a cura di Andrea Giostra - In questo capitolo de “La luce negli occhi” … Haria continua
la fuga nel bosco inseguita dai servitori di Capriccio Servanti… e mentre
fugge, ricorda la sua infanzia a giocare nel giardino del labirinto incantato…
7° capitolo
VII
1853 d.C.
E corro verso il bosco, inseguita dai servitori di Capriccio Servanti, mio
marito, dai suoi cani scelti e dall’osceno suono dei suoi corni. Il mio cavallo
si è impennato nell’erba alta della collina - luogo di un’antica battaglia - e
mi ha disarcionata; forse ha fiutato un pericolo o non ha voluto seguirmi nella
fuga.
Fuga: questa parola mi ossessiona fin da quando bambina scorrazzavo nel
dedalico giardino del mio patrigno Girolamo Revoleti, nobiluomo di Selvòla.
Allora perdermi nei misteriosi viali e ritrovarmi era il mio gioco; in seguito
divenne il mio segreto, più tardi la mia sfida. Indagavo fra le ciclopiche
siepi cercando un varco - non l’uscita - e non rispondevo ai richiami
spaventati di Salvatore il giardiniere, ma continuavo il mio viaggio nella
complessità di quel mondo che in qualche angolo nascosto custodiva ciò che
sognavo di trovare: l’incanto.
Il labirinto incantato, così chiamavo il
giardino, coagulato vanto di Girolamo, che lo visitava una volta all’anno
guidato dalla cauta esperienza di Salvatore. Al ritorno Girolamo si chiudeva in
un profondo silenzio e il suo sguardo si spengeva gradualmente, fino a
sprofondare in un impenetrabile groviglio di fissità; allora credevo che l’uomo
avesse trovato l’incanto, e irrigidito nella sua poltrona barocca ne
richiamasse la magica percezione. Solo anni dopo compresi che invece i suoi
occhi si perdevano in un greve lamento di vacuità, smarriti nell’eco di
un’insondabile bellezza che lungo i multiformi viali lo aveva sopraffatto.
Una leggenda narrava che un secolo prima una veggente al servizio di
Cataldo Revoleti, bisnonno di Girolamo, aveva percepito il giardino in una
visione; un misterioso architetto irlandese lo aveva disegnato e un manipolo di
strani giardinieri lo aveva costruito. Una notte di tempesta tutti erano
spariti nelle vergini profondità degli intrichi e il pesante cancello di ferro
si era chiuso alle loro spalle. Per centoquattro anni nessuno fu mai in grado
di aprirlo, finché un mattino di primavera il saltellante Girolamo girò nella
serratura la tramandata chiave e semplicemente entrò, guardò oltre la prima barriera
di siepi che sovrastava il cancello e sbarrava lo sguardo e vide intatto
l’originario splendore del giardino, esattamente come i vecchi giardinieri di
suo nonno Ottavio lo avevano raccontato. L’abile buona volontà di Salvatore
mise mano ai pazienti ritocchi.
Mia madre, Argenta Drusco, morì partorendo una bambina
morta. Poco prima che il suo spirito ritrovasse la via dell’antico sogno drusco
mi chiamò e mi disse di aver cura della luce verde nei miei occhi, poiché un
giorno mi avrebbe guidata verso la libertà.
Mia madre era bellissima; perse mio padre in un
burrone dopo due anni di amore sui monti e con me in braccio entrò a servizio
di Girolamo. Sei mesi dopo l’uomo era pazzo di lei e contro ogni convenzione le
chiese di sposarlo. Argenta non era donna comune; vide la passione dell’uomo e
la sua traballante sobrietà: scelse la passione.
Io, Haria Revoleti, fui dapprima destinata alle immobili penombre di un
convento, poi Girolamo cambiò idea e in uno svolazzo di megalomane esaltazione
mi sognò a fianco di un duca, di un conte, di un principe; alla fine si
accontentò delle garbate insistenze di Eugenio Servanti, padre del quindicenne
Capriccio. Da anni Eugenio frugava in alberi genealogici e si sfiniva in
ossessive visite alla nobiltà rurale alla disperata ricerca di una giovane
disincantata e volitiva che sapesse tenere a freno le bizzarrie del figlio e ne
piegasse l’istinto di debosciato.
Eugenio vide in me la creatura che cercava e Girolamo
gongolò per avermi sistemata. I due si accordarono in salotto fra prese di
tabacco, bicchierini di porto ed educate schermaglie politiche. Mia madre mi
portò in giardino e mi svelò l’arte sottile del silenzio espressivo, forza e
consapevolezza di una fanciulla drusca.
Il giardino mi attirava sempre più in profondità:
attraversavo zone d’ombra, entravo in fasci di luce, mi avventuravo in mutevoli
paesaggi. A volte avvertivo fra gli alberi il guizzo di un fantastico essere
che mi osservava divertito, altre volte un fragrante profumo mi accompagnava
per lunghi tratti. Sentivo l’incanto vicino, ma non riuscivo a coglierne
l’energia, così cercavo un colore, un suono, un odore che tracciassero un nuovo
percorso cui affidare i miei passi.
Avevo sedici anni e non ero pronta a lasciare il mio
cammino verso l’incanto. Capriccio mi portò all’altare ostentando sicurezza nel
passo e inciampando nei dubbi; il suo sguardo vagò per la chiesa in cerca di
conforto, mentre la sua voce biascicava un sì stridulo e stonato.
Uno spettrale cocchiere spronò i cavalli e la carrozza partì per Bettola,
dimenticato tugurio sulle alture di Tomba: era cara a Capriccio una locanda
che, incassata in una gola, echeggiava di balorde sonorità.
L’oste ci fece strada su per tre rampe di scalini
sbilenchi fino a una porta che resisteva al chiasso degli avventori che nella
sala di mescita rintuzzavano l’appuntamento con l’idiozia, e scomparve oltre il
cigolio della porta che si chiudeva alle mie spalle.
Capriccio si avventò sul letto, si sollevò di scatto e
con un sorriso ebete tentò un goffo approccio amoroso. Gli riuscì male, ricadde
sulle lenzuola e perse i sensi. Fu allora che capii che per tutto il tempo era
stato ubriaco. Lo guardai: Capriccio Servanti, drammatico pagliaccio, uomo da
niente, mio marito. A lungo scrutai il suo viso incosciente. Quando si svegliò
- verso mezzogiorno - la luce verde nei miei occhi entrò nei suoi e scoprì il
velo di due opposti destini: presto la follia avrebbe preso Capriccio nel fitto
del giardino incantato; io ne sarei stata la causa e la sua follia mi avrebbe resa
libera.
Per quattordici giorni Capriccio improvvisò vane
scemenze nell’intento di conquistarmi; al quindicesimo si lanciò in un assalto
maldestro: riuscì solo a spogliarmi con gli occhi e a ottenere la mia velata
promessa di compiacerlo ogni notte, ma solo dopo che avessi completato il
famoso copriletto al quale da tre generazioni ogni giovane sposa di un Servanti
si applicava.
Con la baldanza del maschio ritrovato si affacciò alla
finestra e sbraitò l’ordine di attaccare i cavalli. In carrozza, sulla via del
ritorno, non smise di imbastire progetti coniugali, tra cui un lungo viaggio a
Verona, in visita al balcone di Giulietta.
Nei tre anni che seguirono non ci muovemmo dalla sua
villa alle porte di Selvòla. Come un tempo una donna dall’animo drusco aveva
ordito con astuzia, di giorno tessevo il copriletto e di notte lo disfacevo.
Capriccio si rammaricava della mia esasperante lentezza, ma la subiva, in fin
dei conti quel tormento gli piaceva.
Finché un mattino gli rivelai l’inganno; Capriccio
arrossì, strabuzzò gli occhi, chiuse a pugno le mani delicate, digrignò i
denti, e io gli risi in faccia. Gli dissi che qualunque decisione stesse per
prendere non m’importava perché il mio spirito era lontano, abbandonato nella
bellezza del giardino incantato. Mi fissò
senza espressione e con voce piatta mi chiese di condurlo là perché lui,
Capriccio Servanti, nobiluomo di Selvòla, mi avrebbe riscattata. Era già folle.
Il giardino si aprì docile al mio affetto e prese a chiudersi alle spalle
dell’uomo che avanzava cocciuto e ignaro. Percorsi i viali alberati, e lui
dietro; avanzai negli amati boschi, e lui dietro; mi inoltrai negli intrichi di
spincervino, e lui dietro; entrai nel labirinto di siepi, e lui si fermò. La
mia voce lo incitò a proseguire, i miei occhi lo provocarono a sfidare se
stesso, il mio sorriso lo eccitò e lo convinse. Fece il passo avanti che lo
condannò.
Le sue urla rimbalzavano sulle invalicabili siepi
mentre uscivo dal labirinto, poi scivolarono nella voce della follia e si
spensero nel vuoto del nulla.
La luce verde nei miei occhi abbracciò il giardino e
l’incanto mi si rivelò, mi inondò, mi amò. L’incanto era il sorriso della
bellezza.
E corro verso il bosco, incanto di libertà.
In copertina, Daniela Ventrone, “Cacciata degli angeli ribelli”, 120x80 cm., olio su tela
Per leggere i precedenti capitoli, clicca qui:
Note dell’editore:
«Haria vive ritirata sull'appennino ligure-emiliano, e comunica
con il mondo esterno mediante i suoi libri, in cui dispensa la conoscenza di
cui è portatrice. Ove giovani donne, in secoli diversi, in fuga dal proprio
tempo, in fuga per la consapevolezza e la libertà. Nove vite, una vita, e una
luce negli occhi che le guida e le accomuna. Nove donne oltre il varco
sull'ignoto, per un magico, solidale destino.»
“La luce negli occhi”, Haria, Collana
Letteratura di Confine, Proprietà letteraria riservata, © RUPE MUTEVOLE, prima
edizione 2004, ristampe 2009-2012-2018.
Cristina del Torchio
https://www.facebook.com/RupeMutevoleEditore/
https://www.reteimprese.it/rupemutevoleedizioni
Daniela Ventrone
http://www.danielaventrone.it
Andrea Giostra