«A che serve il nobel per la pace se ci togliete la pace?». Don Stefano Nastasi nel salutare un anno fa la comunità di Lampedusa, al termine del suo mandato di parroco, poneva questo interrogativo, di certo né retorico, né polemico. Lo incontriamo ad un anno dal naufragio del 3 ottobre, una strage, purtroppo non l’ultima, e ripartiamo, nel segno della memoria, dall’interrogativo su citato.
Don Stefano, quale il senso di quell’interrogativo?
Sarei felice se a Lampedusa venisse assegnato il Nobel per la pace, ma solo se servisse a dare voce a quella comunità non in termini esclusivamente simbolici, ma anche reali. Sarei ancora felice se questo servisse a creare un ascolto profondo delle istanze di Lampedusa nelle stanze della politica e dell’economia europea. La comunità di Lampedusa in questi anni, ha contribuito in maniera notevole alla costruzione della pace facendosi Samaritana del Mediterraneo e ponte tra i continenti e questo è sotto gli occhi dei più. Ciò che auspico per Lampedusa, è la normalità, la pace feriale, l’assenza di clamore mediatico e degli strepiti della politica.
Ad un anno dal 3 ottobre, al di là delle celebrazioni e delle polemiche che mai mancano, quale immagine le rimane di quel triste evento?
L’immagine di un capovolgimento, di un terremoto che squarcia gli abissi del mare e anziché farsi grembo di vita, si fa tomba. Rimangono impressi, e in maniera indelebile, i volti, le grida dei sopravvissuti, il dolore per chi non è riuscito a farcela, la rabbia. Queste sono immagini che si amplificano e che mi accompagnano. Ciò che ho provato è il senso della devastazione che segue la guerra. Più che una immagine, ciò che porto dentro è un dolore interiore che rasenta l’incomunicabilità, un dolore sordo e profondo.
Nel senso di una lacerazione dell’anima?
In quei giorni mi hanno accompagnato un grande silenzio, e la pagina del vangelo di Luca scelta da Papa Francesco per la sua visita a Lampedusa, nota come la strage degli innocenti. Ho sentito in me il pianto di Rachele, la grande matriarca, che oggi è il pianto della Chiesa, e il suo dolore per i figli che ora non sono più. Ciò provoca quella lacerazione dell’anima che lascia degli squarci, delle ferite interiori, che anziché serrarla la aprono all’esercizio della carità accogliente, una carità che, per dirla con don Tonino Bello e il nostro Vescovo, è “sine modo”.
Mi par di capire che quell’evento ha impresso come delle stimmate...
Sì, direi che un evento come quello del 3 ottobre 2013 lascia il segno, non si è trattato di prendere atto di cifre, ma di incontrare volti travolti da una morte di acqua e di terrore e il cuore ne rimane stimmatizzato. Si imprimono i segni di un dolore che non ha nessuna appariscenza, eppure c’è, è là, lo senti, ti accompagna e affiora quando meno te lo aspetti. Credo che quello delle stimmate del cuore, così come amo definirlo, sia in un certo senso un dono ordinario e nascosto, un dono che ho ricevuto senza cercarlo e senza poterne vantare alcun merito.
Don Stefano sono molte le comunità che l’hanno invitata per sentirla e sappiamo che altre fanno richiesta della sua testimonianza: che senso dà a questo ulteriore compito del suo ministero?
Credo che sia mio compito dare voce a chi, ahimè, non ce l’ha più. Credo che faccia parte del ministero di un prete suscitare speranza, toccare la carne di Cristo, sia che abiti nelle periferie o nei centri della storia, credo che sia necessario costruire fraternità e dare testimonianza della capacità caritativa dei Lampedusani, credo che si debba essere fedeli a quella pagina di Isaia che invita a preoccuparsi dello straniero senza dimenticare il povero di casa propria, perché gli uni e gli altri imparino a camminare insieme.
Alfonso Cacciatore.
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