cortile, il nostro eroe voleva
decidersi a fare qualche cosa. Ma evidentemente era scritto che la decisione
non si dovesse concretare. Goljadkin cambiò idea, agitò a mezz'aria la mano in
segno di rassegnazione e tornò in strada.
"No, non è qui che bisognava venire. Che starò a
fare qui. Ecco, è meglio che ora io... indaghi particolarmente la
faccenda." Presa questa decisione, Goljadkin si avviò di corsa al suo
dipartimento.
La distanza non era poca; per giunta la strada era
coperta di fango e la neve scendeva a fiocchi grandi e fitti. Ma per il nostro
eroe sembrava che in quel momento non esistesse nessuna difficoltà. A dire il
vero, era bagnato fino alle ossa, e anche non poco inzaccherato, "ma se
deve andare così, pazienza, vada così, però la meta è raggiunta". E in
realtà Goljadkin si stava avvicinando alla meta. La cupa massa dell'enorme
edificio governativo già si profilava in lontananza davanti a lui.
"Fermati!" pensò "dove mai sto andando
e che cosa vado a fare là?
Ammettiamo pure che io venga a sapere dove abita: ma
intanto penso che Petruska sia già tornato e mi abbia portato la risposta. Io
sto perdendo inutilmente il mio preziosissimo tempo, l'ho proprio già perso,
questo mio prezioso tempo. Be', non importa; posso ancora mettere tutto a
posto. Però, veramente, perché non passare da
Vachrameiev? Ma no. Io, già, dopo... eh! Non era
affatto necessario che uscissi... Proprio no! Ma che caratteraccio! Questo è il
mio chiodo fisso: che sia necessario o no, non perdo l'occasione per correre
sempre avanti, in un modo o nell'altro...
Già... che ore sono? eh, ormai saranno le nove...
Petruska può arrivare da un momento all'altro e non mi troverà in casa. Ho
fatto una bella cretinata a uscire... Eh, davvero, che pasticcio!"
Sinceramente conscio di aver fatto una vera sciocchezza, il nostro eroe tornò
al galoppo verso la via delle Sei Botteghe. Ci arrivò stanco, sfinito. Giù dal
portone fu informato che a Petruska non era neppur passato per il cervello di
farsi vedere: "Be'... lo immaginavo" pensò il nostro eroe, "e
intanto sono già le nove. Ma che razza di mascalzone! Quello è eternamente in
giro a ubriacarsi! Signore mio dio! Vedi un po' che razza di giornata mi è
capitata in sorte!" così ragionando e arrovellandosi, Goljadkin aprì la
porta del suo appartamentino, si procurò una lampada, si svestì, fece una
fumatina di pipa, e stanco, sfinito, con le membra rotte si sdraiò sul divano
in attesa di Petruska. La candela smoccolava mandando una luce fioca, che
oscillava sui muri... Goljadkin guardò, pensò, e infine si addormentò di un
sonno profondissimo.
Si svegliò che era già tardi. La candela era ormai
quasi del tutto consumata, fumava e stava per spegnersi definitivamente.
Goljadkin saltò in piedi, si riscosse e ricordò tutto, proprio tutto. Al di là
del tramezzo risuonava il cupo russare di Petruska. Goljadkin si precipitò alla
finestra: non una luce, da nessuna parte. Aprì l'anta: silenzio ovunque; la
città sembrava morta; era immersa nel sonno. Dovevano dunque essere le due o le
tre; l'orologio al di là del tramezzo fece uno sforzo e batté le due. Goljadkin
si precipitò dietro il tramezzo.
In un modo o nell'altro, non so come, dopo lunghi
tentativi, a furia di scrolloni riuscì a far sedere Petruska sul letto. Intanto
la candela si era definitivamente spenta. Passarono circa dieci minuti prima
che Goljadkin trovasse un'altra candela e l'accendesse. E, nel frattempo,
Petruska si era di nuovo addormentato. "Sei una bella razza di mascalzone,
canaglia che non sei altro!" mormorò Goljadkin, riprendendo a scrollarlo:
"Vuoi svegliarti e alzarti, sì o no?" Dopo mezz'ora di fatica,
Goljadkin riuscì a smuovere completamente il suo domestico e a trascinarlo
fuori. Soltanto allora il nostro eroe vide che Petruska era, per così dire,
ubriaco fradicio e che a stento si reggeva in piedi.
"Sei un vero ciondolone!" gridò Goljadkin
"un brigante matricolato! Mi vuoi decapitare! O Signore, dove mai avrà
perduto la lettera? Ah, Creatore mio, perché... perché l'ho scritta? Avevo
proprio bisogno di scriverla? A briglia sciolta sono andato, col mio amor
proprio, imbecille che sono! Vedi un po' dove diavolo porta l'amor proprio!
Eccotelo, l'amor proprio, eccotelo, canaglia che sei! Ehi, tu, dove diavolo hai
ficcato la lettera, furfante? A chi l'hai data?" "Non ho consegnato a
nessuno nessuna lettera: non avevo nessuna lettera, questo è il fatto."
Goljadkin si tormentava le mani in preda alla disperazione.
"Ascolta, Pjotr... ascoltami, su, ascolta."
"Ascolto… " "Tu dove sei andato? rispondimi..." "Dove
sono andato... Sono andato da certa brava gente... Che devo dire?"
"Ah Signore mio dio! Dove sei andato, prima di tutto? Sei andato al
dipartimento? Ascoltami, Pjotr, eri forse ubriaco?" "Ubriaco, io? Che
io non possa più muovermi dal posto se non è vero che sono a bo-bo-bocca
asciutta... ecco..." "No, no... non importa che tu sia ubriaco... Te
l'ho chiesto soltanto così... È bene, anzi, che tu sia ubriaco... Non importa,
Petruska, non importa affatto... Tu, forse, l'hai soltanto dimenticato, ma ora
ricordi tutto. Su, cerca un po' di ricordare se sei stato dall'impiegato
Vachrameiev: ci sei stato sì o no?" "Non ci sono stato, e un
impiegato così non è mai esistito. Ecco, io anche subito..." "No, no,
Pjotr! No, Petruska, lo vedi, no, che io non dico niente?
E che cosa c'è infine? Fuori fa freddo, è umido e se
un uomo ha bevuto un tantino di più non è poi un gran male... Non vado mica in
collera. Anch'io, caro, oggi ho bevuto... Tu però confessa, cerca di ricordare:
ci sei stato dall'impiegato Vachrameiev?" "Be', come fosse adesso,
ecco è andata così, parola d'onore; ecco, ci sono stato, ecco, come fosse
adesso..." "Suvvia, Petruska, va bene, va bene che tu ci sia stato.
Lo vedi che non vado in collera... Su, su..." proseguì il nostro eroe,
lisciando sempre di più il suo servo, battendogli sulla spalla e
distribuendogli sorrisi; "insomma, canaglia, hai alzato un tantino il
gomito... lo hai alzato per dieci copechi? Ah, birbone d'un ubriacone! Ma non
importa: lo vedi bene che non vado in collera..." "No, non sono un
briccone, come volete voi... Sono andato da certa brava gente e non sono un
briccone, non lo sono mai stato..." "Ma no, no, Petruska! Ascoltami,
Pjotr, non importa, lo vedi che non voglio mica insultarti chiamandoti
briccone. Questo, vedi, te lo dico come consolazione, in senso alto, te lo
dico. Questo, Petruska, significa lusingarlo, un uomo, è come dirgli che è un
furbo di tre cotte, un giovane in gamba, che non si lascia infinocchiare da
nessuno e non permette a nessuno di prenderlo in giro. A certi questo gli
piace... Su, su, non importa! Tu dimmi soltanto, Petruska, senza nascondermi
niente, francamente come a un amico, dimmi: sei stato dall'impiegato
Vachrameiev? Te l'ha dato l'indirizzo?"
"L'indirizzo me l'ha dato, anche l'indirizzo mi ha dato. E' un bravo
impiegato! Il tuo padrone, dice, è una brava persona, dice, un'ottima persona;
io... digli, dice, salutalo, dice, il tuo padrone, ringrazialo e digli che io,
dice, gli voglio bene, ecco, come stimo il tuo padrone! Per il fatto, dice, che
il tuo padrone, Petruska, è una brava persona, dice, anche tu, Petruska, dice,
sei una brava persona... ecco..." "Ah, Signore mio dio! E
l'indirizzo, l'indirizzo, giuda che non sei altro?" Le ultime parole
Goljadkin le pronunciò con una voce quasi inintelleggibile.
"E anche l'indirizzo, anche l'indirizzo mi ha
dato..." "Te l'ha dato? E allora, su, dove abita lui, Goljadkin,
l'impiegato Goljadkin, consigliere segreto?" "Goljadkin, dice, lo
troverai in via delle Sei Botteghe. Ecco, dice, quando arrivi nella via delle
Sei Botteghe, prendi a destra, sali la scala, fino al quarto piano. Ecco, dice,
là troverai Goljadkin..." "Furfante matricolato!" gridò infine,
perduta la pazienza, il nostro eroe. "Sei un vero brigante! Ma quello sono
io; tu stai parlando di me. Ma c'è un altro Goljadkin e è di quest'altro che io
parlo, mascalzone!" "Be', come volete... A me che importa! Come
volete, ecco..." "Ma quella lettera, quella lettera..."
"Quale lettera? Non c'era alcuna lettera, io non no visto alcuna
lettera." "Ma dove l'hai ficcata la lettera, mascalzone?"
"L'ho consegnata, l'ho consegnata, la lettera. Saluta, dice, ringrazia; è
una brava persona, dice, il tuo padrone. Saluta, dice, il tuo padrone..."
"Ma chi l'ha detto? L'ha detto Goljadkin?" Petruska rimase un momento
zitto e spalancò la bocca in un sorriso, guardando dritto negli occhi il suo
padrone.
"Ascolta, brigante, ascolta..." cominciò,
ansimando Goljadkin, sconvolto dall'ira. "Che hai fatto di me? Dimmi, che
hai fatto di me! Mi hai ucciso mascalzone! Mi hai staccata la testa dal corpo,
giuda che non sei altro!" "Be', ora, come volete! Che me ne
importa!" disse ritirandosi dietro il tramezzo.
"Vieni qui, vieni qui, brigante!" "Ora
non ci verrò da voi, non ci verrò proprio. Che me ne importa!
Io andrò da brave persone... E le brave persone vivono
secondo onestà, le brave persone vivono senza ipocrisie e non sono mai
doppie..." Goljadkin si sentì tremare le gambe e le braccia e troncare il
respiro.
"Sissignore," proseguì Petruska "non
sono mai doppie; non offendono Iddio e le persone oneste..." "Tu sei
un fannullone, sei ubriaco! Dormi, adesso, farabutto, e domani aggiusteremo i
conti!" mormorò con voce appena percettibile Goljadkin. Per quanto si
riferisce a Petruska, questi borbottò ancora qualche cosa poi lo si sentì
sdraiarsi sul letto tanto che esso scricchiolò, fare uno sbadiglio che non
finiva più e stiracchiarsi, e finalmente cominciare a russare, immerso nel
sonno, come si dice, del giusto.
Goljadkin non era né vivo né morto. Il modo di
comportarsi di Petruska, le sue allusioni molto strane, anche se abbastanza
vaghe, per le quali, di conseguenza, non c'era motivo di andare in collera,
tanto più perché erano state fatte da un uomo in preda ai fumi dell'alcool e,
infine, la piega maligna presa dalla faccenda, tutto questo, insomma, aveva
scosso i nervi di Goljadkin. "Mi sono lasciato trascinare a rimproverarlo
in piena notte" si disse il nostro eroe, tremando in tutto il corpo per una
dolorosa sensazione. "E me la sono presa con un ubriaco! Che cosa ci si
può aspettare di utile da un ubriaco? Nemmeno una parola che non sia una bugia!
Ma a che alludeva, però, quel brigante? Signore mio dio! E perché ho scritto
tutte quelle lettere, assassino che sono?
Io, proprio io, suicida che sono... Non potevi stare
zitto?
Bisognava proprio parlare tanto? Ma non vedi che ti
stai rovinando? Sei un vecchio straccio, nient'altro, eppure, ecco che te ne
esci con l'amor proprio, e il mio onore ci soffre, dici, il mio onore bisogna
che lo salvi, dici... un suicida sono, e nient'altro!" Così andava
parlando Goljadkin seduto sul divano, senza nemmeno osare di muoversi per la
paura. All'improvviso i suoi occhi si fissarono su un oggetto che aveva suscitato
al massimo la sua attenzione. In preda alla paura - non era un'illusione, non
era un inganno della sua fantasia quell'oggetto che aveva suscitato la sua
attenzione - allungò verso di esso la mano con speranza, con timidezza, con
indescrivibile curiosità... No, non era un inganno, non era un'illusione! Una
lettera, proprio una lettera, senza dubbio una lettera indirizzata a lui...
Goljadkin prese la lettera dal tavolo. Il cuore gli batteva dolorosamente.
"Certamente l'ha portata quel mascalzone" precisò, "l'ha portata
lì e poi non se ne è più ricordato; certo le cose sono andate così..." La
lettera era dell'impiegato Vachrameiev, giovane collega d'ufficio di Goljadkin.
"Del resto io, tutto ciò l'avevo previsto" pensò il nostro eroe,
"e ho previsto anche tutto quello che ora ci sarà nella lettera..."
La lettera era la seguente:
"Egregio signor Jakòv Petrovic', il vostro servo
è ubriaco e da lui non c'è da aspettarsi niente di sensato; e per questo motivo
preferisco rispondervi per scritto.
Mi affretto a dichiararvi che l'incarico da voi datomi
e che consiste nel consegnare domattina alla persona a voi nota una lettera,
acconsento a eseguirlo con tutta fedeltà e precisione.
Questa persona, a voi ben nota, e che ora costituisce
per me un amico, il cui nome qui ometto (perché non voglio inutilmente
macchiare la reputazione di un uomo assolutamente innocente) abita con noi,
nell'appartamento di Karolina Ivànovna, proprio nella camera in cui prima,
durante la vostra permanenza da noi, abitava un ufficiale di fanteria che
veniva da Tambòv. Del resto, questa persona la potete trovare dovunque, tra le
persone oneste e sincere, cosa che di altra gente non si può dire. Ho
intenzione di interrompere oggi stesso i miei rapporti con voi; non è possibile
che si resti sul terreno dell'amicizia e del nostro buon accordo di colleghi
come prima, e perciò vi prego, egregio signore, appena avrete ricevuto questa
mia sincera lettera, di farmi avere i due rubli d'argento che mi dovete per
quei rasoi di fabbricazione estera, da me vendutivi a credito, se favorite
ricordarvene, sei mesi or sono, ancora durante il periodo della vostra
permanenza con noi da Karolina Ivànovna che io stimo con tutta l'anima mia.
Io agisco così perché voi, secondo quanto dicono le
persone intelligenti, avete perso l'amor proprio e la reputazione e siete
diventato pericoloso per gli uomini innocui e non corrotti, poiché alcune
persone non vivono secondo verità e, soprattutto, le loro parole sono false e
il loro aspetto di benpensanti fa essere sospettosi. Quanto poi a prendere le
difese per l'ingiuria recata a Karolina Ivànovna - che è sempre stata donna di
buona condotta e in secondo luogo, donna onesta e per giunta ragazza, anche se
non più giovane, però di ottima famiglia straniera - si troverà sempre gente
disposta a farlo, della qual cosa alcuni mi hanno pregato di accennare, così,
di sfuggita, in questa mia lettera e parlando a loro nome. In ogni caso saprete
tutto al momento opportuno se ancora non siete venuto a saperlo, nonostante vi
abbiano spubblicato, a sentire le persone intelligenti, da un capo all'altro
della capitale e, di conseguenza, abbiate già potuto ricevere, in molti posti,
le dovute notizie, egregio signore, su di voi. A conclusione della mia lettera
vi dichiaro, egregio signore, che la persona a voi conosciuta, il cui nome non
riporto qui per le note, nobili ragioni, è molto stimata dalla gente perbene;
inoltre è di carattere allegro e simpatico, nel suo servizio d'ufficio dà
ottimi risultati; come tutte le persone perbene, tiene fede alla propria parola
e all'amicizia e non offende in loro assenza quelli con i quali, in presenza, è
in amichevoli rapporti.
In ogni caso mi firmo l'umile vostro servitore
N. Vachrameiev.
P.S. Cacciate via il vostro servo: è un ubriacone e vi
procurerà, con tutta probabilità, molte seccature, e assumete Evstafij, che un
tempo serviva da noi e che è attualmente disoccupato. Il vostro attuale servo
non soltanto è un ubriacone, ma soprattutto è un ladro, poiché ancora la
settimana scorsa ha venduto una libbra di zucchero in pezzi a Karolina Ivànovna
con riduzione di prezzo, il che, secondo la mia opinione, ha potuto fare
soltanto derubandovi con abile astuzia, a poco a poco, in diverse volte. Vi
scrivo questo, desiderando il vostro bene, nonostante che alcune persone
sappiano soltanto offendere e ingannare la gente, e soprattutto la gente onesta
e dotata di buon carattere, e oltretutto, la denigrano alle spalle e la fanno
apparire il contrario di quella che è, unicamente per invidia e perché esse
stesse non possono essere chiamate tali.
V.
Dopo aver letto tutta la lettera di Vachrameiev, il
nostro eroe restò ancora a lungo immobile sul divano. Una nuova luce si faceva
strada attraverso la vaga e misteriosa nebbia in cui da due giorni si sentiva
avvolto. Il nostro eroe cominciava in parte a capire...
stava già per provare ad alzarsi dal divano e
passeggiare un po' per la camera, per schiarirsi le idee, raccogliere i
pensieri dispersi, qua e là, fissarli tutti verso il noto oggetto e poi, dopo
essersi un po' ripreso, meditare sulla sua condizione. Ma, appena volle
sollevarsi, ricadde immediatamente, impotente e senza forze, al posto di prima.
"Anche questo, naturalmente, l'avevo previsto;
però in che modo scrive e qual è il vero senso delle sue parole? Questo senso,
ammettiamolo, lo conosco, ma dove ci porterà? Se avesse detto chiaro e tondo:
ecco, le cose sono così e così, si vuole questo e quest'altro, io forse lo
farei anche. Ma la piega, l'indirizzo preso dalla faccenda diventa così
spiacevole! Ah! in che modo arrivare velocemente a domani e arrivare più presto
al fatto? Ma ora io so cosa fare. Le cose stanno così e così, dirò, sono
d'accordo sulle ragioni, il mio onore non lo
venderò, ma quello...
magari; d'altronde, lui, quella nota persona, quel
personaggio della malora, perché mai ci si è immischiato? E perché ci si è
proprio immischiato? Ah, se potessi arrivare presto a domani! Fino a quel
momento intanto loro mi denigreranno, non fanno che intrigare e lavorare contro
di me! L'importante è che non bisogna perdere tempo, e ora, per esempio, è
necessario scrivere una lettera e riuscire a spiegare che, sì, le cose stanno
in quel modo e che su questo e su quell'altro io sono d'accordo. E domani, non
appena farà giorno, spedirla e io, ancora prima... lanciarmi allo sbaraglio
contro di loro da un'altra parte e prevenirli, i colombelli... Essi mi
denigreranno, e basta!" Goljadkin avvicinò a sé un foglio, prese la penna
e scrisse la lettera seguente, in risposta alla lettera del segretario
provinciale Vachrameiev:
"Egregio signor Nestor Ighnàtevic', con profondo
rammarico del mio cuore ho letto la vostra per me offensiva lettera, poiché
vedo chiaramente che, parlando di alcune disoneste persone e di certa gente
falsamente benintenzionata, voi intendete alludere a me. Vedo con sincero
dolore come la calunnia abbia rapidamente e con successo fatto presa, a scapito
della mia tranquillità, del mio onore e del mio buon nome. E questo è tanto più
triste e più umiliante in quanto anche le persone oneste, dotate di un pensiero
veramente elevato e soprattutto dotate di un carattere retto e aperto, rinunciano
a occuparsi degli interessi della gente perbene e si attaccano con le migliori
qualità del loro cuore al malefico marciume che per disgrazia pullula a tutto
spiano, con le intenzioni più cattive, in questi nostri tempi penosi e
immorali. In conclusione vi dirò che il mio debito, cui avete accennato, di due
rubli d'argento, ve lo pagherò fino all'ultimo centesimo come un sacro dovere.
Per quanto poi si riferisce, egregio signore, alle
vostre allusioni a proposito della nota persona di sesso femminile, circa le
intenzioni, i calcoli e i vari progetti della suddetta persona, vi dirò,
egregio signore, che io confusamente e vagamente ho capito tutte quelle
allusioni. Permettetemi, egregio signore, di conservare senza macchia il mio
nobile modo di pensare e il mio nome onorato. In ogni caso, poi, sono pronto a
venire a una spiegazione verbale, preferendo l'esattezza che ne deriva a uno
scritto, e sono soprattutto pronto a intavolare pacifiche e, si capisce,
reciproche trattative. A questo scopo, vi prego, egregio signore, di
trasmettere a quelle persone la mia buona disposizione a un'intesa personale e
soprattutto di chieder loro di stabilire il giorno e l'ora dell'incontro. E'
stato per me amaro leggere, egregio signore, le allusioni al fatto che io vi avrei
offeso, avrei tradito la vostra amicizia di un tempo e avrei sparlato di voi.
Attribuisco tutto questo a un equivoco, a un'infame calunnia, all'invidia e
all'ostilità di coloro che giustamente io posso definire miei più feroci
nemici. Ma essi, certamente, non sanno che l'innocenza è forte della sua stessa
innocenza, che l'impudenza, la spudoratezza e la familiarità che muove a sdegno
di certe persone, presto o tardi saranno marchiate dal disprezzo universale, e
che quelle persone non si rovineranno se non per la disonestà e la depravazione
del proprio cuore. In conclusione vi prego, egregio signore, di riferire a
quelle persone che le loro strane pretese e il loro basso, fantastico desiderio
di far sloggiare altri limiti da questi stessi occupati con la propria
esistenza in questo mondo e di usurparne il posto, meritano meraviglia,
disprezzo e commiserazione e, in più, il manicomio; che, inoltre, un simile
modo di agire è severamente vietato dalle leggi, il che, secondo la mia
opinione, è giustissimo, poiché ognuno deve essere contento del proprio posto.
A tutto c'è un limite e, se questo è uno scherzo, è uno scherzo disonesto, dirò
di più: del tutto immorale, poiché oso assicurarvi, egregio signore, che le mie
idee, prima esposte, a proposito dei propri posti, sono nettamente morali.
"In ogni caso ho l'onore di essere il vostro
umilissimo servitore
Ja. Goljadkin."
NOTE:
Diminutivo di Ivan, nome russo diffusissimo, col quale
si indicava sia il vetturino di piazza sia il suo veicolo malridotto e il cavallo,
ugualmente malridotto.
Per leggere le puntate precedenti, clicca qui:
Fëdor Michajlovič Dostoevskij
Andrea Giostra