C’è un’Italia che sfugge alle statistiche e agli slogan. Un’Italia che si alza presto, lavora, paga le tasse, accudisce genitori e figli, e alla fine del mese è comunque con l’acqua alla gola. Un’Italia che era la spina dorsale del Paese, il suo motore silenzioso: il ceto medio, quello che per decenni ha rappresentato stabilità, decoro, progresso. Oggi, invece, è diventato terra di nessuno. Si sta sgretolando pezzo dopo pezzo, senza rumore, come una casa che cade a pezzi durante la notte. E con lui, insieme ai diritti e alla serenità, è andata perduta anche la rabbia.
Non che non ci sia più. È solo cambiata forma. È diventata muta, sotterranea, corrosiva. Non ha più volto né voce. Non scende più in piazza, non scrive lettere ai giornali, non si organizza. Ma c’è. Vive nei sussurri amari di chi si è visto portare via ogni certezza. Nel silenzio di chi non si fida più. Nell’indifferenza di chi non spera.
Rabbia invisibile: il dolore che non fa rumore
Un tempo l’indignazione era considerata un sentimento nobile. Serviva a cambiare le cose. Era la miccia dei diritti, delle rivoluzioni civili, delle grandi conquiste collettive. Oggi è diventata un disturbo. Un’ombra da nascondere. La società si è costruita un alibi perfetto: chi protesta è visto come un perdente, un disturbatore, uno che ha “qualcosa da farsi perdonare”. E così la rabbia è diventata invisibile. Non per questo meno pericolosa.
È la rabbia di chi ha fatto tutto come si doveva fare e si ritrova comunque indietro. Di chi ha investito negli studi, nel lavoro, nei sogni, e si è ritrovato con contratti da tre mesi, stipendi insufficienti, e una pensione che probabilmente non vedrà mai. È la rabbia di chi si è sentito dire che “ce l’avrebbe fatta” e invece si scopre escluso. Anzi, peggio: colpevolizzato.
Ci hanno insegnato a vergognarci della nostra rabbia. A trasformarla in senso di colpa. Come se non essere soddisfatti fosse un problema nostro. Come se il disagio fosse un fallimento individuale, mai un segno di fallimento del sistema.
Una rabbia privata, nascosta dietro le apparenze
Molti fingono che vada tutto bene. Nascondono il disagio con una vacanza a rate, una macchina presa in leasing, uno stile di vita mantenuto a colpi di debiti. La paura del giudizio è più forte del bisogno di denunciare. Così si costruisce una narrazione truccata, fatta di finte sicurezze, di selfie sorridenti e conti in rosso. E intanto, dentro, cresce un senso profondo di dissonanza. Una frattura tra ciò che si mostra e ciò che si prova.
Nel frattempo, le disuguaglianze aumentano, la mobilità sociale si arresta, i figli vivono peggio dei genitori, e la politica sembra incapace - o peggio, disinteressata - a dare risposte. La classe dirigente si è arroccata in un linguaggio distante, tecnocratico, svuotato di umanità. I bisogni veri - casa, lavoro stabile, sanità efficiente, scuola gratuita e accessibile, tempo libero - sono diventati temi marginali. Al loro posto, guerre culturali, titoli acchiappa-like, campagne elettorali infinite.
Chi alza la voce viene zittito con cinismo: “è il mercato”, “è il mondo di oggi”, “devi adattarti”. Ma adattarsi a cosa? A un presente che rende infelici milioni di persone? A un futuro che non promette nulla? A una vita senza orizzonte, dove il massimo traguardo è non cadere ancora più in basso?
Il peso dell’impotenza
L’impotenza è forse il sentimento più diffuso. Ed è velenoso. Perché non genera cambiamento, ma rassegnazione. Perché porta all’isolamento. Fa pensare che sia inutile reagire. Che tanto nessuno ascolta. Che tanto nessuno capisce. E in questo clima, anche la rabbia - che dovrebbe unire - divide. Perché si rivolge nel modo sbagliato. Contro il vicino, lo straniero, il diverso. Contro chi ha ancora qualcosa da difendere. È una rabbia senza guida, senza progetto, senza destinazione. È un urlo muto che si perde nel vuoto.
Eppure è da lì che bisogna ripartire.
Riabilitare la rabbia
Serve riconsegnare alla rabbia la sua dignità. Non è un sentimento da reprimere, ma da ascoltare. Non è un nemico, ma un segnale. La rabbia autentica nasce dal dolore, non dall’odio. Nasce dall’esperienza concreta dell’ingiustizia. E può essere un motore potente se le si dà un linguaggio, uno spazio, un volto.
Per troppo tempo abbiamo creduto che il compromesso fosse l’unica via. Che il meglio possibile fosse l’unico orizzonte. Ma ora il compromesso ha smesso di funzionare. E chi resta schiacciato sotto il peso delle rinunce, non vuole più “adattarsi”. Vuole giustizia. Vuole rispetto. Vuole futuro.
Un Paese che non vuole più subire
Ci sono segnali che qualcosa si muove. Piccoli focolai di consapevolezza. Giovani che rifiutano lo sfruttamento travestito da “esperienza”. Genitori che pretendono scuole pubbliche dignitose. Infermieri che chiedono di non essere trattati come carne da turni. Lavoratori autonomi che denunciano l’abbandono. Pensionati che rivendicano il diritto alla dignità.
Forse, lentamente, stiamo imparando che la rabbia non va soffocata. Va canalizzata. Va condivisa. Perché solo se è collettiva può diventare forza. Solo se è ascoltata può diventare proposta. Solo se è riconosciuta può diventare cambiamento.
E allora sì, è tempo di dire le cose come stanno. Di smettere di minimizzare. Di uscire dalla logica tossica dell’“almeno tu hai un lavoro”, “poteva andare peggio”, “ringrazia di essere nato qui”. No. È ora di dire che così non va bene. Che abbiamo diritto a essere ascoltati, rispettati, difesi.
Anche arrabbiati.
Perché la rabbia, quando nasce dalla verità, è il primo segno di risveglio. È il cuore che batte ancora. È la voce che torna. È la speranza che, contro tutto, resiste.
Carlo Di Stanislao