Francesca mise la freccia, segnalando
che avrebbe girato a destra. Né davanti, né dietro la sua auto, vi era alcuno.
Nessuno neanche a piedi. Era tarda domenica pomeriggio. E Francesca entrò, con
l’auto, sulla destra, venendo da viale Duca degli Abruzzi, in viale San Giovanni Bosco. Proprio
sull’angolo aveva riaperto, forse, il negozio di computer. La serranda a maglie
romboidali di ferro, era abbassata. La vetrina, all’interno, chiusa. Francesca
non riusciva ad immaginare, qualcuno che arrivasse sin lì per acquistare un
computer, o portarlo a riparare. Però, l’insegna era nuova.
Quel negozio, non era lì, prima, ma
da un’altra parte, in città; dove avevano appena finito di ristrutturare. Si
chiedeva, Francesca, se il trasferimento fosse stato temporaneo, o definitivo;
forse i titolari del franchising non potevano più permettersi gli affitti nei
locali ora ristrutturati. E comunque, anche se c’era sempre un negozio di
computer, lì, non era quello di prima. Ma, immaginava Francesca, i titolari del
negozio avrebbero potuto essere gli stessi, di prima, e avevano cambiato
semplicemente insegna e azienda, passando da titolari in proprio, ad affittuari
di un marchio. C’erano sempre computer lì, all’angolo tra viale Duca degli
Abruzzi e viale San Giovanni Bosco, ma, Francesca, non sapeva ricordare il
tempo, dal negozio di prima, a quello di oggi. C’era un ricordo, più o meno
preciso, e ora, una realtà, non del tutto leggibile, né riconosciuta; ma solo vista,
ogni tanto, come si può guardare un muro che scorre dietro il finestrino
accanto, mentre si guida. Rifiutata, in una certa misura; rimossa
costantemente, ad ogni nuovo sguardo. E, ogni volta, opaca, pur se rimasta
negli occhi, volti comunque altrove.
Viale San Giovanni Bosco
s’inabissava, in discesa, quasi subito. Giusto il tempo di un veloce sguardo, a
sinistra, mentre l’auto camminava lentamente. Verso l’ingresso del Cinema dei
Salesiani. Il cancello aperto sul cortile vuoto. Erbacce ovunque. Il palazzotto
al fianco dell’ingresso, puntellato, sul lato che dava lungo la strada, da
forti travi di legno, ingrigite dal tempo. Come un contrafforte che, con la
spalla, sorreggesse la palazzina color giallo dimenticato. Francesca pensò alle
sedie di legno del vecchio cinemino. Sul cancello nero, la bacheca destinata ad
ospitare il manifesto del film in programmazione, dentro il vetro ingiallito,
conservava brani di carta umida e sfatta, biancastra, dissolta. Marcita. Come
un sipario chiuso.
Francesca pensò, mentre rallentava
ancora l’andatura, a quante volte, era entrata lì, a guardare l’ultimo
spettacolo, di film poco visti altrove. Rassegne d’essai. Talvolta pellicole noiose,
talaltra, poco più di un pretesto per fumarsi una sigaretta fuori di casa nelle
sere d’inverno aquilano freddo. Altre volte, invece, storie delicate, o forti, preziose;
come la sensazione di una solitudine che avrebbe potuto incontrare qualcuno, e
rompersi, incredibilmente in quel luogo, sulla cima delle scale, per arrivare
al cinema, camminando con la mano poggiata sulla ringhiera di ferro, ruvida e
tagliente, di ruggine e vernice slabbrata. E guardando in alto, verso il cielo,
quasi. I biglietti, ancora quelli antichi, di carta chimica leggerissima,
giallina, con sopra stampigliata la parola popolare “Platea”.
Sulla destra, invece, dietro le mura
e le inferriate, Francesca sapeva che, in basso, il campo di calcio, non c’era
più. Asfaltato. I Salesiani facevano i conti col futuro mercato edilizio. Evitò,
per questo, di guardare, alla sua destra in quel tratto, e fermò l’auto sotto
gli alberi. In un piccolo slargo. L’ultimo pezzetto di strada, voleva farlo a
piedi, anche se stava piovendo; acqua leggera, quasi spruzzata dalle nuvole.
Faceva leggermente tremare l’aria, guardandola in controluce, sul fondo del
cancello chiuso dell’Istituto delle Suore. Il cancello con le punte di ferro
acuminate, in alto. Come se nessuno dovesse entrare, come se nessuno potesse
uscire.
Ed ecco aprirsi, sotto i passi di
Francesca, piazza della Lauretana. Un quadrato sghembo. Tagliato in diagonale
dalla luce del giorno nuvoloso che finiva. Sconnesso e aperto, sui palazzi che
soffocavano la chiesetta medievale incastrata dentro l’edificio delle Suore. Che
appariva chiuso. Silenzioso. Assente. Indifferente al proprio futuro, deciso
dentro sacrestie oscure. Francesca guardava le scritte di spray nero sulle
pareti ocra della fabbrica di materassi, indicata nell’insegna dalla parte opposta del vecchio
palazzo. Le finestre basse, chiuse con le inferriate.
Francesca si fermò, nella piazza. Ad
ascoltare il silenzio, e il sapore dei mattoni ammuffiti, coperti di muschio e
alghe verdi, che saliva dai palazzi sventrati più sotto. Era lì, perché aveva
bisogno di riordinare le idee. Anche se era difficile, farlo, sotto la pioggia,
di una tarda domenica pomeriggio, al confine tra centro storico aquilano e
dissennate costruzioni degli anni ’60 del secolo scorso. Anche se era difficile
riprendere il filo dei pensieri degli ultimi giorni, piangendo. Piangendo senza
farsi notare. In piedi, nella piccola piazza, ma con lo guardo rivolto verso
l’angolo più distante, per chi fosse sopravvenuto in auto, scendendo dal viale,
diretto verso la deviazione obbligata per via Roma. Che si percorreva solo in
discesa, teoricamente, da qualche anno. Con il bavero dell’impermeabile alzato.
L’ombrello quasi poggiato sulle spalle, a far da parete tra il suo volto, e
chiunque avesse voluto cercarne gli occhi. Che tremavano, lentamente. Lacrime
sottili, che stillavano dall’angolo più lontano, a sinistra; restavano ferme,
un interminabile pensiero appiccicoso, e poi scendevano, veloci, dallo zigomo
verso il bordo esterno delle labbra, come un’arsura da non dissetare.
Francesca aveva presentato il suo
lavoro, il lunedì precedente, nello studio dove lavorava. Un grande studio di
ingegneri, impegnato nella progettazione di numerosi interventi di
ricostruzione. Il suo lavoro, riguardava una soluzione innovativa di salvaguardia
di un arco in pietra. Proprio lì, di fronte, all’angolo con via Pretatti, che
era diventata un corridoio chiuso, quasi senza luce, per i puntellamenti a
destra e sinistra, uniti da un soppalco in legno che faceva da cielo basso e
scuro. Ci aveva lavorato con passione
Francesca. Per due mesi interi. A toccare quelle pietre con le mani, e a
disegnare nel suo stanzino in ufficio i particolari costruttivi, quasi
invisibili, che avrebbero dovuto assicurarne la tenuta anche con un futuro
terremoto, più distruttivo di quello che ancora pesava spietato, per quelle
vie, deserte. Spezzate. Ed ora lo stava guardando, sporgendo un po’ la testa
dall’angolo della piazza. In modo da lasciarselo negli occhi, per qualche istante.
E immaginando.
L’arco in pietra, e la strada
sottostante, sarebbero riemerse bianche, lasciando sulle dita quella leggera
polvere di pietra appena lavorata, eppure antica. Come una cipria sottile e
profumata. Le pietre avrebbero conservato tutti gli antichi disegni, e nascosto
un’anima capace di reagire ai sussulti. Aveva studiato la storia, Francesca, e
cercato i materiali nelle cave originarie, badando anche a tenere bassi i costi
di lavorazione e posa in opera. E aveva inventato una piccola e solidissima
anima metallica, flessibile come l’arco di un cacciatore, capace di stringere a
sé ogni singola pietra. Lo immaginava nel sole, il suo arco, Francesca. Lo
snodo essenziale per dare il via alla ristrutturazione dell’intero edificio.
Nessuno, le aveva dato
quell’incarico. Nello studio. Ma lei si era accorta che, nei progetti affidati
ai suoi colleghi, quell’arco restava vuoto. Come se nessuno volesse affrontarlo
per primo, ma solo alla fine, quando tutto il resto fosse stato risolto. Ed
invece, per lei, doveva avvenire esattamente l’opposto. Quell’arco, trasformato
in una colonna agile, capace di tenere su di sé, il peso dei piani superiori. E
perciò, in silenzio, aveva sviluppato la sua idea, con l’intenzione di
presentarla al suo capo, e la speranza che questo facesse finalmente capire a
tutti quanto fosse capace, e brava.
Francesca aveva ancora negli occhi,
la riunione di inizio settimana, lo scorso lunedì mattina; tutti i membri dello
studio, intorno al grande tavolo delle riunioni. Lei, in seconda fila, senza
potersi appoggiare al legno, per prendere appunti. Seduta dritta, alle spalle
di tanti suoi colleghi, più esperti, o più diplomatici. O più svelti. I capelli
neri, lunghi, raccolti dietro la testa, mentre alcune ciocche le cadevano ai
lati degli occhi, ricce, dolci. Gli occhiali dalla montatura nera, sottile. E
un’ombra di rossetto rosso sulle labbra. Indossava i suoi jeans preferiti,
Francesca, e un paio di Doctor Martin’s nere, basse. Un maglione di cotone un
po’ gualcito, largo, che le copriva, parzialmente, i fianchi forse leggermente
espansivi.
Il capo parlava di quel palazzo, e di
come, ancora, si fosse in ritardo nella progettazione dell’intervento. Seccato.
Faceva pesare su tutti le sue parole. Il ritardo, avrebbe anche potuto
comportare pesanti penali. Che avrebbero influito sui compensi di ciascuno. Fu
allora che Francesca, si alzò dalla sedia. Tutti la guardarono, come se stesse
commettendo un atto di grave scortesia. Lei si diresse verso il capo, con le
sue carte in mano, e gliele porse. Senza parlare.
Il responsabile dello studio,
guardandola, come se la vedesse per la prima volta, prese il suo progetto,
indossò gli occhialetti da presbite che teneva nel taschino della giacca, e
iniziò ad esaminarlo. Muoveva la testa, ogni tanto, in su ed in giù, come ad
assentire. Talvolta alzava lo sguardo, cercando con gli occhi Annarita. Che
ricambiava, sorridendo lievemente. Avanzando, sulla sedia, fin quasi ad essere
seduta solo sul bordo. Come se attendesse ogni sua parola come una rivelazione
indispensabile. E non si curava, nello sporgersi in avanti, di mostrare la sua
scollatura, sempre più generosamente. Aveva il seno piccolo, Annarita, ma
spavaldo. E lei si guardava intorno, ad ogni sguardo del capo, come a rimarcare
che la sua attenzione gli apparteneva. Che nessuno osasse entrare in quel
perimetro di cenni sottointesi. Con una smorfia delle labbra, a metà tra un
sorriso e i denti che si stringevano, come per un morso. Violento e durissimo.
Francesca, vedeva tutto. Era rimasta in piedi, poco discosta dalla poltrona di
capotavola, dove sedeva l’ingegnere titolare dello studio, il suo datore di
lavoro. Disorientata.
Il suo lavoro, era piaciuto. E, per
questo, ne era stato assegnato lo sviluppo ad Annarita. La più capace nel
dargli realizzazione pratica, e nell’aggiustare alcuni dettagli che
richiedevano duttilità e spregiudicatezza nella conduzione dell’intero progetto.
Il capo, aveva sorriso, nell’annunciare che, finalmente, la sua squadra aveva
trovato la soluzione per far partire un progetto cui teneva moltissimo, del
valore di svariati milioni di euro, e che avrebbe ulteriormente rafforzato il nome
dello studio sul mercato. Annarita, dava garanzie di affidabilità, di
conoscenza dell’ambiente, di relazioni con i committenti; nessuno meglio di
lei, avrebbe potuto condurre a termine quella impresa ambiziosa. Naturalmente
sotto la sua costante e attenta supervisione. Sotto la sua mano sapiente e
autorevole.
Era stata ringraziata, Francesca, e
invitata a riprendere il suo posto a sedere. Nessuno, l’aveva più guardata, nel
prosieguo della riunione, che, poi si era sciolta. Mentre tutti circondavano
Annarita, congratulandosi con lei per il lavoro che le era stato affidato,
Francesca, restava sulla sua sedia, con gli occhi bassi, tentando
meccanicamente di rimettere a posto nella sua cartella, carte, disegni,
appunti. Matite. Non si era accorta che, improvvisamente, le si era avvicinato,
fino a fermarsi a pochissima distanza dalle sue ginocchia, il capo. Che aveva
richiesto la sua attenzione, e che, senza guardarla in volto, le aveva detto
che avrebbe dovuto parlare con Annarita. Mettersi d’accordo con lei. Francesca
ascoltava, senza sentire davvero le sue parole. Si alzò dalla sedia. E uscì
dallo studio.
Da quel lunedì, non aveva più rimesso
piede nello studio. E, in verità, nessuno l’aveva cercata. Aveva scoperto la
propria invisibilità, Francesca. Aveva scoperto quanto era brava. E quanto era
inutile. Si sentiva addosso, tutte le tonalità d’ombra da quel lunedì mattino,
fino a quella domenica, ormai quasi sera. In piazza della Lauretana.
Era come aver guardato a lungo
Gabriele, seduto davanti a lei, a sorseggiare una birra nel pub. Senza aver mai
trovato il coraggio di dirgli, con le labbra, quel che gli occhi imploravano.
Era come se continuasse a sentire le proprie mani imprigionate nella paura di
avvicinarsi a lui. Era la netta percezione di non essere abbastanza. La stessa
impossibilità sottile, eppure evidente. Sapere di poter dirigere il proprio
lavoro, eppure, nello stesso tempo, avvertire che l’altra, senza avere le sue
qualità, era più adatta. Più funzionale, ai disegni del capo. E, sapere, di voler
sentire le labbra di Gabriele, piene, calde, sulle sue. Sentirsele nello
stomaco. E capire, che lui, mai, l’avrebbe cercata.
Francesca.
Un po’ troppo goffa, nella sua taglia
in più, un po’ troppo poco indifferente, per rinunciare tranquillamente alla
propria intelligenza e alla propria libertà per essere come il capo l’avrebbe
voluta. Riprese la propria automobile. E guidò all’indietro, verso casa,
lontano, a Coppito. Passò davanti al ponticello, sul torrente, e guardò alla
sua destra, verso l’allevamento di trote. Più in basso, rispetto alla sede
stradale.
Francesca pensava alle trote.
Chiuse nelle vasche di pietra,
ammassate, le une alle altre. Nutrite sempre della stessa pappa. Senza alghe
tra cui nascondersi. Con pochissimo ossigeno da dividere tra tante. Senza
nessuna ansa da percorrere. Mura squadrate, brevi, di cemento indifferente.
Fino alla rete che le avrebbe afferrate e portate via. Si sentì quasi mancare
il respiro. E abbassò i vetri dei finestrini. Guidando così, nel freddo, fino a
casa. Forse avrebbero potuto esserci altre direzioni. Altre strade per i suoi
disegni.
Era appena entrata, a casa.
Sentì il cellulare che vibrava. Era
un messaggio.
Lo lesse.
Era Gabriele.
Aveva preso due pizze, era sotto la
sua casa, e le chiedeva se poteva salire.
Colonna sonora: “Other directions” di Nicola Conte