La 29^ puntata dei Romanzi da leggere online è dedicata al settimo capitolo de “Il sosia” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. In copertina: Karel Appel (Amsterdam 1921 - Zurigo 2006) “Nu”, 1962, olio su tela.
IL SOSIA | Poema
pietroburghese
Capitolo 7°.
Si riprese un po' quando si trovò sulla scala,
nell'entrare nel suo appartamento. "Ah, che testa di montone!" si
insultò mentalmente, "dove diavolo lo porto? Vado a impiccarmi da solo...
Cosa penserà mai Petruska nel vederci insieme? Che
cosa avrà ora l'audacia di gabolare, quel mascalzone? e lui è un tipo
sospettoso..." Ma ormai era troppo tardi per pentirsi; Goljadkin bussò, la
porta si aprì e subito Petruska cominciò a togliere il cappotto all'ospite e al
padrone. Goljadkin diede un'occhiata di sbieco a Petruska, gli lanciò appena
uno sguardo rapido, cercando, attraverso l'espressione del viso, di scoprirne i
pensieri. Ma, con suo enorme stupore, vide che il suo domestico era mille
miglia lontano dal mostrarsi meravigliato: sembrava
addirittura che si aspettasse qualcosa di simile.
Naturalmente ora guardava in cagnesco, di traverso e sembrava pronto a divorare
chi sa chi.
"Sta a vedere che qualcuno oggi li ha stregati
tutti!" pensava il nostro eroe, "che qualche demonio abbia fatto il
giro? Senza dubbio oggi c'è in tutti qualcosa di particolare. Che il diavolo mi
porti, è un bel tormento!" Ecco che, continuando a rimuginare in tal modo,
Goljadkin portò l'ospite nella sua stanza e lo pregò umilmente di accomodarsi.
L'ospite, era chiaro, era in grandissimo imbarazzo e,
intimidito, seguiva umilmente tutti i movimenti del padrone di casa, si
attaccava a ogni suo sguardo e sembrava che cercasse di indovinarne i pensieri.
In tutti i suoi gesti c'era qualcosa di avvilito, di abbattuto, di spaventato,
tanto che, se potrà valere il paragone, assomigliava in quel momento a un uomo
che, non avendo un abito suo, indossasse quello di un altro: le maniche gli
salgono in alto, la vita arriva quasi alla nuca e lui, ora non fa che
aggiustarsi il panciotto troppo corto, ora dà di fianco e si sposta da una
parte, ora studia il momento giusto per rintanarsi in qualche angoletto, ora
fissa gli occhi su tutti e tende l'orecchio se mai qualcuno non accenni alla
sua condizione, non rida alle sue spalle e non si vergogni di lui... e
quest'uomo si sente avvampare, quest'uomo si smarrisce, e il suo orgoglio ne
soffre... Goljadkin posò il cappello sulla finestra; per un movimento brusco il
cappello cadde sul pavimento. L'ospite si precipitò a raccoglierlo, lo ripulì
dalla polvere, lo rimise con attenzione al posto di prima e il suo lo posò sul
pavimento, vicino alla sedia, sul cui bordo lui stesso si era timidamente messo
a sedere. Questa circostanza, apparentemente insignificante, aprì in parte gli
occhi a Goljadkin; comprese che c'era un gran bisogno di lui e perciò non
indugiò più a lambiccarsi il cervello sul modo di attaccare discorso col suo
visitatore, lasciando che lui stesso, come si conveniva, si prendesse questa
briga. L'ospite però, da parte sua, non cominciava nemmeno lui, sia per
timidezza sia per un leggero senso di vergogna, sia perché, per educazione,
aspettava l'iniziativa del padrone di casa. Chi lo sa? era difflcile capirci
qualcosa. In questo momento entrò Petruska, si fermò sulla soglia e fissò lo
sguardo sulla parte perfettamente opposta a quella in cui si trovavano l'ospite
e il suo padrone.
"Mi ordinate di prendere il pranzo per due?"
disse con indifferenza e con voce leggermente rauca.
"Io... io non so... voi... Sì, caro, sì, prendine
per due." Petruska uscì. Goljadkin guardò l'ospite. Era diventato rosso
fino alle orecchie. Goljadkin era un brav'uomo e perciò, per bontà d'animo,
improvvisò subito una teoria:
"Poveraccio" pensava, "ha il posto solo
da un giorno; a suo tempo avrà certamente sofferto: forse, l'unica sua
proprietà è un vestituccio decente, e non avrà di che mangiare. Ma guarda un
po' com'è abbattuto! No, non fa niente; da un certo punto, anzi, è
meglio..." "Scusatemi, se io..." cominciò Goljadkin "ma, a
proposito, permettete che vi chieda come vi devo chiamare..." "Io...
Io... Jakòv Petrovic'" mormorò appena percettibilmente l'ospite, come
mortificato e quasi vergognandosi e chiedendo scusa di chiamarsi anche lui
Jakòv Petrovic'.
"Jakòv Petrovic'!" ripeté il nostro eroe,
incapace di nascondere il suo turbamento.
"Sì, signore, proprio così... Sono un vostro
omonimo" rispose pieno di umiltà il visitatore, osando sorridere e dire
qualcosa in tono scherzoso. Ma subito si ammosciò e assunse un aspetto serio e
un po' anche turbato, essendosi accorto che il padrone di casa aveva proprio
altro per la testa che gli scherzi.
"Voi... permettetemi che vi chieda per quale
motivo ho l'onore..." "Conoscendo la vostra magnanimità e le vostre
virtù," lo interruppe l'ospite rapidamente, ma in tono timido, alzandosi
un po' dalla sedia "ho osato rivolgermi a voi e sollecitare la vostra...
conoscenza e la vostra protezione" concluse l'ospite, evidentemente
faticando a trovare le espressioni, scegliendo parole non troppo servili e
adulatrici, per non compromettersi dal punto di vista dell'amor proprio, ma
nemmeno troppo audaci, che avrebbero richiamato al pensiero una sconveniente
parità. In genere bisogna dire che l'ospite di Goljadkin si comportava come un
accattone di buona famiglia, in un frac tutto rammendi e con un passaporto in
tasca intestato a un nobile, non ancora familiarizzatosi col modo di tendere la
mano come si conviene.
"Voi mi sconcertate" rispose Goljadkin,
guardando se stesso, e le pareti, e l'ospite; "in che cosa potrei io...
cioè, voglio dire, sotto quale punto di vista posso esattamente esservi utile
in qualche cosa?" "Io, Jakòv Petrovic', mi sono sentito attratto da
voi fin dal primo sguardo e, siate generoso e perdonatemi, ho riposto in voi le
mie speranze, ho osato sperare, Jakòv Petrovic'. Io... io sono qui un uomo
sperduto, Jakòv Petrovic', sono povero, ho sofferto molto, Jakòv Petrovic', e
qui sono ancora nuovo. Avendo saputo che voi, oltre le comuni, innate virtù
della vostra anima eletta, avete anche il mio cognome..." Goljadkin
aggrottò il viso.
"... il mio cognome e siamo nativi delle stesse
parti, ho deciso di rivolgermi a voi e di esporvi la difficile condizione in
cui mi trovo." "Bene, bene... Veramente non so proprio che cosa
dirvi" rispose con voce turbata Goljadkin; "ecco, dopo pranzo, ne
parleremo..." L'ospite fece un inchino; fu portato il pranzo. Petruska
apparecchiò tavola e l'ospite e il padrone si accinsero a sfamarsi. Il pranzo
non durò molto perché tutti e due avevano fretta. Il padrone perché non si
sentiva a suo agio e perché si vergognava di quel pranzo così cattivo; in parte
perché avrebbe voluto far mangiare bene l'ospite, e in parte perché gli sarebbe
piaciuto mostrare che non viveva da poveraccio. Dal canto suo, l'ospite era
molto turbato e confuso al massimo. Dopo aver preso una volta il pane e aver
mangiato la sua fetta, non aveva il coraggio di allungare la mano verso una
seconda fetta, si tratteneva dal prendere i bocconi migliori e assicurava
continuamente di non avere fame, che il pranzo era stato eccellente e che, per
conto suo, era soddisfattissimo e non l'avrebbe dimenticato fino alla morte.
Quando ebbero finito di mangiare, Goljadkin accese la pipa, e ne offrì
all'ospite un'altra che teneva da parte per gli amici; si misero a sedere uno
di fronte all'altro e l'ospite cominciò a raccontare le sue avventure.
Il racconto del signor Goljadkin numero due continuò
per tre o quattro ore. La sua storia, del resto, era costituita dalle più
banali e squallide, se così si può dire, circostanze. Si trattava di un impiego
in un ufficio del distretto, di non so quali procuratori e presidenti, di certi
intrighi di cancelleria, della dissolutezza di uno dei capufficio, di un
ispettore, di un improvviso cambiamento dei superiori, del fatto che il signor
Goljadkin numero due aveva sofferto, pur essendo del tutto innocente; di una
vecchissima zia Pelagheja Semjònovna; di come lui, per le varie manovre di
certi suoi nemici, avesse perso il posto e fosse venuto a piedi a Pietroburgo;
e come avesse stentato e sofferto lì a Pietroburgo, come avesse a lungo cercato
inutilmente un posto e avesse speso tutto, fosse vissuto quasi per la strada,
mangiando pane secco e dissetandosi con le sue proprie lacrime e dormendo sul
nudo pavimento, e, infine, di come qualche anima pietosa avesse preso a darsi
da fare per lui, a raccomandarlo di qua e di là e gli avesse generosamente
trovato quel nuovo impiego. L'ospite del signor Goljadkin, mentre raccontava,
piangeva e si asciugava le lacrime con un fazzoletto azzurro a quadri, molto
simile a un'incerata. Concluse poi dichiarando che si era completamente
confidato col signor Goljadkin e confessò che, non solo non aveva i mezzi per
vivere e sistemarsi dignitosamente, ma nemmeno per farsi un po' di corredo come
si deve; che, ecco, aggiunse, non era riuscito nemmeno a racimolare il denaro
necessario per un paio di stivaletti e che la divisa per l'ufficio aveva dovuto
noleggiarla da qualcuno per un po' di tempo.
Goljadkin era intenerito, era veramente commosso. Del
resto, e nonostante la storia del suo ospite fosse delle più banali, ogni sua
parola si era posata sul suo cuore come una manna celeste. Il fatto è che
Goljadkin stava dimenticando i suoi ultimi dubbi, aveva sciolto il suo animo
alla libertà e alla gioia e, in cuor suo, si dava dell'imbecille! Era tutto
così naturale! C'era proprio di che prendersela tanto e di essere così agitato?
Be'... a dire il vero c'era una questione piuttosto delicata, ma via! non era
poi una disgrazia: quella non poteva disonorare un uomo, macchiarne l'amor
proprio e rovinare la sua carriera, se quest'uomo non aveva nessuna colpa, se
la natura stessa vi aveva contribuito. E, inoltre, l'ospite chiedeva
protezione, l'ospite piangeva, l'ospite accusava il destino, era un uomo così
semplice, senza malizia e senza scaltrezza, era un uomo meschino,
insignificante, e sembrava che lui stesso si facesse scrupolo, sia pure sotto
un altro punto di vista, della così strana somiglianza con il padrone di casa.
Si comportava in modo estremamente rassicurante e stava attento a compiacere il
suo ospite e aveva lo sguardo dell'uomo che, straziato dai rimorsi di
coscienza, si sente colpevole di fronte a un altro uomo. Se il discorso andava,
per esempio, su qualche cosa un po' ambigua, l'ospite immediatamente approvava
l'opinione di Goljadkin. Se invece, chissà come, lui, con la sua opinione,
andava per sbaglio contro Goljadkin e si accorgeva di essersi messo fuori
strada, immediatamente si riprendeva, dava spiegazioni e faceva subito capire
che la vedeva in tutto e per tutto come il padrone di casa, la pensava allo
stesso modo e considerava ogni cosa dal suo stesso punto di vista. In una
parola, l'ospite non risparmiava nessuno sforzo per cercare di
"trovarsi" all'unisono con Goljadkin, tanto che, alla fine, Goljadkin
concluse che doveva essere un'amabilissima persona, proprio sotto ogni profilo.
Tra l'altro fu servito il tè, erano già suonate le nove. Goljadkin si sentiva
di umore eccellente, era diventato allegro, scherzoso, a poco a poco si era
abbandonato all'ilarità e alla fine si era gettato nella più vivace e
interessante delle conversazioni col suo ospite. Goljadkin, sotto l'influsso
dell'allegria, si compiaceva a volte di raccontare qualche cosa di
interessante. Così anche adesso: raccontò all'ospite molte cose sulla capitale,
sui suoi divertimenti e le sue bellezze, sui teatri, sui circoli, sul quadro di
Brjulòv ("Gli ultimi giorni di Pompei"); parlò di due inglesi venuti
espressamente dall'Italia a Pietroburgo per vedere la cancellata del Giardino
d'Estate e immediatamente ripartiti; parlò dell'ufficio, di Olsufij Ivànovic' e
di Andréj Filìppovic'; del fatto che la Russia da un'ora all'altra avanza a
gran passi verso la perfezione e che qui l'arte letteraria è oggi in fiore; ricordò
un piccolo aneddoto, letto poco tempo prima su "L'ape del Nord",
disse che in India vive un serpente dotato di forza straordinaria; infine parlò
del barone Brambeus eccetera eccetera.
In conclusione, Goljadkin era soddisfattissimo, prima
di tutto perché si sentiva completamente tranquillo, e poi perché non solo non
aveva più alcuna paura dei suoi nemici, ma era anche pronto, adesso, a sfidarli
tutti alla lotta più decisiva; e infine perché lui stesso in persona accordava
la sua protezione e compiva, alla fine dei conti, una buona azione. Riconosceva
però in fondo al cuore, che in quel momento non era ancora completamente
felice, che dentro di lui si nascondeva ancora un tarlo, piccolissimo però, che
anche in quel preciso momento gli rodeva il cuore. Lo tormentava oltre ogni
limite il ricordo della serata in casa di Olsufij Ivànovic'. Avrebbe dato ora
chissà che cosa perché niente ci fosse stato di quanto era accaduto la sera
prima. "Del resto, è cosa da niente!" concluse, alla fine, il nostro
eroe, e in cuor suo decise fermamente di comportarsi da ora in poi bene e di
non commettere più simili errori. Poiché Goljadkin si era adesso completamente
rianimato e si sentiva quasi completamente felice, gli venne perfino in mente
di godersi un po' la vita. Fu portato da Petruska il rum e fu portato un ponce.
L'ospite e il padrone di casa ne bevvero un bicchierino per uno e poi fecero il
bis.
L'ospite si dimostrò sempre più amabile e da parte sua
offrì più di una prova della sua rettitudine e del suo carattere gioioso;
partecipava vivamente alla contentezza di Goljadkin e sembrava che si
rallegrasse soltanto della sua gioia e lo guardava come il vero e unico suo
benefattore. Prese la penna e un foglietto di carta, pregò Goljadkin di non
guardare quello che stava per scrivere e poi, quando ebbe finito, fu lui stesso
a far vedere al padrone di casa ciò che aveva scritto. Era una quartina,
scritta con notevole sentimento, del resto, e con bello stile e bella
calligrafia e, come sembrava evidente, creata dello stesso amabile ospite:
"Se tu mi scorderai giammai ti scorderò; nella
vita può tutto accadere, ma tu non scordarti di me!"
Con le lacrime agli occhi Goljadkin abbracciò il suo
ospite e, commosso fino in fondo all'anima, cominciò a iniziarlo in alcuni suoi
misteriosi segreti, mentre il discorso batteva sempre sullo stesso tasto:
Andréj Filìppovic' e Klara Olsùfevna. "Noi due," diceva il nostro
eroe al suo ospite "noi due, Jakòv Petrovic', vivremo come l'acqua e il
pesce, come veri fratelli; noi, mio buon amico, giocheremo d'astuzia, la
useremo di comune accordo, da parte nostra intrigheremo per far loro dispetto,
intrigheremo....
Ma non fidarti di quella gente! Io ormai ti conosco,
Jakòv Petrovic', e capisco il tuo carattere: tu, senza pensarci, spiffererai
tutto... sei un'anima così sincera! Tu, fratello, stai lontano da tutti
loro!" L'ospite, assolutamente d'accordo, ringraziò Goljadkin; e anche
lui, alla fine, versò qualche lacrimuccia. "Sai, Jascja" continuò
Goljadkin con voce tremante e debole, "tu, Jascja, ti sistemerai qui da me
per un po' di tempo o anche per sempre. Ci metteremo d'accordo. Che te ne pare,
eh, fratello? Ma tu non turbarti e non mormorare perché c'è oggi tra noi una
così strana circostanza: mormorare, fratello mio, è peccato; è opera della
natura, questa! E madre natura è generosa, ecco, fratello, Jascja! Questo ti
dico perché ti voglio bene, ti voglio bene come un fratello. E noi due, Jascja,
giocheremo d'astuzia, gli scaveremo il terreno sotto i piedi e gli faremo
abbassare la cresta." Si arrivò, finalmente al terzo e quarto bicchierino
di ponce a testa e allora Goljadkin cominciò a provare due sensazioni: la
prima, di una straordinaria felicità, e la seconda, di non potere più star
dritto sulle gambe. L'ospite, si capisce, fu invitato a pernottare. Su due
sedie accostate fu sistemato alla meglio un giaciglio. Il signor Goljadkin
numero due dichiarò che sotto un tetto amico era dolce dormire anche sul nudo
pavimento; che, per conto suo, avrebbe preso sonno ovunque fosse capitato, con
umiltà e riconoscenza; che ora si sentiva in paradiso e, infine, che aveva in
vita sua sopportato disgrazie e dolori, che ne aveva viste di tutti i colori,
aveva sopportato di tutto e - chi può conoscere il futuro? - avrebbe dovuto,
forse, penare ancora molto. Il signor Goljadkin numero uno protestava e si
metteva a dimostrare che bisogna affidare ogni speranza a Dio.
A questo punto Goljadkin prima osservò che i turchi,
sotto un certo punto di vista, avevano ragione invocando il nome di Dio anche
nel sonno. Poi, discordando, d'altronde, con alcuni saggi su certe calunnie
lanciate al profeta turco Maometto e riconoscendo che nel suo genere era un
grande politico, Goljadkin, passò all'interessantissima descrizione di una
bottega da barbiere algerina, di cui aveva letto in non so quale antologia.
L'ospite e il padrone di casa risero molto sulla semplicità d'animo dei turchi;
non potevano però negare la dovuta ammirazione per il loro fanatismo, eccitato
dall'oppio... L'ospite, finalmente, cominciò a svestirsi, e Goljadkin si ritirò
dietro il tramezzo, vuoi per bontà d'animo, perché poteva anche darsi che
quello non avesse neanche una camicia decente e non era il caso di confondere
un uomo che, anche senza quello, aveva già abbastanza sofferto; vuoi per
assicurarsi su Petruska, tastare il terreno, rallegrarlo se fosse stato
possibile e anche dimostrargli un po' di affetto affinché fossero ormai tutti
felici e non rimanesse sulla tavola del sale sparso. Non bisogna dimenticare
che Petruska continuava ancora a preoccupare un po' Goliadkin.
"Tu, Pjotr, vattene a dormire, adesso" gli
disse amorevolmente, entrando nel reparto del suo domestico. "Va' a
dormire e svegliami domattina alle otto. Capito, Petruska?" Goljadkin
parlò in modo insolitamente affettuoso e
dolce. Ma Petruska taceva. Stava, in quel momento,
dandosi da fare intorno al suo letto e non si girò nemmeno verso il padrone,
cosa che, non fosse altro che per un senso di rispetto verso di lui, avrebbe
dovuto fare.
"Ehi, Pjotr, hai sentito quello che ti ho
detto?" proseguì Goljadkin. "Ora vattene a letto e domani svegliami
alle otto.
Capito?" "Ma sì, capisco, che diavolo c'è di
strano?" borbottò tra i denti Petruska.
"Va bene, va bene, Petruska: ti dico questo solo
perché sia anche tu tranquillo e felice. Noi, ora, siamo tutti felici, e perciò
siilo anche tu! E ora ti auguro la buona notte. Dormi, Petruska, dormi...
dobbiamo tutti tirare la carretta... E tu, fratello, non pensare a chissà che
cosa, sai..." Goljadkin aveva cominciato a dire non so che cosa, ma si
fermò.
"Non sarà troppo" pensò, "non avrò poi
detto troppo? Sempre così, io: vado sempre troppo oltre." Il nostro eroe
uscì dal reparto di Petruska scontentissimo di sé. Inoltre la ruvidezza e la
freddezza di Petruska l'avevano un po' mortificato. "Con quel briccone si
scherza, a quel briccone il padrone rende onore e lui resta impassibile"
pensò Goljádkin. "Del resto, è sempre questa l'infame tendenza di questa
razza di gente!" Leggermente barcollando, tornò in camera e, visto che il
suo ospite era già coricato, si mise a sedere un momento vicino al suo letto.
"Confessa, Jascja" cominciò a dire in un bisbiglio e abbassando la
testa, "confessa, furfante, che sei pur colpevole di fronte a me! Tu, mio
caro omonimo, sai che..." continuò, scherzando in modo abbastanza
familiare con l'ospite. Finalmente, dopo un amichevole saluto, Goljadkin andò a
dormire. L'ospite, intanto, già russava. Goljadkin da parte sua cominciò a
sdraiarsi nel letto e intanto, ridacchiando tra sé e sé, mormorava: "Il
fatto è che oggi, colombello mio, sei ubriaco, Jakòv Petrovic', mascalzone che
sei... tu, Goljadkin... con questo tuo cognome! Ma suvvia perché ti sei tanto
rallegrato? Domani, vedrai, ci sarà di che piangere, piagnucolone che sei...
che devo fare di te?" A questo punto una sensazione abbastanza strana si
impadronì di Goljadkin fin nel profondo, una sensazione simile al dubbio o al
pentimento. "Mi sono un po' troppo lasciato andare" pensava, "e
adesso sento un frastuono nella testa, e sono ubriaco; non hai saputo
resistere, imbecille che non sei altro! hai detto stupidaggini a tutt'andare e
ti preparavi anche a fare il furbo, mascalzone! Si sa che il perdono e l'oblio
delle offese costituiscono una virtù nobilissima, ma, con tutto ciò, è una cosa
che non va! È proprio così!" A questo punto Goljadkin si alzò prese una
candela e, in punta di piedi, andò a dare un'occhiata all'ospite addormentato.
Rimase a lungo davanti a lui, immerso in profonda meditazione. "Che quadro
antipatico! Una buffonata, un'autentica buffonata, fatta e finita!" Infine
Goljadkin si distese nel letto. La sua testa era piena di rumori, di crepitii,
di suoni. Cominciò ad addormentarsi, ad addormentarsi... si sforzava di tener
fisso un pensiero, di ricordare qualcosa di molto interessante, di risolvere un
certo importante problema, una certa delicata questione... ma non ci riusciva.
Il sonno arrivò di colpo sulla sua malcapitata testa e sprofondò nel sonno in
cui sono solite sprofondare le persone che, non abituate a bere, hanno ingoiato
di colpo cinque bicchieri di ponce in una seratina tra amici.
NOTE:
Pseudonimo di Senkonskij, critico e letterato,
fondatore del giornale "Biblioteca di letture".
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Fëdor Michajlovič
Dostoevskij
Andrea Giostra