È una
vita che mi capita di imbattermi in un vezzo critico che mi ha sempre
infastidito, per cui il “critico” di turno, di fronte a un
qualche testo (che sia letterario, musicale o cinematografico poco
importa) afferma con magnanimità che l’opera è indubbiamente
bella, ma che a livello complessivo ci siano delle parti mal
riuscite, alcune scene di stanca, forse anche alcune ingenuità
narrative e magari un ritmo un po' altalenante. Insomma mi sembra che
si ritorni sempre al solito inciampo di partenza: era la critica
ottocentesca che tagliava i testi con la mannaia e arrivava a dire
che Mefistofele è più riuscito di Faust, che l’Inferno è meglio
del Paradiso. Il testo è uno e va compreso, interpretato e inserito,
nella sua unicità compatta, in una scala di valori all’interno
dell’opera dell’autore che lo ha prodotto o del tempo che lo ha
accolto.
Sono
circa 15 anni che Sorrentino ci accompagna con le sue storie: da
L'uomo
in più
(2001)
a Le
conseguenze dell'amore
(2004),
e poi L'amico
di famiglia
(2006),
Il
divo
(2008),
This
Must Be the Place
(2011)
e infine La
grande bellezza
(2013)
e Youth
- La giovinezza
(2015).
I primi cinque sono film con una struttura narrativa nel complesso
tradizionale, dove prevalente è il grande racconto. Poi negli ultimi
due Sorrentino ha mutato la struttura in modo esplosivo e innovativo
– e in noi è stata riprodotta la sensazione di quando, dopo aver
letto Manzoni o Tolstoj, ci siamo imbattuti in Joyce o nello Svevo
della Coscienza
di Zeno.
La proposta degli ultimi due film di Sorrentino è costruita sul
frammento: non un cinema ad episodi come negli anni Sessanta, ma un
cinema fatto di scene, di incontri, di epifanie rivelatrici, come
fossero tanti tasselli buttati in modo apparentemente casuale, ma che
vanno a ricomporre alla fine il mosaico di una realtà umana segnata
da non poche ferite esistenziali e da forti shock emotivi, non ultima
la questione dello scorrere della vita verso la morte.
Nel
corso di Youth
vediamo messa in scena, unico filo conduttore del film, una antica
amicizia tra un anziano Musicista e direttore d’orchestra e un
anziano Regista cinematografico e sceneggiatore (con tratti, per
intenderci, alla Sandor Marai delle Braci,
romanzo
che con una traduzione alla lettera del suo titolo originale in
magiaro avrebbe risuonato in modo sorrentiniano: bruciare le candele
fino in fondo). L’incontro avviene in un organizzata e lussuosa, ma
anche geriatrica e monotona Spa tra le montagne svizzere e la vita
che qui si svolge tra saune e piscine, comme
d'habitude,
favorisce la passeggiata con chiacchiera, il recupero memoriale, il
ricordo di vecchi amori, le riflessioni sul difficile rapporto con i
figli e sul ruolo dei padri, l’osservazione voyeuristica degli
altri, anche l’improvvisa esplosione di rabbie compresse. Chi ha
fatto un po’ vita d’albergo ne riconosce la sicura autenticità e
sa come esso sia il luogo degli incontri più improbabili che
Sorrentino estremizza quasi in modo surreale come aveva già fatto
nella decadente Roma della Grande
Bellezza:
un simulacro di Maradona (proprio inteso alla Baudrillard come
qualcosa che non ha alcuna relazione con una qualche realtà di sorta
pur risultando vero), una prorompente Miss Universo che incanta e
consola sguardi senili, un monaco tibetano che cerca il miracolo
della levitazione, il Musicista che dirige la natura fatta di suoni
di campanacci, muggiti e frusciare di vento tra le cortecce dei pini
(in assoluto la scena più poetica), un dinoccolato e barbuto
scalatore, una volgare cantante pop, un giovane attore in cerca il
perché del suo incomprensibile successo, una goffa prostituta e
tanti altri volti che, tutti insieme, costituiscono l’album di
fotografie di quella particolare commedia umana sospesa nel nulla e
lì datasi occasionale convegno.
Nella
narrazione di Sorrentino tale realtà appare frammentaria e
volutamente franta, assurda, a volte incomprensibile, spesso inutile
(ma non è forse questo il dato più vero della vita vera?).
Sorrentino decide di non costruire una situazione narrativa lineare e
precisa, anche perché costruisce qualcosa di diverso da una storia
da narrare: è interessato alla mente che combina e disordina, che
associa e dissocia immagini e ricordi in continuazione, spesso
svelando il percorso assurdo delle stesse azioni umane o ancora
meglio la loro inutilità. Tutto sembra infatti essere segnato, nel
declinare inesorabile del tempo, da sforzi immani e da risultati
modesti pur in una cornice di poeticità estrema. E in questa logica
tout se
tien e
anche la visionarietà paradossale del regista assume un senso nel
suo voluto non senso: dal monaco tibetano che infine riuscirà a
levitare, alla scena della copia silenziosa che a tavola si ignora ma
che ulula di desiderio in un amplesso quasi selvaggio che ha per
cornice una foresta di marca nibelungica, al giovane attore provato
dal facile successo che prova la parte di un improbabile Hitler che
assomiglia più al Charlot di Chaplin o alla versione che il più
famoso “vagabondo” del cinema dà del dittatore tedesco, al
ritrovato amore della disorientata Figlia del Musicista con uno
scalatore dallo sguardo allucinato e sognante che la porta in parete
per amarla. E sono proprio questi gli episodi che gli ipercritici di
turno sentono come stonati rispetto al fluire della narrazione, senza
però capire che non vi è alcun fluire di racconto per scelta e
tutto avviene come in sogno in un flusso tuttalpiù di coscienza.
Non
mi sento di fare la cernita di ciò che è riuscito e ciò che non è
riuscito in nessun film, figuriamoci in un film come questo!
Sorrentino sta costruendo con la sua filmografia una delle
riflessioni più profonde e al contempo più ironiche e amare del
vivere contemporaneo, accomunando tutti negli affanni delle piccole
cose, delle cose prossime ma che, per miracolo, entrando a volte in
contatto con le cose alte e metafisiche, forniscono occasione di
ironica leggerezza. E poi nel finale tutto si spiega e si riscatta,
forgiando il senso della vita: dal Regista che salta nel vuoto come
un Monicelli trovando per davvero quelle sue ultime parole prima di
morire cercate invano durante la stesura della sceneggiatura con i
suoi giovani colleghi, al suo amico Musicista che gli sopravvive e
che visita la lapide di Stravinskj al San Michele di Venezia per poi
portare i fiori alla vecchia moglie incatenata dall’alzheimer e
reclusa in un ospizio, fino a ritrovare il coraggio della sua ultima
rappresentazione delle sue famose “Simple Songs” di fronte alla
Regina d'Inghilterra. Tout
se tien
… ma i francesi di Cannes e gli amatissimi fratelli Coen forse non
se ne sono accorti.
Cesare
G. Albertano