di Mario Setta - C’è uno slogan,
spesso ripetuto e accentuato da grandi storici come Febvre, Braudel, Le Goff: “La
storia è l’uomo”.
L’uomo come è, come potrebbe e come dovrebbe essere. Nella
prefazione al libro di Marc Bloch, “Apologia della storia”, Jacques Le Goff sottolinea che la
storia è “una scienza in marcia”. Per restare tale, più di altre, “deve
muovere, progredire, non fermarsi”. E continua: “la storia è ricerca, dunque
scelta. Suo oggetto è l’uomo o meglio gli uomini e più precisamente gli uomini
nel tempo”. Non c’è studio o ricerca più importante che l’uomo, soggetto e
oggetto. È l’uomo che vive sulla terra,
l’uomo che nasce e muore, l’uomo che costruisce e che distrugge.
Forse di fronte ad
una simile tematica, così grandiosa ed emozionante, il più grande storico del
secolo scorso, Fernand Braudel, affermava:
“Per fare lo storico devi essere felice; anche in Storia si riesce a scrivere
bene solo quando si è felici”. Di fronte ai cataclismi storici delle guerre,
delle devastazioni, degli eccidi, non si può essere felici. Ma si capisce
meglio l’uomo. Lo si ama anche se sterminatore di vita e omicida di fratelli.
La storia è il risultato dell’azione umana. È l’uomo che fa la storia. Lo
storico non è atro che il medico che diagnostica, offre la terapia, attesta il
decesso.
La situazione
critica che sta vivendo l’Italia, governata da una destra arretrata e
conservatrice, pone interrogativi di portata fondamentale. Come se si stesse
operando un cambiamento radicale, con un pericoloso ritorno al passato. Lo
spettro d’un antico fascismo sembra bussare alle porte. Basta osservare cosa
avviene con la riforma dell’esame di maturità nella scuola. C’è in atto un
nuovo clima ideologico, e proprio per questo l’argomento scuola diventa campo
di battaglia e obiettivo di conquista, perché la formazione culturale si
colloca tra i primi posti nella classifica dei valori. Se tale fosse l’obiettivo,
bisognerebbe richiamare l’appello di Ivan
Illich, lanciato nel suo libro “Descolarizzare
la società”, per evitare la manipolazione della cultura. Una scuola che
voglia essere tale deve spalancare al mondo porte e finestre. Identificarsi e
aprirsi alla società.
Karl Popper, il filosofo della “società aperta”, ha esposto la
dialettica tra due modelli di scuola: quella di Talete e quella di Pitagora.
Le primissime scuole. La scuola di Talete era scuola aperta. Scuola di libertà.
Talete, infatti, incoraggiava la critica nei suoi confronti, tanto che gli
allievi potevano liberamente sostenere idee diverse dalle sue. Nella scuola di
Pitagora, invece, prevaleva l’insegnamento fondato sull’autorità indiscussa del
maestro, venerato come un dio, discendente da Apollo, dotato di poteri
taumaturgici. A lui si alludeva come all’autòs
efe (ipse dixit) e chi pensava
diversamente veniva dichiarato eretico, espulso, perfino assassinato. Come, si
racconta, sia accaduto a Ippaso di
Metaponto che, divulgando la scoperta degli incommensurabili (√2), minava
tutta l’impalcatura dell’arché di
Pitagora.
In Italia, con
l’accentuazione della figura del preside-manager e la nascita del “dirigente
scolastico”, responsabile di vari istituti, l’aspetto formativo ne ha risentito
in modo penalizzante. Il preside-dirigente è notoriamente impreparato nelle
materie di insegnamento, specifiche dell’istituto che dirige. Esistono presidi
di Liceo classico, senza che conoscano gli elementi fondamentali della lingua
latina o greca. Presidi, spesso a digiuno delle nozioni più generiche nelle
varie discipline. È evidente che nessun uomo e quindi nessun preside può essere
talmente carismatico ed enciclopedico da risolvere ogni problema. Ma sono loro
le vittime sacrificali, spesso ignoranti e arroganti, create da un simile
sistema. D’altronde ci sono stati e ci sono ministri della pubblica istruzione
assolutamente privi delle minime conoscenze di cultura generale. I fatti stanno
lì a dimostrarlo. Tuttavia, oltre all’ignoranza e alla manipolazione
ideologico-politica, c’è anche un altro fenomeno più complesso e generale, che
riguarda la visione mondiale degli studi umani. In particolare della storia.
È stato Jack Goody, docente a Cambridge, che ha
girato il mondo in qualità di antropologo e storico di fama, autore di numerose
opere tradotte in varie lingue, a pubblicare un libro dal titolo volutamente
polemico e intrigante, “The Theft of
History” (Il furto della storia), cioè l’appropriazione della storia
compiuta dall’Occidente. Goody ammette che esista una tendenza naturale
all’etnocentrismo, caratteristica anche dei greci, dei romani e in genere di
ogni collettività. Perfino dei popoli cosiddetti “primitivi” e, soprattutto,
dei popoli più in vista: europei, americani, arabi, cinesi, ecc. Ma, negli ultimi due secoli, l’etnocentrismo
è diventato eurocentrismo. Goody contesta che il progresso delle scienze sia
prerogativa dell’Occidente e che la rivoluzione industriale sia di origine
inglese.
“In Europa - scrive
- l’uso dei macchinari idraulici
nell’industria tessile ebbe inizio in Italia, nel distretto laniero dell’Abruzzo nel decimo secolo, quando si
impiegò l’acqua per far funzionare i grandi magli per la follatura del feltro
di lana, un processo a sua volta derivato probabilmente dalla Cina”. L’autore sferra poi una critica serrata nei
confronti dell’analisi storica di Marx
e di Max Weber sul capitalismo e nei
confronti di intellettuali come Joseph
Needham, Norbert Elias e Fernand Braudel. Riconosce la serietà e
la profondità delle loro opere, ma ne contesta la visione eurocentrica. Il
“furto della storia” si è verificato anche per valori universali come
l’umanesimo, la democrazia e l’individualismo. Sottolinea: “I parallelismi tra
la cultura cinese e l’umanesimo del nostro Rinascimento sono
sbalorditivi”.
Anche “l’amore
romantico” è stato rubato alle altre culture, perché l’Europa ne ha rivendicato
l’esclusiva. Probabilmente “il Cantico dei Cantici” della Bibbia ebraica potrebbe aver avuto l’ispirazione dalla letteratura
sanscrita, in cui si evidenziano tracce di amore romantico. In alcune
espressioni della cultura islamica, l’amore è visto separato dalla religione
tanto da incontrare detti come questo: “Non sono né cristiano, né ebreo, né
musulmano… l’amore è la mia religione”.
L’Occidente ha rubato anche il Cristianesimo, messaggio d’amore rivolto
a tutta l’umanità, facendone proprietà privata delle chiese. Come si può notare
da queste brevi note, il libro di Jack
Goody innesca una serie di riflessioni, autocritiche, valutazioni, che
inducono a ri-leggere e ri-scrivere la storia con nuovi e più validi strumenti
di analisi, basando la ricerca sulla connessione tra particolare e generale,
microstoria e macrostoria, storia d’un popolo e storia dell’Umanità. In ultima
analisi, sempre più storia a livello mondiale e non storia da dimenticare o,
addirittura, da sopprimere.