Marziano Vicedomini e “Mancanza”: la poesia come spazio interiore da abitare

Pubblicata da La Corte Editore, “Mancanza” è la nuova raccolta di poesie di Marziano Vicedomini, avvocato penalista e autore dalla voce intensa e viscerale. In queste pagine, la parola poetica diventa rifugio e rivelazione, un flusso emotivo che si muove senza vincoli narrativi, sospeso tra la tensione dell’attesa e il vuoto della perdita. Non c’è costruzione razionale, ma un’urgenza istintiva che nasce dall’osservazione quotidiana e dal vissuto interiore, in un costante dialogo con il sé più profondo.

La mancanza che dà titolo al libro non è solo assenza: è spazio emotivo da cui può emergere una nuova forma di presenza, un sentire che precede e segue ogni esperienza. Con questa raccolta, Vicedomini invita il lettore a spogliarsi di ogni maschera e riconoscersi nella fragilità, nella tensione tra l’essere e l’avere, nella consapevolezza della finitezza che rende più intensa ogni cosa vissuta.

Lo abbiamo intervistato per approfondire la genesi del libro, il rapporto tra vita e scrittura, e il potere catartico della poesia.

 

In Mancanza, l’assenza non è solo un vuoto da colmare, ma diventa a sua volta una forma di presenza. Quando hai capito che la poesia poteva trasformare il dolore in parola, e la mancanza in una voce capace di farsi ascoltare?

“Più che capire è stato un agire immediato, senza pensare.

Avevo circa 27 anni e mi sono ritrovato a scrivere in versi senza averlo mai fatto prima, né pensato di farlo e senza la pretesa di scrivere poesie.

Sono stato letteralmente “preso” da un’esigenza insopprimibile ed ho iniziato a scrivere.

Ricordo il luogo, il momento, il periodo, ma non che ci abbia pensato su o che lo abbia deciso razionalmente.

E ricordo che mi piaceva farlo, mi faceva sentire bene, come se riuscissi a dare finalmente un senso alle cose che vivevo e che pensavo della vita.

Il motivo per cui scrivevo credo fosse quello di liberarmi da qualcosa di non vissuto o di non vissuto come avrei voluto, né vivibile nella realtà, di buttare fuori questa sorta di rabbia verso la vita in generale che allora sentivo e la convinzione radicata che le cose che pensavo e volevo dire non le avrebbe capite nessuno, né, soprattutto, interessavano davvero qualcuno.

Alla fine di un componimento, avendo la percezione di aver detto ciò che sentivo davvero, colto qualcosa e di aver trasformato quel “sentire” in un qualcosa di compiuto ( più o meno pregevole non mi interessava) e che avessi creato e “intrappolato” nel componimento quel mio stato d’animo, mi dava gratificazione e un senso di pace, seppur momentanea.

Da allora sapevo che avevo dentro di me una sorta di “terapia anti vita”.

Anche se, poi, ho ripreso a scrivere solo dopo 25 anni.

Ma questa è un’altra storia.”

Il titolo della raccolta è essenziale, ma potentemente evocativo. Che tipo di “mancanza” abita i tuoi versi: è una perdita concreta, un vuoto interiore o una tensione verso qualcosa che non è mai stato?

“Per me iniziare qualcosa è iniziare una fine.

La mancanza che permea le poesie del libro potrei definirla come quella dimensione emotiva spazio-temporale che precede un inizio e che segue la fine di ciò che si è iniziato a vivere.

Uno spazio emotivo preesistente e successivo, nel mezzo il vero sentire momentaneo, mentre lo vivi.

Se l’inizio di ogni cosa, anche della stessa vita, è l’inizio della fine, - e per me è così in tutto -, la mancanza è essa stessa attesa di ciò che stai per iniziare a vivere e nostalgia perché è finito.

Sempre c’è una sensazione di privazione e di irrisolto di quello che non vivi (che ti possiede perché vorresti viverlo e non riesci) e di finitezza di ciò che riesci a vivere, perché in tutto, secondo me, si può percepire, anche inconsciamente, una strisciante consumazione che poi sfocia nelle finitezza.

Certo, si può trasformare, come il più delle volte accade nei sentimenti, ma è altro da ciò per cui hai iniziato.

Questa consapevolezza non toglie alle cose che vivo bellezza, anzi ne moltiplica l’intensità.

Se pensassimo più spesso alla morte, vivremmo tutto con maggiore intensità e sacralità”

Nella sinossi si parla di una domanda che abita tutta l’opera: essere o avere? Come si declina questa dicotomia nella tua scrittura poetica, e come pensi che possa parlare al lettore di oggi?

“Al riguardo, farei leggere e, soprattutto, capire ai ragazzi in formazione un testo che per me è stato molto formativo ed illuminante:

“Avere o essere?” di Erich Fromm.

Poi a loro la scelta di come vivere.

É il bivio che la vita ci pone tra “essere” ciò che sei e seguire il tuo reale sentire o violentarti, inconsapevolmente, pur di “avere” ciò che lo schema culturale del tempo ti fa sembrare come il modello da seguire e cui aderire.

Vuoi cibare il tuo ego all’ infinito o ucciderlo e capire chi sei, come sei e realizzarti ?

Morire senza essersi mai conosciuti e sperimentati è una beffa per me atroce. ( ma forse riservata solo a chi si pone queste domande)

Al lettore non voglio dir nulla, anche perché la mia scrittura è spontanea e non predeterminata verso dei temi specifici.

Non obbedisce a metriche, né a temi predefiniti.

Non scrivo per insegnare, se mai ne fossi capace, qualcosa a qualcuno, scrivo perché sento di farlo e mi fa stare meglio.

E credo che, inevitabilmente, in quello che scrivo ci sia il mio modo di intendere la vita: viversi totalmente, non oggettivizzare anche le emozioni, ma viverle secondo la propria naturale inclinazione.

Cercare e assecondare il proprio vero sé stesso.”

Spesso nei tuoi componimenti si percepisce una sorta di bilanciamento tra dolore individuale e sofferenza collettiva, tra privato e universale. Quanto la tua esperienza personale influisce sulle immagini che scegli di evocare?

Totalmente, la mia unica fonte d’ispirazione è l’osservazione delle cose della vita, la riflessione sulle stesse ed il mio personale vissuto interiore.

Le letture possono dare a volte uno spunto, possono essere momenti di conforto a ciò che pensi o illuminarti su alcuni modi di vedere le cose.

Ma ciò che mi ispira è la vita in sé, il mio personale vissuto, l’osservazione quotidiana e le mie riflessioni costanti tra me e me.

Nella poesia “Mancanza”, ad esempio, ne parlo e dico che non sono io a decidere cosa, come e quando scrivere, ma è “lei” (dico lei in modo figurato) che decide di scriversi, decidendo cosa, come equando.

Tutte le cose che ho scritto le ho scritte senza deciderlo al momento, ma sempre e solo a seguito di un’ intuizione nata in modo estemporaneo e, ovunque mi trovi, mi fermo e scrivo.

Il sentire individuale e collettivo credo che dipenda dall’empatia con l’umano.

Lev Tolstoj dice:

“Se senti dolore, sei vivo.

Se senti il dolore degli altri sei un essere umano”

A me viene naturale cercare di capire e sentire chi ho di fronte o le persone con cui, a vario titolo, mi relaziono.

La poesia può davvero “colmare uno spazio”, come scrivi nella sinossi? E se sì, quale tipo di spazio hai cercato di riempire scrivendo Mancanza?

E’ una forma di compensazione ideale dalle brutture della realtà

In questo senso credo che colmi lo spazio tra il vero sé stesso e quello che la vita ti consente di vivere.

Certamente conforta quando la leggi e “svuota” catarticamente chi la scrive di tutto ciò che, consciamente e inconsciamente, l’autore accumula e che chiede di vivere nella scrittura.

Di certo, la poesia, con la sua potenza evocativa, sublima ed ha una sua funzione direi “balsamica” per l’animo umano,  contro le ferite e i dolori che la vita, inevitabilmente, infligge.

Basti pensare della consapevolezza di essere mortali e d’ istinto cerchi di trovare ristoro in altro che non sia materia che deperisca.

 

 

Fattitaliani

#buttons=(Accetta) #days=(20)

"Questo sito utilizza cookie di Google per erogare i propri servizi e per analizzare il traffico. Il tuo indirizzo IP e il tuo agente utente sono condivisi con Google, unitamente alle metriche sulle prestazioni e sulla sicurezza, per garantire la qualità del servizio, generare statistiche di utilizzo e rilevare e contrastare eventuali abusi." Per saperne di più
Accept !
To Top