a cura di Andrea Giostra - Nel quinto capitolo de “La luce negli occhi”… Haria racconta
del suo signore Ubertino, ultimo dei Bard, e della sua vendetta per l’uccisione
della madre…
5° capitolo
V
1253 d.C.
Cavalco dietro Ubertino, il mio signore, ultimo dei Bard, stirpe violenta e
stralunata; lo osservo ingobbito nel suo abito da caccia, le gambe strette sui
fianchi del suo baio per non apparire storte, come in realtà sono. È un uomo
crudele, pieno di vizi e isterici capricci. È sterile, perciò maltratta la sua
dama Elisa e va a puttane con diritto di principe, le usa e le fa impiccare.
Io, Haria figlia di Halo e Maira, sono una donna di
conoscenza; appago la sua tendenza a esagerare intessendo per lui iperboliche
visioni e ogni giorno leggo nei suoi occhi la sua sorte; quella di oggi è che
sto per ammazzarlo, ma l’ho taciuta, gli ho detto invece che la caccia sarà coronata
di successo e lui, fidandosi della luce verde nei miei occhi, è partito
baldanzoso ed ottimista.
Fece impiccare mia madre perché lo aveva respinto. Era salito alle Rocce
Tagliate con l’arroganza dell’uomo di potere e la voglia squinternata dell’imberbe
in calore. Mia madre era bellissima e lui le aveva messo gli occhi addosso. La
sorprese presso un torrente e non perse tempo; mia madre gli sputò in faccia,
era una drusca.
Mio padre fermò il cavallo nella piazza del villaggio,
smontò e si diresse al grande faggio che reggeva mia madre penzolante e ancora
viva. Trasse il suo coltello drusco e tagliò la gola al primo soldato che gli
sbarrava il passo. Fece strage di uomini prima di essere ferito a morte da
molte frecce di balestra, e morì in piedi, sostenendo il corpo di mia madre.
Rapito dalla luce verde nei miei occhi Ubertino mi prese con sé contro il
parere del suo astrologo e mi consegnò a Krizia, una vecchia celta che
nell’ombra spessa di una segreta della rocca intrugliava per lui pozioni di fertilità.
Crebbi fra pestilenziali odori e viscidi consigli di megera e ogni tanto vedevo
la luce del giorno, chiamata da Ubertino a passeggiare con lui in un
labirintico giardino. Già allora sbavava per me; più tardi imparai l’arte della
seduzione e feci di Ubertino il mio campo di battaglia. In un tira e molla di
sottintesi lo portai a offrirmi un ruolo nello strascico dei suoi adulatori; ma
la notte stavo attenta, non mi fidavo di Krizia: vecchia di poco conto ma abile
nell’arte di manovrare i servitori da anni bramava un posto al sole e con
metodo ponzava per averlo; l’avevano informata del mio facile successo, e ora
mi odiava.
La guardai china sul lavoro. Mi chiesi se mai ferma
mano d’uomo le avesse accarezzato il viso. Si voltò di scatto e senza sforzo i
miei occhi entrarono nei suoi: vidi cattiveria, schifo infinito e disprezzo
della vita; la vidi soffocata nel pentolone degli intrugli. Ritrasse lo sguardo
impaurita, inciampò all’indietro e finì nell’immensità del pentolone, anima
nera del suo zelo.
Guardai Ubertino negli occhi: erano vuoti, erano un
pozzo senza fondo di incontenibile nullità; seppi che quell’uomo perseguitava
per curiosità e massacrava per ebbrezza; era un demone annoiato. Vidi la sua
fine per mano mia, con un coltello drusco.
Sognai mia madre agonizzante, mio padre trafitto dalle
frecce e gli occhi degli antichi druschi che mi imponevano vendetta. Mi
svegliai sudata e pronta. Raggiunsi Ubertino nell’alcova e gli svelai i miei
poteri. Mi credette subito e ordinò l’impiccagione del suo astrologo.
Presi a cavalcare al suo fianco e a leggergli il destino negli occhi: gli
mentii, non gli mentii, gli propinai mezze verità e informi menzogne; amava
dipendere da una donna vicina e irraggiungibile, oscura e schietta, virile ed
eccitante. Era un debosciato.
Feci di lui il mio giocattolo ed egli ne godette;
nelle sue notti insonni lo udii vagare per le stanze ripetendo il mio nome e il
mio potere, nei suoi giorni annoiati lo vidi lamentarsi per l’insulto di essere
nato uomo e non donna, nelle sue ore disperate lo ascoltai invocare un’infame
punizione. E ne risi.
Mi sbarazzai dei cavalieri e degli adulatori, uno alla
volta: chi fu impiccato, chi fustigato a morte, chi impalato. A Ubertino
restarono l’ignara Elisa, tre vecchi servitori sordi e una scorta di soldati
avvizziti dai bagordi. Il suo regno era andato in fumo in meno di vent’anni per
mano di una drusca.
Cavalco dietro Ubertino il Debosciato. Un vecchio
fante ci segue a piedi, rimuginando eroiche sfide e leggiadre ferite. Sprono il
mio nero puledro e affianco un uomo sfatto; gli mostro il mio coltello drusco e
rido. Sorride lui, ed ebete entra nei miei occhi. E vede, e ricorda, e
riconosce, e urla di terrore.
La lama del mio coltello taglia senza sosta la sua
gola. Il vecchio fante non vede; non può, o non sa. Fermo il cavallo, smonto.
E corro verso
il bosco.
In copertina, Francesca Falli, “Nemluvín česky” (2018), 100x100
cm., Tecnica mista su vetro.
Per leggere i precedenti capitoli, clicca qui:
Note dell’editore:
«Haria vive ritirata sull'appennino ligure-emiliano, e comunica
con il mondo esterno mediante i suoi libri, in cui dispensa la conoscenza di
cui è portatrice. Ove giovani donne, in secoli diversi, in fuga dal proprio
tempo, in fuga per la consapevolezza e la libertà. Nove vite, una vita, e una
luce negli occhi che le guida e le accomuna. Nove donne oltre il varco
sull'ignoto, per un magico, solidale destino.»
“La luce negli occhi”, Haria, Collana
Letteratura di Confine, Proprietà letteraria riservata, © RUPE MUTEVOLE, prima
edizione 2004, ristampe 2009-2012-2018.
Cristina del Torchio
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Francesca Falli
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Andrea Giostra