Tra guerre e silenzi: Putin, Gaza, dazi e la diplomazia che non c’è

 

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"La storia sarà clemente con me, perché intendo scriverla io." Winston Churchill

Tre crisi, un solo mondo disarticolato. 

La guerra in Ucraina, il conflitto a Gaza e la nuova ondata di protezionismo americano sembrano avvenimenti distanti, ma condividono una dinamica comune: la fine della mediazione globale, la marginalizzazione dei più deboli e la normalizzazione della forza come strumento di dialogo. A guidare non è più il diritto, ma il calcolo. E nel vuoto lasciato dalle istituzioni internazionali, ogni potenza cerca di scrivere la propria versione della storia — una storia senza più contrappesi.

Putin propone Dubai, ma ignora Kiev

Vladimir Putin ha rilanciato pubblicamente l’idea di un incontro diretto con Donald Trump. Il luogo scelto non è casuale: gli Emirati Arabi Uniti, uno degli snodi geopolitici più ambigui del nostro tempo. Lontani dalla NATO, vicini alla Russia, ma comunque partner economici dell’Occidente. Lì, Mosca vorrebbe ridiscutere l’equilibrio globale. Non con Zelensky, ma con chi davvero conta agli occhi del Cremlino: Washington.

Secondo alcune fonti americane, Trump sarebbe pronto a sedersi al tavolo, ma con una condizione: la presenza del presidente ucraino. La risposta russa è stata fredda. Per Putin, Kiev non è un soggetto negoziale, ma una questione da regolare a due. È il ritorno alla logica delle sfere d’influenza, a un’idea ottocentesca delle relazioni internazionali, in cui la sovranità dei paesi minori è funzione degli accordi tra le grandi potenze.

Mosca mira a ottenere ciò che non ha ottenuto con le armi: il riconoscimento della propria egemonia sullo spazio post-sovietico. E spera di farlo con la complicità — tacita o esplicita — di un’America che guarda sempre meno all’Europa e sempre più al proprio equilibrio interno.

Il Vaticano si offre per Kiev, ma tace su Gaza

In questo panorama di crisi multiple, Papa Leone XIV ha cercato di riattivare la tradizione diplomatica della Santa Sede, offrendo un ruolo di mediazione tra Russia e Ucraina. L’appello è stato accolto con rispetto da entrambe le parti, ma con la consueta vaghezza che accompagna le proposte che non modificano gli equilibri sul campo. È un gesto simbolico, che si inserisce nel solco della neutralità attiva vaticana, ma che per ora resta sospeso nel vuoto.

Molto più problematico è però il silenzio del Papa su Gaza. Mentre nella Striscia infuriano i bombardamenti, mentre migliaia di civili palestinesi vengono colpiti senza vie di fuga, mentre l’intera regione rischia di esplodere in un conflitto generalizzato, la voce della Santa Sede appare assente. Nessuna condanna netta, nessun appello visibile, nessun messaggio capace di scuotere le coscienze. E questa assenza pesa.

Se la Chiesa vuole continuare a essere una voce universale di pace e giustizia, non può scegliere dove vedere il dolore. Il diritto alla sicurezza d’Israele non può oscurare il diritto alla vita dei palestinesi. Il silenzio diplomatico, per quanto strategico, rischia di trasformarsi in complicità morale.

Gaza: guerra annunciata, pace dimenticata

Il governo israeliano ha dato il via libera all’invasione di terra della Striscia di Gaza. Una decisione discussa internamente, con i vertici militari divisi tra l’urgenza politica e la consapevolezza strategica che un’operazione di questo tipo può innescare una reazione a catena incontrollabile.

La Striscia è oggi una trappola per civili. I bombardamenti mirano a neutralizzare Hamas, ma colpiscono indiscriminatamente anche scuole, ospedali, mercati. La comunità internazionale è divisa. Gli Stati Uniti sostengono Israele senza condizioni visibili. L’Europa si muove in ordine sparso. I paesi arabi oscillano tra il sostegno verbale alla causa palestinese e il timore di destabilizzazioni interne. Nessuno è realmente in grado di fermare l’escalation.

Gaza è diventata una terra di nessuno, un luogo in cui il diritto è sospeso, e l’informazione filtrata. La guerra si consuma sotto gli occhi del mondo, ma come se non ci fosse più nulla da dire. L’assuefazione alla tragedia è uno dei pericoli più gravi della nostra epoca: quando tutto è sempre stato orrore, niente sembra più urgente da fermare.

Dazi e disordine: la nuova guerra fredda è economica

Sul fronte commerciale, gli Stati Uniti hanno avviato una campagna di dazi che colpisce duramente la Cina, l’India e il Brasile. L’obiettivo dichiarato è la difesa delle filiere strategiche americane. Quello implicito è più profondo: rallentare l’ascesa dei concorrenti e consolidare l’alleanza economica con l’Europa.

Il paradosso è che l’Europa, pur beneficiando di nuove intese industriali con Washington, rischia di perdere definitivamente la propria autonomia strategica. L’investimento da 600 miliardi in tecnologia statunitense — approvato dalla Commissione UE — è presentato come una risposta all’espansionismo cinese, ma di fatto lega il destino industriale europeo a quello americano in modo strutturale.

Nel frattempo, Pechino minaccia ritorsioni, Delhi valuta nuove alleanze commerciali sud-sud, e il Sud America guarda con crescente disillusione alle promesse mai mantenute dall’Occidente. L’era della globalizzazione simmetrica è finita. Il mondo si frammenta in blocchi competitivi, dove il commercio è strumento di guerra e la neutralità economica non esiste più.

Così come negli anni Ottanta Bettino Craxi tentò di emancipare l’Italia da una dipendenza totale dall’egemonia americana — stringendo alleanze politiche e commerciali con il Nord Africa e aprendo canali con il mondo arabo — oggi c'è chi sostiene che Roma dovrebbe costruire un'agenda autonoma in grado di dialogare più seriamente con India e Cina. Non si tratta di abiurare l’Occidente, ma di ritrovare una postura multipolare e pragmatica, capace di cogliere le trasformazioni in atto nel sud globale. Il rischio, altrimenti, è quello di diventare satelliti economici di scelte decise altrove.

Opinione: un mondo che ha smesso di ascoltare

La crisi più profonda del nostro tempo non è quella militare, né quella economica. È una crisi di ascolto. Le nazioni parlano solo ai propri alleati. Le leadership religiose parlano solo ai fedeli. Le istituzioni multilaterali parlano a vuoto. Nessuno oggi è percepito come voce imparziale, capace di unire gli opposti o almeno di tradurre una lingua comune.

Churchill, in uno dei suoi aforismi più lucidi, osservava che la storia sarebbe stata clemente con lui perché l’avrebbe scritta lui stesso. Oggi, ogni attore globale cerca di scrivere la propria narrazione, ignorando quella degli altri. Putin scrive quella della Russia assediata ma invincibile. Netanyahu quella di uno Stato in guerra permanente per la propria sopravvivenza. L’America quella di una potenza razionale che difende i propri interessi in un mondo irrazionale.

Ma in questa babele di narrazioni, manca una voce che parli per tutti. E dove mancano le voci universali, avanzano le armi. L’etica diventa un’opzione, la legalità un ostacolo, la pace un’illusione di altri tempi.

Conclusione

Il vertice tra Trump e Putin potrebbe non portare la pace in Ucraina, ma segnare la fine della sua centralità nel dibattito internazionale. L’invasione di Gaza potrebbe non distruggere Hamas, ma destabilizzare l’intera regione per decenni. I dazi potrebbero non fermare la Cina, ma spaccare definitivamente l’ordine economico globale. E il silenzio del Vaticano su alcuni fronti potrebbe non essere indifferente, ma lasciare un vuoto che altri riempiranno.

In un mondo in cui ognuno difende il proprio racconto, la verità rischia di diventare la prima vittima di ogni guerra. E la pace, senza voci credibili a invocarla, sarà solo una parola nei discorsi di circostanza.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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