IL DIOGGENE IMPERDIBILE DI STEFANO FRESI



di Mariano Sabatini

Sogno per Stefano Fresi uno di quei ruoli da protagonista assoluto che gli procurino premi e onori. Solo per la miopia degli sceneggiatori, dei registi e dei produttori italiani non l’ha (ancora) avuto. Un ruolo da Oscar, come merita per talento naturale, preparazione e capacità di porgere al pubblico contenuti ed essenza dei personaggi che gli vengono affidati. Finora, al cinema, ha ottenuto perlopiù di diritto i cosiddetti ruoli da caratterista che pure, lo sosteneva l’immenso Mario Monicelli, sono in grado di fare la differenza nella composizione di un cast. L’eccellente Fresi ha vinto, tra gli altri riconoscimenti, un Nastro d’argento per C’è tempo di Walter Veltroni ma uno come lui negli States (e con sceneggiatori, registi e produttori coraggiosi) avrebbe le opportunità di Joe Pesci, Danny De Vito, Brendan Fraser, essendo tra l’altro più bravo di Fraser. 

Penso alla resa indimenticabile di Fresi in pellicole come Io e la Giulia o Smetto quando voglio, in cui ha messo tutta la sua umanità, incisività e sensibilità. La televisione gli ha dato soddisfazioni in più. Ma è in teatro che si esprime al meglio, l’attore e musicista romano, sì perché è anche un eccellente compositore e cantante, spesso in abbinata con la sorella Emanuela, anche lei valentissima attrice, e a Toni Fornari, con i quali diede vita al gruppo Favete Linguis; è sul palcoscenico che Fresi si prende le maggiori soddisfazioni in termini di spazio, messa alla prova e inevitabile conferma di virtuoso istrionismo. 

A tal proposito, se arrivasse dalle vostre parti la pièce Dioggene, scritta e diretta da Giacomo Battiato, non rimandate, non perdetevi l’occasione di andare a spellarvi le mani negli applausi che le platee stanno tributandogli generosamente.  

Lo spettacolo, come si legge nelle note di produzione, è diviso in tre parti (tre quadri) e ruota intorno a un unico personaggio, un attore famoso che si chiama Nemesio Rea. Nel primo quadro, Historia de Oddi, Bifolcho, Nemesio interpreta un proprio testo, scritto in autentico volgare duecentesco. È la storia di un contadino toscano che ha partecipato alla tremendissima battaglia di Montaperti in cui Siena e Firenze si sono scontrate. Nel secondo quadro, L’attore e il buon Dio, troviamo Nemesio nel suo camerino, mentre si veste, apprestandosi ad andare in scena. Ma non è dello spettacolo che ci parla, bensì della appena avvenuta rottura violenta con la moglie, tra pianti, grida e insulti. Nel terzo quadro, Er cane de via der Fosso D’a Maijana, troviamo Nemesio che vive felice in un bidone dell’immondizia. Ha lasciato tutto, la sua professione e la sua vecchia vita. Ha deciso, come il filosofo greco Diogene, di rifiutare ogni ambizione e possesso per essere libero di parlare del vero senso della vita.

Il vero senso della vita, a trovarlo. Ci si può dire fortunati anche solo ad attraversarla indenni, la vita. Con l’inevitabile ultima fermata della morte. Eppure Nemesio ci prova, in un profluvio di parole illuminanti, una slavina di concetti condivisibili, sulla natura umana e le sue mostruosità. Un modo per vedere meglio tutto è allontanarsi, guardare da lontano, magari da una botte, dotata giusto di un foro per la testa. L’autoemarginazione, il fiero isolamento, via dalla pazza folla e nella espressione della propria ragionata follia, possono essere la via privilegiata alla consapevolezza. Se non altro alla realizzazione di sé, senza i condizionamenti della massa tumultuosa. 

Con assoluta grazia Stefano Fresi attraversa il tempo lungo della presenza in solitaria sul palcoscenico, rivelandosi come una scenografia umana che occupa e dilata lo spazio scenico. Teatro fatta persona, giganteggia senza tromboneggiare, da vero mattatore senza mattanza. La sua è una voce di traboccante umanità che si vorrebbe continuare ad ascoltare, con affetto e gratitudine, anche a sipario chiuso, dopo tanti, comprensibili, richiami in proscenio. Ecco perché perdere questo Dioggene dei nostri disgraziati tempi, un Pasquino semovente di brutale e impagabile sincerità, sarebbe un vero peccato.

Fattitaliani

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