Opera, Antonio Poli: Luisa Miller, il personaggio di Rodolfo, le emozioni. L'intervista di Fattitaliani

Fattitaliani

 


Con la replica del 17 febbraio al Teatro dell'Opera di Roma è calato il sipario su Luisa Miller di Giuseppe Verdi, non così nota al grande pubblico e generalmente poco rappresentata. Uno spettacolo emozionante con la direzione musicale di Michele Mariotti, la regia di Damiano Michieletto, le scene di Paolo Fantin e un ottimo cast che ha dato vita e voce ai protagonisti. Il pubblico ha gradito e applaudito Michele Pertusi (conte di Walter), Roberta Mantegna (Luisa), Enkhbatyn Amartüvshin (Miller) e il tenore Antonio Poli, intervistato da Fattitaliani
Luisa Miller è un'opera bellissima ma ancora non conosciutissima. Si rappresenta meno frequentemente delle altre verdiane. Perché?
Luisa Miller per me è una delle opere più belle del repertorio verdiano, una delle più complicate per tutti i personaggi: il primo Verdi è sempre una scrittura impervia per le voci. Si rappresenta poco semplicemente per vari motivi; forse, quello più importante è la rarità di poter trovare voci che riescano a fare questi ruoli che risultano difficili e dunque non è facile trovare un cast che possa fare quest’opera. La seconda difficoltà è portare pubblico a teatro per un’opera che non ha temi così famosi come le altre e sicuramente i teatri si fanno un po’ di scrupoli per questo. È un peccato, perché secondo me è un’opera molto facile da ascoltare e chi è venuto a sentirmi all’Opera di Roma mi ha detto che non ci sono stati momenti morti e di noia. Anzi, la trama si seguiva benissimo.
Come ti sei rapportato al tuo personaggio. In che maniera lo hai reso tuo?
Innanzitutto ho studiato benissimo sia la trama che la musica e a un certo punto ho cercato di portare il personaggio nella mia vita, cercando cioè di capire come avrei reagito io di fronte alla gelosia, all’imposizione del padre che lo voleva sistemato con un’altra donna, il rifiuto verso Federica e il dolore dopo aver saputo che Luisa aveva preferito un altro uomo. E poi nel finale tutta la foga per capire se le cifre della lettera fossero le sue e la voglia di avvelenarsi e avvelenare Luisa, di morire insieme e di averla ancora una volta nella sua vita in maniera definitiva, senz’alcun intralcio da parte di nessuno. Ho cercato di rendere le reazioni del personaggio più vere possibili in palcoscenico, l’elemento che io reputo più importante: solo così il pubblico lo apprezza veramente. È un lavoro su cui si deve impegnare tanto un cantante, che deve essere un cantante-attore.
In quali aspetti ti hanno aiutato rispettivamente la regia, la direzione musicale e la scenografia?
Ammiro tantissimo Damiano Michieletto con cui ho fatto più spettacoli e lavorato in un Elisir d’amore ambientato su una spiaggia dove Nemorino faceva di tutto e mi sono molto divertito. Qua, con un'ambientazione negli anni Trenta con costumi molto eleganti e una scenografia molto bella e caratteristica, abbiamo lavorato più sulla teatralità del personaggio: la scenografia ci ha aiutato relativamente perché non era ricchissima a livello visivo, ma aveva il palcoscenico girevole e ogni volta vedevamo una scena diversa. Per esempio, era suggestivo vedere Luisa e Rodolfo da bambini, come si sono incontrati e innamorati, e vederli poi nello scenario adulto. Abbiamo lavorato sulle emozioni, sul teatro vero che io definirei di prosa perché con Damiano si lavora molto su quello ed è forse la parte più bella perché stare in palcoscenico, fare un concertato fermi e pensare soltanto al canto è facile, rendere un personaggio vero è più complicato. Dalla parte musicale, ho avuto la grande gioia di lavorare ancora con il Maestro Mariotti, con cui avevo fatto solo concerti o lavori sinfonici, ma mi ero subito accorto di quanta empatia ci fosse tra noi e di quanto il Maestro insistesse su tirare fuori da me tutto quello che potevo avere. Lui è molto esigente, ti porta all’estremo delle tue possibilità ma lo fa perché sa che lo può fare, e perché vuole veramente creare qualcosa di straordinario; devo dire che il lavoro sull’aria “Quando le sere al placido chiaror d'un ciel stellato" è stato strabiliante: quello che è riuscito a fare lui con l’orchestra e io spero vocalmente è stato un binario meraviglioso: lo ringrazio pubblicamente per questo. Un’esperienza per me indimenticabile…

Nell'aria "Quando le sere al placido chiaror d'un ciel stellato" hai sfoderato una voce profonda e delicata eppure allo stesso tempo addolorata, coerentemente al senso del testo. Quanto ti ha personalmente coinvolto?
In questa opera il tenore, sebbene non protagonista, credo abbia una delle più belle pagine musicali del panorama verdiano. Posso accostare a quest’aria quella de “Il ballo in maschera”: già quando la studiavo prima di eseguirla in forma concertante l’anno scorso durante il periodo Covid, la sentivo a pennello alla prima prova come un vestito comodo, l’ho sempre sentita mia senza difficoltà di emissione o nel trovare colori diversi. C’è tutto in quest’aria: la rabbia del tradimento, la gelosia, il dolore e la rassegnazione, il ricordo di tutto quello che Rodolfo e Luisa hanno condiviso e io ho cercato di portare questo in quattro minuti di aria recitativo. Non è facile perché bisogna sempre mantenere il legato, la linea musicale e bisogna farlo come se davanti avessimo un quadro, una tavolozza di colori e scegliere il colore giusto al momento giusto. Devo dire che questo è stato possibile - come già detto - grazie al lavoro fatto con il Maestro Mariotti che mi ha chiesto molto lavoro sulla parola, visto che l’aria si regge sulla melodia nell’arabesco di clarinetti e basta, non ha bisogno d’altro. Il canto di Rodolfo vi si deve accostare senza togliere quell’effetto di bella cantilena che Verdi ha composto sull’area. E penso che ci siamo riusciti: mi hanno detto che in teatro durante l’aria non volava una mosca, c’era un silenzio incredibile e infatti alla fine è scattato il boato di applausi e di “bravo” che avrei tanto desiderato. Sono dunque molto felice e mi ha coinvolto tanto: quando ho finito l’aria, sono andato in camerino e avevo quasi un groppo alla gola e mi veniva quasi da piangere.
Se potessi dire qualcosa al tuo personaggio che cosa gli diresti?
Scherzando gli direi “Stai manzo perché invece di fare scenate e di avvelenarti e avvelenarla, chiedi qualche spiegazione in più, non basarti soltanto su una firma di contratto matrimoniale”. Rodolfo mi ricorda un poco Edgardo della “Lucia di Lammermoor”: un uomo molto impulsivo cui servirebbe un po’ di calma per capire che le cose non sono come appaiono. Lo ringrazierei pure per le emozioni che mi dona e per tutti i passaggi difficili che ha (ride, ndr).
Che esercizi fai per tenerti vocalmente in forma?
Io normalmente studio dalle quattro alle sei settimanali e più tutti gli esercizi vari complementari al canto, studi musicali e quant’altro: vado a lezione dalla mia insegnante, lavoriamo tecnicamente su vocalizzi e tutti gli esercizi che servono per la muscolatura e per la crescita tecnica e vocale, e poi chiaramente sullo stile con lei e il pianista che mi accompagna. Ho avuto una formazione impeccabile anche con Alfonso Antoniozzi per sedici anni in cui ha cercato sempre di trasmettermi l’amore per l’arte, non solo la parte vocale, di avere una bella voce ma anche di essere un artista sul palcoscenico. Cerco di studiare con questa ottica. Alla fine delle performance c’è bisogno di riposo e svago: anche quello è studio, perché il cervello elabora e studia anche quando crediamo di non fare nulla.
Pensando alla tua carriera, ci vedi più sacrifici o soddisfazioni?
Anni fa ti avrei risposto che ci sono tanti sacrifici e tante privazioni, la vivevo con più ansia e stress. Poi con l’esperienza e con il lavoro su me stesso, questa percezione è cambiata e diciamo che i sacrifici li vivo come una cosa che c’è e basta, perché è il mio mestiere: non potrei e non vorrei fare altro. Sono concentrato su quello che faccio, è un mestiere bellissimo, un lavoro che mi sono scelto e che amo, e questo già è un grandissimo vantaggio. Certo, si è più esposti al rischio e alla competizione, allo stare davanti al pubblico ma alla fine il gioco vale la candela: non vorrei essere in nessun altro posto se non in palcoscenico a fare questo mestiere che mi dà così tante soddisfazioni.
Condividi con noi i tuoi prossimi progetti?
Sarò a Venezia per “I Lombardi alla prima crociata” di Verdi: un evento per me molto significativo perché l’opera non viene rappresentata alla Fenice proprio dalla sua prima rappresentazione del 1844, sarà dunque una prima importante con un folto pubblico di esperti e non, che ci verrà ad ascoltare. Sono felice di far parte di questa produzione, in un teatro che mi ha dato la possibilità di intraprendere i primi passi. Dopodiché sarò a Trieste per una nuova produzione di “Rigoletto”, poi allo Sferisterio di Macerata per “Tosca” nel ruolo di Caravadossi; di nuovo alla Fenice per “Trovatore” e poi debutterò a Parma, Piacenza e Modena con il “Mefistofele” di Boito. Giovanni Zambito.

Fattitaliani

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