Fattitaliani intervista Chiara Casarico, direttrice artistica di "Agorà": quando il teatro diventa piazza e cittadinanza



di Giovanni Zambito - Giunta alla sua quattordicesima edizione, Agorà – Teatro e Musica alle Radici si conferma come un appuntamento imprescindibile per chi crede nel potere dell’arte di creare comunità. Nato nei cortili delle case popolari, il festival si è progressivamente trasformato in una rete diffusa di eventi che attraversa piazze, teatri, musei e luoghi non convenzionali di tutto il Lazio. Alla guida di questo percorso c’è la Direttrice Artistica Chiara Casarico che a Fattitaliani racconta come Agorà abbia saputo crescere restando fedele ai suoi valori fondanti: il legame con le radici, la ricerca del contemporaneo, l’inclusione, la creatività al femminile e la multiculturalità. Un dialogo che restituisce il senso profondo di un festival capace non solo di proporre spettacoli, ma di generare incontri, partecipazione e cittadinanza attiva. L'intervista.

Quattordici edizioni sono un traguardo importante. Come si è evoluto Agorà in questi anni, e quali sono i valori che continuano a guidarlo?

Agorà è cresciuto insieme al territorio e alle persone che lo abitano. Da una rassegna nei cortili delle case popolari siamo arrivati a un festival diffuso che mette in rete piazze, teatri, musei e luoghi non convenzionali di tutto il Lazio. È cambiata la dimensione, è aumentata la varietà dei linguaggi, ma i valori restano gli stessi: il legame con le radici, la ricerca del contemporaneo, l’inclusione, la creatività al femminile, la multiculturalità. E soprattutto la convinzione che l’arte debba essere un fatto comunitario.

Il festival nasce con l’idea di riportare l’arte nelle “radici”, nelle piazze, nelle periferie. Quanto è importante oggi questa dimensione comunitaria e territoriale del teatro?

Fondamentale. Riportare il teatro nelle piazze o nei cortili significa restituirgli la sua funzione più autentica: essere spazio di incontro, di dialogo e di riconoscimento reciproco. È lì che si ricrea davvero l’“agorà”, la piazza reale e simbolica dove il pubblico non si limita ad assistere, ma si riconosce parte di una comunità.

Lei ha definito il pubblico non solo spettatore, ma cittadino della Polis. In che modo Agorà incoraggia questa partecipazione attiva del pubblico?

Il nostro pubblico non è mai passivo. Con laboratori, spettacoli di teatro urbano, incontri con gli artisti e progetti partecipati lo invitiamo a diventare parte attiva del processo creativo. Quest’anno, ad esempio, con Solo l’amare, solo il conoscere giovani attori under 35 e migranti porteranno in scena le proprie autobiografie trasformandole in racconto teatrale: un ponte diretto tra vita, scena e spettatore.

Quest’anno Agorà si estende in maniera ancora più capillare nel Lazio, toccando tanti piccoli comuni. Cosa significa portare arte e cultura in questi luoghi spesso ai margini dei circuiti culturali?

Significa dare voce a comunità che hanno tanto da offrire ma che spesso restano invisibili nei grandi circuiti. Portare un Premio Ubu come Saverio La Ruina con Via del Popolo a Ostia, o spettacoli di respiro nazionale e internazionale a Collevecchio, Ripi, Percile, Fondi, Montopoli in Sabina o Formello, è un modo per dire che la cultura appartiene a tutti e deve arrivare ovunque. 

La programmazione è molto varia: teatro, musica, clownerie, circo… Come lavorate sulla contaminazione dei linguaggi?

È la nostra cifra distintiva. Agorà mescola generi e linguaggi, accostando prosa e musica, clownerie e impegno civile, teatro ragazzi e drammaturgia contemporanea. Quest’anno, accanto a lavori di grande intensità come Madri di Guerra o Via del Popolo, ci sono spettacoli di comicità come Varietà Comique o Up&Down Comedy ed esperienze musicali come Confini Labili, Napoli Cantata e Stella Ariente. La contaminazione non è un artificio, ma un modo per parlare a pubblici diversi e creare sempre nuove connessioni.


Ci sono spettacoli che parlano di drammaturgia contemporanea, impegno civile, omaggi a grandi maestri del teatro. Come si bilancia una proposta così ampia e articolata?

È un equilibrio che nasce dall’ascolto. Vogliamo che ogni spettatore trovi un pezzo di sé nel festival: chi ama la drammaturgia contemporanea troverà Saverio La Ruina, chi cerca musica incontrerà Maria Moramarco, Giuseppe De Trizio o i Neapolis, chi vuole ridere potrà seguire i nostri clown e i varietà. Ma il filo conduttore resta lo stesso: il desiderio di riportare l’arte al cuore della comunità. 

Tra le anteprime troviamo “La scelta della Gioia”, spettacolo da lei co-ideato. Può raccontarci qualcosa di più su questo progetto e cosa rappresenta per lei?

È un lavoro molto personale, nato con Tiziana Scrocca, che si pregia della regia di Giovanna Mori. Abbiamo scelto di partire dalle nostre esperienze, mettendo in gioco pancia, testa e cuore per raccontare cosa significhi cercare la gioia oggi. Due punti di vista diversi, a volte opposti, che si incontrano nell’urgenza di affrontare temi come identità, sessualità, inadeguatezza e libertà. Abbiamo guardato a Goliarda Sapienza e alla sua Arte della gioia come a un faro, cercando con pudore e umiltà di restituire emozioni, dolori e conquiste. Per me questo spettacolo è un atto intimo e politico al tempo stesso: dire che la gioia non è un lusso, ma un diritto e una scelta quotidiana.

In un’epoca dove spesso la cultura deve rincorrere finanziamenti e attenzione mediatica, qual è secondo lei il ruolo che un festival come Agorà può e deve avere nel tessuto sociale?

Agorà non vuole rincorrere, vuole radicare. Il suo ruolo è quello di presidio culturale e civile: offrire spazi di bellezza condivisa, di libertà, di ascolto reciproco. In un mondo che frammenta e divide, noi proviamo a ricostruire comunità. Non si tratta solo di fare spettacoli, ma di generare legami, dare strumenti per leggere il presente e, perché no, per immaginare un futuro diverso.

 


Fattitaliani

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