«Non è segno di buona salute essere ben adattati a una società profondamente malata.» Jiddu Krishnamurti 1 agosto 2025. Una data segnata in rosso su tutti i calendari globali. Donald Trump, quel tornado mediatico e politico che pensavamo confinato alla storia, torna in scena con una mossa che suona più come un reboot malriuscito che come una vera resurrezione. La sua minaccia? Dazi del 30% sui prodotti europei. Ma non si tratta solo di cifre: è una rappresaglia culturale travestita da manovra commerciale. Il bersaglio è chiaro: la Germania con le sue fabbriche, l’Italia con la moda, la Francia con i vini, i Paesi Bassi con l’hi-tech, la Svezia con le auto.
E l’Europa? Immobile. Nessuna risposta seria, nessuna contromisura. Solo qualche dichiarazione piatta, un tweet diplomatico, una proposta di controdazi ritirata prima ancora di essere annunciata davvero.
Perché? Perché manca l’unità, il coraggio, la visione.
Il Vecchio Continente ha accettato la propria decadenza.
Il messaggio è evidente: l’Europa non ha un piano B. E forse nemmeno un piano A.
Chi romperà il meccanismo? Chi avrà il coraggio di sparigliare tutto, anche a costo del disastro? Forse solo Donald Trump. Non come salvatore, ma come scheggia impazzita che potrebbe — se davvero lo volesse — imporre dazi del 300%. Un gesto di follia lucida, un tentativo di bloccare la guerra economica silenziosa che i BRICS stanno vincendo. Una scommessa suicida, ma vera. Tutto il resto è teatro.
Nel frattempo, i mercati crollano.
Francoforte perde il 5% appena apre. Il CAC40 a Parigi brucia tre mesi di guadagni in un giorno. A Wall Street, l’S&P 500 registra il peggior tonfo degli ultimi otto anni. Le parole che ricorrono nei bollettini: panico, domino, crash. Il mondo ricco ha perso il controllo, ha smesso di crederci.
E mentre l’Occidente affonda nella paralisi, i BRICS non perdono tempo. Russia, Cina, India, Brasile, Sudafrica e ora altri alleati spingono su valute alternative, accordi strategici, satelliti condivisi, gas in yuan. Non sono democratici, non sono liberali — ma sono coerenti.
E la coerenza oggi vale più della libertà.
E noi, nel frattempo? Siamo occupati a scrollare.
Benvenuti nel capitalismo delle stronzate.
Un sistema che non produce valore, ma solo stimoli.
Non risponde a bisogni, ma crea dipendenze.
Temu, Shein, Alibaba, Amazon ci sommergono di oggetti inutili, come portaspazzolini ninja, tute da divano, coperchi in silicone per angoli invisibili. Il consumatore non è più un cliente: è una cavia.
Temu, in particolare, è sotto inchiesta in Europa. Accuse di manipolazione cognitiva, promozioni addictive, tracciamenti occulti. Ma è troppo tardi: clicchiamo comunque.
Quando l’accumulo diventa troppo, entra in scena il decluttering.
E qui scatta il doppio inganno. Prima ti riempiono la casa. Poi ti vendono il modo per svuotarla.
Marie Kondo ci ha convinti che buttare via ciò che non “dà gioia” sia salvezza.
E così nasce il culto del vuoto: minimalismo da Instagram, bianco, pulito, zen. Se non ce la fai da solo, puoi sempre pagare un decluttering consultant: 300 euro per farti dire che la tua maglietta dei Nirvana è un problema esistenziale.
Ma non ci liberiamo solo degli oggetti: eliminiamo anche le persone.
Via i “tossici”, via chi non porta energia positiva.
Decluttering affettivo.
Alla fine resta solo un loft bianco, una candela profumata e un’ansia sorda.
Il minimalismo come anestesia.
Una solitudine da vetrina.
Intanto, fuori, c’è la guerra.
Non ci tocca ancora, ma la usiamo nei meme.
Una ragazza dice: “Se scoppia una guerra, dove trovo i miei prodotti per capelli?”
È ironia, certo. Ma anche disagio puro.
La guerra è diventata sfondo per contenuti.
Una notifica lontana.
E quando tutto diventa troppo, qualcuno sparisce davvero.
Come Gog Edizioni.
Una casa editrice clandestina, fuori da Amazon, fuori da tutto.
Pubblica otto libri l’anno, senza autore, titolo, copertina.
Resistenza culturale pura.
I loro bollettini — come Preferirei di no — sono manuali di disillusione consapevole.
Il Bestiario numero 24, intitolato SUPER-FLUO, è una raccolta di ritratti feroci, riflessioni sporche, poesia tossica.
La rivista Nemesi non parla di guerra: parla della colpa di chi la guarda da lontano.
Dell’ansia eco-bio mentre gli altri muoiono davvero.
E poi c’è lui: Ettore Amelio.
Poeta. Ultimo. Scomodo.
Ogni numero ospita una sua lirica.
Da Violente sere, una:
“Non è un caso, gli intellettuali ci fanno riflettere.
Ma chi si guarda troppo nello specchio, vede il diavolo.”
E se non il diavolo, allora Aldo Cazzullo.
O Bruno Vespa.
O Roberto Benigni.
Icone zombie di un pensiero che non sa più cosa dire, ma continua a parlare.
E soprattutto — non Geppi Cucciari.
Va bene l’ironia. Va bene il sarcasmo con l’accento sardo. Va bene la battuta sull’Apocalisse.
Ma la risata obbligatoria è un’anestesia.
Sorridere sempre non è resistere: è rimuovere.
Geppi è brava, certo.
Ma a furia di suonare l’orchestrina sul Titanic, diventa colonna sonora del naufragio.
E allora?
Forse niente.
O forse tutto.
Leggere. Spegnere. Ironizzare. Selezionare.
Non per salvarsi. Ma per abitare consapevolmente la monnezza che siamo.
Il declino è certo.
Ma la lucidità è ancora una forma di resistenza.
«Il caos nasce quando ciò che non viene usato continua a occupare lo spazio, a impegnare il tempo e a toglierci energia.»
— Anonimo decluttering consultant (o forse Seneca, in consulenza a 300 euro l’ora).
Carlo Di Stanislao
Foto da Wikipedia