Cinema, 30° Festival di Mar del Plata, intervista a Johnnie To sul film "Office": l’importante è il primo passo, il resto viene da solo

Fattitaliani
Alto, elegante, un bel sorriso e con un aplomb decisamente inglese, Johnnie To è stato accolto entusiasticamente alla trentesima edizione del festival di Mardelplata, assieme al suo ultimo film Office, passato recentemente al Festival di Toronto. Naturalmente la prima domanda è stata su come abbia cominciato la sua brillante carriera...

“In principio, non c’era assolutamente niente di brillante… a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta direi piuttosto che è stato abbastanza frustrante lavorare per gli studios di Honk Kong perché potevi realizzare un film solo se avevi nel cast un attore famoso, o se accettavo tutto quello che mi chiedevano. Inoltre per avere il loro appoggio, avrei dovuto garantirgli un successo commerciale, che nemmeno con l’astrologo, sarebbe stato facile da pronosticare…”.
Altro che frustrante… 
“E già, anche perché più che un artista, mi sentivo un tecnico. Inoltre non stavo creando un bel nulla, facevo solo quello che i capi mi chiedevano. Mi sentii finalmente libero quando, insieme al mio amico Wa Kai Fai, fondammo la Milkyway Imagen e finalmente cominciammo a fare i film che erano nelle nostre corde”. 
La Milkyway nel 2016 avrà vent’anni ma fin dall’inizio fu un gran successo… 
“Quando iniziammo, i nostri goal erano fare film diversi, originali, insomma essere indipendenti e soprattutto non seguire le tendenze, ma far sì che fosse il nostro cinema a fare tendenza. La gente incominciò a seguirci. Anche perché se ci si lascia guidare dal pubblico, loro vogliono solo intrattenimento, e questo, non era certo il nostro genere. Decidemmo poi di essere, con un neologismo, honkongcentrici puntando sulla cultura e sulla storia di Honk Kong. Così non abbiamo restrizioni, non siamo incasellati e facciamo solo quello che vogliamo. Quello che trovo indispensabile e che ci permette di continuare a lavorare, è che la gente parli dei tuoi film, perché, come diceva saggiamente Madame De Stael bene o male, purché se ne parli…. Solo questo è importante”. 
To, con quali idee ha cominciato la sua lunga carriera cinematografica?
“In genere si hanno idee diverse a seconda dell’età e dei differenti periodi della vita. Il mio primo film lo girai quando avevo ventitrè anni, mentre stavo lavorando in una stazione televisiva e dove facevo tutta una serie di telenovele. Da quel momento in poi tutto diventò più facile, perché continuavo ad accumulare esperienze. Se un giorno dovessi rimanere senza idee e nella mia testa ci fosse solo una tabula rasa, ricomincerei tutto daccapo. E questo sarebbe solo un bene”. 
Qual è il suo metodo di lavoro? 
“Di solito non lavoro con uno storybord, perché al momento di girare succedono moltissime cose così che spesso e volentieri improvvisiamo. Faccio quello che mi sembra sia meglio al momento, insomma il più delle volte improvvisiamo…” 
To, lei ha delle coreografie semplicemente fantastiche: come le tira fuori? 
“Le dirò che a volte non lo so nemmeno io dove abbiano origine, però per la maggior parte si svilupparono negli anni Novanta. Nel 1999, ad Honk Kong il cinema stava attraversando uno dei suoi momenti peggiori, non c’era nessuno che investiva, e nessuno che volesse finanziarci. È per questo che ho dovuto girare The Mission in 19 giorni e terminare il film in un mese. Praticamente rimasi senza tempo e senza più un preventivo, insomma senza niente. Fu un momento disperante, usai tutti i trucchi a portata di mano, ma non potevo far ripetere le scene, ed in più non c’era avanzato nemmeno un centimetro di negativo. Fu così che pensai alle scene d’azione come coreografie e sono felice che con questo escamotage potei terminare il film. Mi creda però fu solo l’ispirazione del momento, magari fui anche ispirato da lavori del passato senza che me ne rendessi conto. Però è stato un momento di enorme libertà, così, senza un piano prestabilito. Successe e basta”. 
To, da Toronto a Roma, la stampa ha definito Office un musical, è d’accordo?
“Non classificherei Office come un musical, anche se innegabilmente ci sono elementi musicali e gente che canta. Mi piacerebbe invece un giorno, poter fare un vero Musical, perché è un genere che mi attrae particolarmente. Confesso che molti miei lavori hanno subito l’influsso sia di West Side Story che di alcune scene di ballo degli anni Trenta e Quaranta. Certo, sento anche l’influenza del cinema europeo, come per esempio quello di Jean Pierre Melville o di Sergio Leone, registi di film che contengono moltissime scene di movimento puro e di una grande musicalità”. 
To, lei come si definirebbe? 
“Sono molto pigro e non mi piace comunicare con gente che non conosco, né tantomeno cercare attori con cui non ho mai lavorato. Il fatto è che quando scelgo un attore è sempre per due ragioni, la prima è perché è bravo e la seconda perché ascolta quello che gli dico, immaginando quello che ho in mente. Dover ristabilire questo tipo di relazione ogni volta che conosco un interprete, mi porterebbe via troppo tempo”. 
To com’è stato lavorare con Johnny Halliday in Vengeance? 
“Abbiamo subito legato, è una bella persona e mi è sembrato che avesse molti punti in comune con il personaggio che stava interpretando”. 
Quanto è durato il suo film più corto e quello più lungo in termini di riprese? 
“Un mese per il più corto e tre anni per il più lungo”. 
Lei per Office ha utilizzato il 3D… 
“sì; ma diciamo che è stato solo un banco di prova, una preparazione per i prossimi film …” 
Il piano sequenza di Breking News? 
"È stata una sfida, non lo rifarei mai così lungo, avevo iniziato con una scena da un minuto che man mano si è dilatata fino a diventare di sette minuti. Pensavo di poterla controllare per accorgermi poi che è stato esattamente il contrario. Dopo averla girata varie volte, ho scelto poi la prima anche perché non avevo più soldi… di solito i film devono avere un copione, ma in questo lavoro ho filmato direttamente. L’importante è il primo passo, il resto viene da solo. Confesso che mi piace fare i film senza copione, per cui quando mi chiedono come finisce, rispondo sempre quando ci arriviamo te lo dico”. 
Lei cambia sovente genere, in base a che? 
“Dipende non solo dall’ispirazione ma anche dal momento”.
Mariangiola Castrovilli
Fattitaliani

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