Uross - al secolo Giuseppe Giannuzzi - era assente da un paio d'anni, concentrato sul lavoro di costruzione del nuovo disco, registrato praticamente in solitudine con il successivo intervento di amici musicisti come Andrea Brunetti, Vincenzo Perricci, Carletto Petrosillo, Maurizio Indolfi e Egidio Marchitelli. Autore di testi e musiche in veste di one man rock band, Uross rinnova la sostanza della sua proposta: troppo autoriale per essere considerata rock, troppo elettrica e figlia della fragranza sonora anni '60/'70 per essere frutto di un cantautore fatto e finito. Ovunque è la bellezza che non vedi è un album diretto, animato da confessioni, coincidenze e schiettezza: "Ho cercato di raccontare quello che volevo e come lo volevo, fregandomene ancora di più dell'ascoltatore... Credo sia una forma di sano egoismo che dovrebbe essere alla base di un lavoro intimo com'è quello di fare un disco. In fondo l'importante è che non ti debba vergognare di fronte a te stesso di ciò che hai creato".
Dodici pezzi tra i quali un rifacimento di Ciao amore ciao di Luigi Tenco, un lavoro di quasi due anni, nel quale canzoni nuove e vecchie si sono incontrate, tra scelte forti e recuperi sorprendenti: la nobile arte popolare della rock song in un lavoro accattivante, che verrà presentato dal vivo venerdì 4 dicembre al Flatus Vitae di Erchie (BR).
Ovunque
è la bellezza che non vedi
esce due anni dopo L’amore
è un precario.
Che differenze ci sono tra i due album?
E
a quattro anni da 29
Febbraio (Lo Squilibrista)…
Credo ci siano molte differenze ed altrettante somiglianze. Forse,
nel complesso, è un disco più omogeneo. Ma è solo una mia
sensazione, poi ascoltandolo ognuno coglierà somiglianze e
differenze in maniera diversa e personale. In fondo il bello dei
dischi, o di qualsiasi altra cosa fatta senza troppo
“dovere-burocratico”, è che si prestano a infinite
interpretazioni da parte di chi ascolta, ma anche dello stesso
autore, dipende dai giorni…
Sicuramente
è il disco con le più basse aspettative di sempre, visto ciò che
c’è intorno alla musica, ovvero tanta confusione, tanta inflazione
e il solito circolo vizioso che ruota intorno a se stesso.
Un
titolo impegnativo, Ovunque
è la bellezza che non vedi…
Ci dai qualche dritta?
C’è
una citazione di Einstein con cui vi
conforterò:
“Tutti sanno che una cosa è
impossibile da realizzare finché arriva uno sprovveduto, che non lo
sa (che quella cosa è impossibile) e la realizza”.
Ecco,
tutto sta nel passaggio della sprovvedutezza. L’istinto umano dei
bambini ci salverà. Fare dischi è proprio questo: giocare a montare
e smontare la musica con le parole finché gl’incastri non ti
sembrano quasi giusti. Dobbiamo reimparare a disimparare i nostri
bisogni, i nostri spazi vitali, le nostre abitudini, le nostre
convinzioni e convenzioni, sono tutte cose che a volte (poche per la
verità, secondo me) ci salvano ed invece molto più spesso ci
frenano, non ci sono d’aiuto ma d’ostacolo. Avere il coraggio di
liberarsi dall’inutile, un po’ come la figura di San Francesco
d’Assisi, per fare un richiamo mistico. Per capirci, siamo rapiti
da immagini non immaginate e non pensate dalle nostre menti. Viviamo
tanta virtualità e sempre meno vita vissuta. Desideriamo sogni
condivisi, pubblicizzati e messi in offerta e in bella vista ovunque,
ai supermercati, alla tv, su youtube, sui cartelloni pubblicitari.
Abbiamo i cervelli colonizzati dall’”insostenibile frivolezza
dell’essere” o meglio dall’ “irreversibile frivolezza
dell’avere e apparire”. Dobbiamo tornare ad essere un po’ meno
figli illegittimi del commercio globale nelle sue più disparate
forme e un po’ più figli legittimi della nostra natura, tornare ad
essere un po’ più aborigeni. Il che è assai improbabile ma non
impossibile. E se un perfetto sprovveduto può pensarlo, forse potrà
anche farlo, e siccome la citazione di Einstein parte dal presupposto
che quest’uomo è uno sprovveduto e non necessariamente un genio,
allora può riuscirci chiunque. Complicato e lineare insieme.
Mai come in questo album ti
presenti come una “one man band”, visto che suoni praticamente
quasi tutto: è una filosofia o una necessità?
Questo
disco inizialmente lo avevo immaginato con un titolo diverso,
cioè “ImPerfetta solitudine”, proprio perché sapevo che avrei
registrato un po’ di roba da solo e avrei lasciato fare ad altri
musicisti quelle cose in cui non mi sentivo abbastanza a mio agio.
Poi la cosa mi ha preso la mano e ho fatto gran parte del lavoro io,
pensa... anche alcune note di tromba. Ma non chiedetemi cosa sia un
pentagramma o gli accordi strani che a volte mi ritrovo a suonare.
Ovunque
è la bellezza che non vedi
contiene
undici brani, scritti tutti in un sol colpo oppure in un lungo
periodo di lavoro?
Il
disco è figlio di un lungo periodo, quasi due anni, di cui però uno
solo effettivo di registrazioni e missaggi. Avrebbe potuto anche
contenere qualcosa come 15 o 16 brani e già così com’è, con 12
tracce, è abbastanza “fuori moda”. Il mordi e fuggi di oggi si
riflette anche in questo. È
composto in parte da materiale completamente nuovo ed in parte da
materiale ripreso dal passato. Le canzoni sono come le carte da
gioco. Ci sono mani in cui non vai a giocare e passi ed altre in cui
ti butti anche se ti ritrovi ad avere una inutile coppia di bluff. E
poi magari vinci. Ecco, le canzoni che un tempo hai deciso di non
schierare in campo, in altri momenti ritornano e scelgono di farsi
scegliere.
Uno
degli esempi di questo disco è Soffio
leggero,
un pezzo neanche troppo riarrangiato rispetto a 7-8 anni fa, quando
lo composi per la prima volta. È tornato a farsi vivo il pomeriggio
dell’11 luglio 2013, quando appresi della improvvisa scomparsa di
una persona di famiglia in un incidente stradale. La prima frase
della canzone dice “Io che mi raccolgo sul selciato, da questa mia
vita e dal passato che non torna su di me…” Sembra quasi scritta
per l’occasione, eppure era una canzone vecchia. C’è poi un
altro elemento che rende la cosa ancor più trascendentale, perché
questo signore, che amava la musica, era l’unico dei miei parenti
che avesse comprato il mio primo CD. Quindi gli promisi che gli avrei
regalato il secondo e non mi ricordai di farlo se non appena una
settimana prima dell’incidente. Nel secondo cd era contenuta Al
mio funerale.
Ci ho sentito come un collegamento ancestrale. Era come se
qualcun’altro stesse scegliendo per me di inserire una vecchia
traccia che avevo sempre tenuto fuori. Credo che questo sia
l’ennesimo episodio che conferma come natura e spirito sono in
perenne connessione e in qualche modo danno un indirizzo alle nostre
esistenze. Anche fare un disco è roba di essenza ed esistenza pura e
non solo semplice frivolezza esibizionistica.
Non
sei proprio
un uomo da cover però hai inserito un rifacimento di Ciao
amore ciao:
per quale motivo?
Perché
avevo già fatto Ma
il cielo è sempre più blu
precedentemente e la cosa di rifare una cover, o meglio ancora
reinterpretarla, mi aveva incuriosito e divertito. La scelta, in
questo caso, è stata del tutto casuale. C’è stata la
presentazione di un libro su Luigi Tenco nel castello della mia città
lo scorso febbraio e il mio amico Giorgio Spada, che avrebbe
presentato e interagito con l’autore e con il pubblico, chiese a me
e ad altri musicisti locali di preparare una canzone del cantautore
piemontese. Mestamente scelsi di suonare Ciao
amore ciao
per il banalissimo motivo che non aveva tantissime parole e almeno mi
sarei almeno risparmiato misere figure di chi non ricorda parole di
canzoni considerate capisaldi della cultura nazionalpopolare.
La
verità è che questa scelta fu figlia dell’esperienza fatta in
precedenza con la cover di Rino Gaetano che non riesco a suonare dal
vivo perché dimentico o inverto i mille versi. Alla fine però,
credo che sia venuta fuori una bella rivisitazione di un
classicissimo della canzone d’autore e della storia musicale
italiana. Certo è che non è mai facile affrontare e riarrangiare
canzoni molto note, soprattutto poi se coinvolgono un pubblico
eterogeneo da un punto di vista anagrafico. Peraltro ho scoperto solo
ultimamente che non era una delle sue canzoni preferite. Così mi
sembra che il cerchio si chiuda perfettamente. Un banalissimo
equivoco.
La
“vexata quaestio” nella storia di Uross è la tua collocazione, e
anche con il nuovo album torna la domanda: uomo rock, cantautore o
cosa?
Partiamo
dal presupposto che non
nasco ascoltatore di musica, né dalla musica italiana, tantomeno
dalle scuole cantautorali. Quindi l’influenza classica del rock e
del blues non potrò mai troncarla, neanche volendo impegnarsi tanto
a farlo. Per questo è inevitabile che lo stile è un “non stile
cantautorale”. Che poi, non che tenga troppo all’etichetta di
cantautore. In fondo chi se ne frega, tanto in Italia qualsiasi
musica tu suonerai, se la canterai in inglese sarà blues o jazz o
soul o rock o metal, ma se il cantato sarà in italiano, per “magia”
diventerà pop o almost pop. È una derivazione molto provinciale che
abbiamo in Italia, quella di relegare qualsiasi approccio musicale
cantato in italiano al pop. Sia chiaro, che non c’è mica da
offendersi, però non capisco questo fare due pesi e due misure se si
parte da un sound simile ma lo si canta poi con due lingue
differenti. Così come è molto provinciale il voler fare i fighi
cantando in inglese perché così sei assimilabile al rock al blues
al jazz farfugliando frasi dal suono splendido e dal contenuto
Pausiniano D’alessiano.
Per
me la musica è l’insieme di suono e parola. La produzione poetica
e letteraria italiana è una delle più importanti e imponenti della
storia occidentale. Siamo nel 2015, non ho bisogno di canzoni blues
della vecchia tradizione, o rock o soul old school senza alcuna
variante personale. Già influenzarle con una lingua non nativa le
renderebbe più interessanti o almeno degne di nota dal punto di
vista identificativo dell’artista. Potrei voler ascoltare
contaminazioni di blues che non siano lo specchio perfetto di musica
che posso ascoltare su dischi fatti 50, 60 o 70 anni fa. Si tratta di
personalità. Poi la gente suonerà canterà e ascolterà quello che
vuole e lo chiamerà come meglio crede. Tipo: - Che musica fai?
Francomusic o Ginomusic o Pornomusic, la sostanza non cambierà.
Anche perché c’ha ragione Caparezza quando dice
Chissenefregadellamusica.
Il
sound anni 60/70 ti ispira moltissimo: è così anche per i pezzi di
Ovunque
è la bellezza che non vedi?
Certo.
Il miglior sound della storia della musica contemporanea è lì,
senza se e senza ma. Non parlo delle composizioni, ma semplicemente
dei
suoni. Non discuto chi ama gli ‘80 e i ’90, spesso amori legati
più ai ricordi che all’estetica musicale e non solo. Il futuro
della musica era già lì. Basta prendere ancora oggi dischi funky e
soul Motown, il sound dei Beatles & company, la psichedelia
pinkfloydiana, o addentrarsi nella scena prog inglese ed italiana. IL
SUONO è li. Registrazioni di musicisti nudi e crudi con neanche
troppi mezzi a disposizione.
Sono
dischi che a 50 o 60 anni di distanza suonano più freschi di
qualsiasi altra cosa. Forse anche perché si partiva da una tabula
rasa. Poi arrivarono gli anni 80 e per fortuna poi morirono, e anche
i 90. Non è operazione nostalgia, è un dato di fatto. Io mi sono
avvicinato alla musica con gli U2, che sono un caposaldo dell’epoca,
ma è vero anche che erano quelli che “suonavano” meno eighties
di tutti e che si proiettarono ben oltre il sound tipico del rock ’90
con la trilogia di quella decade; quindi ci siamo.
A
prescindere dalla natura musicale di Uross, i testi di Ovunque
è la bellezza che non vedi
hanno la loro importanza. Quali sono i temi a cui tieni di più?
I
testi sono importanti, soprattutto quando non vorresti vergognarti
troppo di quello che dici, visto che si parla di dischi in cui si
dovrebbe dare per buona l’idea
che ci si mette molto di personale se non tutto. Non è un caso che
nutra da anni il desiderio di realizzare un disco di sole musiche. È
un po’ come dire: Sono un timido esibizionista. Il che è
abbastanza conflittuale. Probabilmente però, in questo disco più
che nei precedenti, ho cercato di raccontare quello che volevo e come
lo volevo, fregandomene ancora di più dell’ascoltatore. Credo sia
una forma di sano egoismo che dovrebbe essere alla base di un lavoro
intimo com’è quello di fare un disco. In fondo l’importante è
che non ti debba vergognare di fronte a te stesso di ciò che hai
creato. Questo discorso è frutto dell’esperienza. Perché con i
lavori precedenti, a distanza di qualche anno dalla realizzazione,
avrei escluso o cambiato qualcosa. So benissimo che tra un paio
d’anni mi vergognerò di qualcosa del nuovo disco ma credo che sia
umano, altrimenti sarei un perfetto imbecille. Diciamo che non ho
ancora raggiunto questa perfezione. Quando ci riuscirò abbattetemi.
Da artista attento a quello
che accade nel panorama musicale italiano, che idea ti sei fatto
dello stato di salute della musica nostrana?
Sinceramente,
dopo tre dischi
non guardi più tanto al panorama, ti focalizzi sul particolare. Se
ti piace fare musica, fai musica lasciando perdere tutti quei
fronzoli che fanno credere alla gente che la musica sia tutta
lustrini e paillettes. C’è tanta di quella musica nascosta,
sommersa, affogata da qualche parte che se ti fermi a pensare a
quante copie venderai col tuo disco oggi, puoi tranquillamente
andare a fare il rappresentante di un qualsiasi altro prodotto purché
non sia la musica.