Valerio De Filippis a Fattitaliani: L'arte apre le porte a enigmi irrisolvibili. L'intervista

Fattitaliani

Dal 17 dicembre 2022 al 13 gennaio 2023 la galleria Art GAP, a due passi da Largo di Torre Argentina, è lieta di accogliere la personale “Il crinale della mimesis” di Valerio De Filippis, a cura di Cecilia Paolini. La mostra verrà inaugurata sabato 17 dicembre 2022 alle ore 18:00. L'intervista di Fattitaliani all'artista.

Come spiegherebbe a chi si avvicina all’arte la sua mostra “Il crinale della Mimesis”?
Si tratta di un’esposizione non unitaria, a differenza di quasi tutte le altre mostre che ho tenuto; infatti, mentre queste ultime sono state presentazioni di quadri di uno specifico tema, “Il crinale della Mimesis” comprende 29 quadri che vanno dal 2007 al 2022. Si potrebbe definire una mostra antologica, ma non è stata questa l’intenzione. In realtà ho ripercorso alcune tappe nelle quali le differenze nella tecnica sono molto evidenti. Poi queste tappe sono state rielaborate con nuovi soggetti dipinti quest’anno, nel senso di un confronto con me stesso.
Quali sono stati i suoi motivi ispiratori nel tempo? Sono cambiati?
Sono cambiati di continuo. Negli anni 2000, ad esempio, prendevano le mosse  dalla cronaca relativa ai comportamenti dis-umani aberranti. E’ seguito un periodo di ricerca sperimentale fondato unicamente sulla ricerca della cifra stilistica personale propriamente detta. Poi due cicli basati sulle memorie di esperienze di vita. Ancora, un ciclo sui “vinti”, soggetti emarginati dalla società. Un altro sulla perdita dell’identità. E diversi altri ancora, in 42 anni di attività pittorica. Il motore di ogni ciclo naturalmente è sempre partito dall’urgenza espressiva originata dal turbamento di quel dato periodo. Mai committenze, mai quadri di “tendenza” a scopo di compiacere e/o vendere.
Tornando indietro, riconosce un’evoluzione nella sua tecnica? 
Certamente c’è stata un’evoluzione tecnica: iniziai a 20 anni copiando ogni quadro che mi piaceva, poi sperimentai la tecnica iperrealista. Col passare del tempo compresi che l’obiettivo supremo, quanto ambizioso, era quello di fondere la figurazione con l’astrattismo. In altre parole, non più rappresentare, ma evocare: l’evocazione di un qualcosa di riconoscibile come oggetto o come corpo che prende forma da un magma di colore astratto, in senso onirico, diventò -a partire dal 2003- la mia ossessione. Alcuni risultati sono sicuramente apprezzabili.
Cosa si augura che il visitatore possa provare nell’ammirare le sue opere?
Che provi il “perturbante”, ovvero quel senso di spaesamento e di vertigine che si prova, ad esempio, nel guardare “L’isola dei morti” del Böcklin. 
L’arte che posto occupa ai giorni nostri secondo Lei?
L’arte occupa ancora un posto importante, ma con le dovute differenze nel tempo. Mentre nell’antica Grecia l’arte del teatro era vissuta dalla gran parte della società come pellegrinaggio religioso alla ricerca di se stessi attraverso la Tragedia, oggi credo sia molto forte negli artisti dire qualcosa che a parole non si può più dire senza essere emarginati. E così anche la fruizione dell’arte è caratterizzata dalla stessa logica. Poi c’è l’entertainment, che viene confuso con l’arte, ma quello non ci riguarda. L’artista opera perché quello che già esiste non gli basta. Dipinge quello che non si sa e che egli stesso non sa di un oggetto o di un corpo, non quello che possono dire immagini o parole, ma qualcosa di non visto e di inatteso per sé e per gli altri. Dunque apre le porte a rivelazioni e allo stesso tempo a enigmi irrisolvibili. Giovanni Zambito.


LA MOSTRA
Il demone che anima ogni essere umano è una elaborazione robusta e molto complessa che viene costruita, a volte in modo totalmente inconsapevole, ogni minuto di vita consumata. È il risultato dell’ambiente sociale e culturale nel quale nasce e cresce l’essere umano, ma anche di quella innata inclinazione inconoscibile, forse insita nella struttura fisica più intima, forse coincidente con quella che molti chiamano anima; ma come in ogni fenomeno di pensiero complesso, la somma delle parti non restituisce il totale, ma qualcosa di meno. In anni e anni di ricerca estetica, il demone artistico di Valerio de Filippis è cresciuto, si è trasformato, è diventato altro, si è arenato e addirittura annullato, generando una serie di elementi che da soli contengono una parte del tutto e tutti insieme non raggiungono la completezza. Se a questo si aggiunge la dimensione temporale, che inevitabilmente fa dimenticare se non i significati, almeno l’urgenza attraverso la quale si è costruita la dimensione della creatività, il senso di disorientamento può far perdere la propria identità. Forse per questa impossibilità di completezza e perfetta definizione che, di tanto in tanto, si sente la necessità di una sospensione, di ricomporre tutti i frammenti che il tempo ha prodotto per cercare di carpirne l’unità, per intuire quel tutto che costantemente sfugge. In questa disperata operazione di comprensione, avviene il disvelamento di ciò che è stato un percorso coerente, mai abbandonato, che ha guidato un percorso importante e necessario; questo disvelamento avviene sempre, a patto che la ricerca che si è intrapresa sia stata sincera.

Ecco le motivazioni che portano a questa mostra, che si compone di due parti, entrambe imitative, ma in senso opposto, l’una compenetrata nell’altra: in una prima, de Filippis imita la grande arte del passato, opere di autori, famosissimi come Hopper oppure ignoti, che sono entrati dentro i suoi occhi, costituendo un modello estetico non solo formale, ma tecnico-compositivo. Non si tratta di copie vere e proprie, poiché in tutti i dipinti di questa serie c’è un elemento non presente nella versione originale: il fuoco, elemento purificante ed effimero, distruttivo ma simbolo primo della civilizzazione. Questo elemento iconografico è ricorsivo e ridondante, come il martellante “Do” di Schumann, e costituisce l’elemento di riconoscibilità di quella completezza che nel tutto del catalogo di de Filippis potrebbe non essere altrettanto visibile.

La seconda parte è dedicata a de Filippis che imita se stesso, in un percorso introspettivo che ripercorre tutte le tappe della sua produzione, dalla pittura monocromatica per sottrazione di Vae Victis alla tavolozza cromatica acida di Gocce di Sole; dalle ambientazioni astanti dei Frammenti di Memoria alle aniline dell’iconica Figura.

Un’imitazione a doppio percorso che guarda la storia, dell’arte in senso generale e quella di de Filippis strictu sensu, che pone la riflessione sulla completezza guardando a un’alterità intimissima.

Completa il percorso una istallazione composta da un obelisco, eseguito nel 2012, assurto come monumento di potere in qualsiasi tempo e in qualsiasi società; un potere immobile e immutabile, in grado di intimorire per la sola presenza, un simbolo su cui ogni nazione, in un determinato momento della storia, ha riversato regole e divieti, sempre diversi, immancabilmente simili.

https://www.valeriodefilippis.com/


Il crinale della Mimesis

Il demone che anima ogni essere umano è una elaborazione robusta e molto complessa che viene costruita, a volte in modo totalmente inconsapevole, ogni minuto di vita consumata. È il risultato dell’ambiente sociale e culturale nel quale nasce e cresce l’essere umano, ma anche di quella innata inclinazione inconoscibile, forse insita nella struttura fisica più intima, forse coincidente con quella che molti chiamano anima; ma come in ogni fenomeno di pensiero complesso, la somma delle parti non restituisce il totale, ma qualcosa di meno. In anni e anni di ricerca estetica, il demone artistico di Valerio de Filippis è cresciuto, si è trasformato, è diventato altro, si è arenato e addirittura annullato, generando una serie di elementi che da soli contengono una parte del tutto e tutti insieme non raggiungono la completezza. Se a questo si aggiunge la dimensione temporale, che inevitabilmente fa dimenticare se non i significati, almeno l’urgenza attraverso la quale si è costruita la dimensione della creatività, il senso di disorientamento può far perdere la propria identità. Forse per questa impossibilità di completezza e perfetta definizione che, di tanto in tanto, si sente la necessità di una sospensione, di ricomporre tutti i frammenti che il tempo ha prodotto per cercare di carpirne l’unità, per intuire quel tutto che costantemente sfugge. In questa disperata operazione di comprensione, avviene il disvelamento di ciò che è stato un percorso coerente, mai abbandonato, che ha guidato un percorso importante e necessario; questo disvelamento avviene sempre, a patto che la ricerca che si è intrapresa sia stata sincera.

Ecco le motivazioni che portano a questa mostra, che si compone di due parti, entrambe imitative, ma in senso opposto, l’una compenetrata nell’altra: in una prima, de Filippis imita la grande arte del passato, opere di autori, famosissimi come Hopper oppure ignoti, che sono entrati dentro i suoi occhi, costituendo un modello estetico non solo formale, ma tecnico-compositivo. Non si tratta di copie vere e proprie, poiché in tutti i dipinti di questa serie c’è un elemento non presente nella versione originale: il fuoco, elemento purificante ed effimero, distruttivo ma simbolo primo della civilizzazione. Questo elemento iconografico è ricorsivo e ridondante, come il martellante “Do” di Schumann, e costituisce l’elemento di riconoscibilità di quella completezza che nel tutto del catalogo di de Filippis potrebbe non essere altrettanto visibile.

La seconda parte è dedicata a de Filippis che imita se stesso, in un percorso introspettivo che ripercorre tutte le tappe della sua produzione, dalla pittura monocromatica per sottrazione di Vae Victis alla tavolozza cromatica acida di Gocce di Sole; dalle ambientazioni astanti dei Frammenti di Memoria alle aniline dell’iconica Figura.

Un’imitazione a doppio percorso che guarda la storia, dell’arte in senso generale e quella di de Filippis strictu sensu, che pone la riflessione sulla completezza guardando a un’alterità intimissima.

Completa il percorso una installazione composta da un obelisco, eseguito nel 2012, assurto come monumento di potere in qualsiasi tempo e in qualsiasi società; un potere immobile e immutabile, in grado di intimorire per la sola presenza, un simbolo su cui ogni nazione, in un determinato momento della storia, ha riversato regole e divieti, sempre diversi, immancabilmente simili.

                                                                                                                                       Cecilia Paolini (storico dell’arte)


Fattitaliani

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