Ecco le motivazioni che portano a questa mostra, che si compone di due parti, entrambe imitative, ma in senso opposto, l’una compenetrata nell’altra: in una prima, de Filippis imita la grande arte del passato, opere di autori, famosissimi come Hopper oppure ignoti, che sono entrati dentro i suoi occhi, costituendo un modello estetico non solo formale, ma tecnico-compositivo. Non si tratta di copie vere e proprie, poiché in tutti i dipinti di questa serie c’è un elemento non presente nella versione originale: il fuoco, elemento purificante ed effimero, distruttivo ma simbolo primo della civilizzazione. Questo elemento iconografico è ricorsivo e ridondante, come il martellante “Do” di Schumann, e costituisce l’elemento di riconoscibilità di quella completezza che nel tutto del catalogo di de Filippis potrebbe non essere altrettanto visibile.
La seconda parte è dedicata a de Filippis che imita se stesso, in un percorso introspettivo che ripercorre tutte le tappe della sua produzione, dalla pittura monocromatica per sottrazione di Vae Victis alla tavolozza cromatica acida di Gocce di Sole; dalle ambientazioni astanti dei Frammenti di Memoria alle aniline dell’iconica Figura.
Un’imitazione a doppio percorso che guarda la storia, dell’arte in senso generale e quella di de Filippis strictu sensu, che pone la riflessione sulla completezza guardando a un’alterità intimissima.
Completa il percorso una istallazione composta da un obelisco, eseguito nel 2012, assurto come monumento di potere in qualsiasi tempo e in qualsiasi società; un potere immobile e immutabile, in grado di intimorire per la sola presenza, un simbolo su cui ogni nazione, in un determinato momento della storia, ha riversato regole e divieti, sempre diversi, immancabilmente simili.
https://www.valeriodefilippis.com/
Il crinale della Mimesis
Il demone che anima ogni essere umano è una elaborazione
robusta e molto complessa che viene costruita, a volte in modo totalmente
inconsapevole, ogni minuto di vita consumata. È il risultato dell’ambiente
sociale e culturale nel quale nasce e cresce l’essere umano, ma anche di quella
innata inclinazione inconoscibile, forse insita nella struttura fisica più
intima, forse coincidente con quella che molti chiamano anima; ma come in ogni
fenomeno di pensiero complesso, la somma delle parti non restituisce il totale,
ma qualcosa di meno. In anni e anni di ricerca estetica, il demone artistico di
Valerio de Filippis è cresciuto, si è trasformato, è diventato altro, si è
arenato e addirittura annullato, generando una serie di elementi che da soli
contengono una parte del tutto e tutti insieme non raggiungono la completezza.
Se a questo si aggiunge la dimensione temporale, che inevitabilmente fa
dimenticare se non i significati, almeno l’urgenza attraverso la quale si è
costruita la dimensione della creatività, il senso di disorientamento può far
perdere la propria identità. Forse per questa impossibilità di completezza e
perfetta definizione che, di tanto in tanto, si sente la necessità di una
sospensione, di ricomporre tutti i frammenti che il tempo ha prodotto per cercare
di carpirne l’unità, per intuire quel tutto che costantemente sfugge. In questa
disperata operazione di comprensione, avviene il disvelamento di ciò che è
stato un percorso coerente, mai abbandonato, che ha guidato un percorso
importante e necessario; questo disvelamento avviene sempre, a patto che la
ricerca che si è intrapresa sia stata sincera.
Ecco le motivazioni che portano a questa mostra, che si
compone di due parti, entrambe imitative, ma in senso opposto, l’una
compenetrata nell’altra: in una prima, de Filippis imita la grande arte del
passato, opere di autori, famosissimi come Hopper oppure ignoti, che sono
entrati dentro i suoi occhi, costituendo un modello estetico non solo formale,
ma tecnico-compositivo. Non si tratta di copie vere e proprie, poiché in tutti
i dipinti di questa serie c’è un elemento non presente nella versione
originale: il fuoco, elemento purificante ed effimero, distruttivo ma simbolo
primo della civilizzazione. Questo elemento iconografico è ricorsivo e
ridondante, come il martellante “Do” di Schumann, e costituisce l’elemento di
riconoscibilità di quella completezza che nel tutto del catalogo di de Filippis
potrebbe non essere altrettanto visibile.
La seconda parte è dedicata a de Filippis che imita se
stesso, in un percorso introspettivo che ripercorre tutte le tappe della sua
produzione, dalla pittura monocromatica per sottrazione di Vae Victis alla
tavolozza cromatica acida di Gocce di Sole; dalle ambientazioni astanti dei
Frammenti di Memoria alle aniline dell’iconica Figura.
Un’imitazione a doppio percorso che guarda la storia,
dell’arte in senso generale e quella di de Filippis strictu sensu, che pone la
riflessione sulla completezza guardando a un’alterità intimissima.
Completa il percorso una installazione composta da un obelisco, eseguito nel 2012, assurto come monumento di potere in qualsiasi tempo e in qualsiasi società; un potere immobile e immutabile, in grado di intimorire per la sola presenza, un simbolo su cui ogni nazione, in un determinato momento della storia, ha riversato regole e divieti, sempre diversi, immancabilmente simili.
Cecilia Paolini (storico
dell’arte)