Le
cronache nazionali annunziano la pubblicazione del romanzo di Maria
Elefante: Le figlie della Fortuna”, edito da Graus (Napoli, Roma)
nei primi giorni di marzo (pagg. 100; € 12,00).
Si
tratta della seconda prova narrativa dell’autrice, docente di
filologia classica presso l’Università Federico II di Napoli, dopo
il racconto breve: La pastiera della passione, pubblicato da Marcus,
editore nel 2014.
“Sorgeva
dal mare il paese della Fortuna ...
”
L’inizio
della narrazione attraverso l’utilizzo del verbo all’imperfetto,
tempo del “passato”, tempo “oculare”, tempo dell’azione
“durativa”, ci mostra un avvenimento (sorgeva)
e un paesaggio (...dal
mare, il paese...)
già connotato della sua felice “fertilità”
(della Fortuna).
Con
questo incipit,
magnificamente cadenzato, si vede affiorare dalla notte dei tempi, e
si delinea alla nostra visione, e si staglia infine come nella nebbia
del mattino il paesaggio orientale, il nuovo orizzonte. Mentre il
lettore si lascia attrarre nella indeterminata lontananza del mito.
Così
noi, esseri razionali carichi del nostro bagaglio culturale e
scientifico accumulato nei millenni, ancora ingenui, vantiamo la
presunzione di afferrare l’atto creativo, il Fiat originario, il
Big bang della materia primordiale, incontaminata e indifferente,
come poteva essere all’inizio della creazione, prima che il vivente
ne acquistasse consapevolezza.
È
questa la vera dimensione spaziotemporale del racconto di Maria
Elefante nella sua produzione affabulatrice, la irrealtà: categoria
narrativa, prima ancora che forma della conoscenza da parte della
kantiana “ragion pura”.
Almeno
fino al 3° capitolo del romanzo, il lettore si trova immerso nella
stessa atmosfera del racconto biblico della Genesi, quando non ancora
“la conoscenza del bene e del male”, l’antica colpa, potesse
generare per l’uomo l’inizio della storia “storia”.
E così, proprio come nei testi di storia sacra, anche qui, in questa
pagina di letteratura, il tempo e lo spazio della narrazione
rinsaldano in maniera emblematica il vissuto della contemporaneità,
offrendoci la rappresentazione dell’eterno presente; nel quale gli
esseri umani si dibattono, si scontrano, si confrontano, e si legano
tra di loro in relazioni civili nel breve corso della loro vita,
“producendo la storia fattuale e prammatica” nella cui immanenza
l’umanità fonda nuovi riti, nei quali si cela il germe di quelli
che saranno col tempo anche i nuovi miti. Indispensabili miti.
“C’era
un pozzo d’acqua ... il pozzo della Fortuna”.
Dal
secondo capoverso la narrazione diventa, apparentemente, fiabesca e
perciò fortemente simbolica (il
mare, l’acqua, il fuoco:
la vita) secondo la mistica dell’acqua lustrale e del fuoco
purificatore. Genesi e palingenesi. Creazione, colpa, condanna, e
redenzione. Rinuncia all’Eden e conseguente purificazione
battesimale. Secondo lo schema della rappresentazione delle età
primordiali, immaginate a posteriori.
Da
questi archetipi prende avvio la favola, che alla citazione dei primi
due personaggi nell’intreccio del racconto, Nanuzza
e Ninnélla
(la vecchia e la giovane) va a raccordarsi con la storia
contemporanea: l’ultimo secolo della nostra epoca, in cui si
svolgono i fatti raccontati. Come se la pace e la felicità nella
contrada dove s’immagina ambientato il racconto, si fossero
corrotti solo negli ultimi cento anni, dopo aver abbandonato
l’incontaminata atmosfera fiabesca dei millenni precedenti.
La
originale inventiva della finzione narrativa non sminuisce però il
valore del nutrito patrimonio di conoscenza storica, né la
sensibilità sociologica o l’impegno politico che muovono la
scrittrice a creare un racconto dalla trama surreale, ricco di magia,
come tutte le fiabe. E allora, improvvisamente, dopo le prime pagine
si definisce senza esitazione l’ambito spaziotemporale delle
vicende umane, insieme all’intento moraleggiante da cui scaturisce
la denuncia del degrado morale della comunità
locale insieme al dissesto ambientale del territorio.
Il
“romanzo breve” di Maria Elefante non si pone, perciò, il
problema della verosimiglianza, che passa in second’ordine di
fronte alla necessità della denuncia sociale e morale, pur essendo
la fiction – o la fabula
che dir si voglia – direttamente attinta ai recenti trascorsi di
quella comunità. Una narrazione fatta con la grazia che nasce dal
piacere di creare storie che ci coinvolgono.
Peppe,
Fortuna, Lione, i primi veri personaggi “reali”, danno inizio
alle vicende del racconto: una storia di famiglia, di eredità, e –
se possiamo dirlo – di rapido arricchimento, in ottemperanza ad una
consegna trasmessa insieme all’asse ereditario, consegna che
nasconde in sé fatti misteriosi. Essi, secondo la tecnica narrativa,
costituiscono l’antefatto. Dove la storia personale e di famiglia
va ad innestarsi, incontrandosi poi con la vicenda emblematica di un
altro personaggio, Tommaso Santillo, che rappresenta l’altra faccia
del mistero. Da questo punto le due direttrici narrative scorrono sul
binario della storia sociale, politica, ed economica del Novecento
italiano, come può essersi sviluppata in Campania – perché tutte
i richiami, espliciti ed impliciti, nonché le allusioni, rimandano a
questa Regione – e tracciano le coordinate dell’azione scenica;
in altre parole ne definiscono il piano semantico, i cui punti
cardini sono storia, cultura, modi di vivere, credenze e tradizioni.
Tommaso
Santillo, Leone, e Peppino; Fortuna, Concetta, e Fortunata; sono i
personaggi in primo piano, con forte predominanza di carattere morale
da parte delle donne, fatto salvo, tra gli uomini, il prof. Santillo,
che nell’azione scenica ha un ruolo marginale e una presenza
limitata e solo occasionale nella vicenda, mentre è più rimarcata
nella economia del racconto la sua funzionalità simbolica di deus
ex machina.
Il
resto del racconto è una storia paradigmatica che intende riprodurre
vicende già note dei nostri giorni, cronaca quotidiana.
Sembrerebbe
così che non restino vie d’uscita ai gravi problemi di degrado
sociale e strutturale, che denotano lo storico ritardo di cultura e
di civiltà, nonostante l’impegno esemplare e la testimonianza fino
al martirio dei cittadini più attenti, più sensibili, più
moralmente sani; e dei tanti gruppi d’opinione che si formano nella
scuola, tra la gioventù studentesca.
Ma
come in tutte le favole ci deve pur essere una morale in questo
racconto.
Personalmente
mi verrebbe di chiudere questa recensione col detto tanto caro a mia
madre: “Chi è causa
del suo mal, pianga se stesso”.
Luigi
Casale