Cinema, Fattitaliani ha visto "Youth" di Paolo Sorrentino: tutto dipende da come metti il cannocchiale. La recensione

È una vita che mi capita di imbattermi in un vezzo critico che mi ha sempre infastidito, per cui il “critico” di turno, di fronte a un qualche testo (che sia letterario, musicale o cinematografico poco importa) afferma con magnanimità che l’opera è indubbiamente bella, ma che a livello complessivo ci siano delle parti mal riuscite, alcune scene di stanca, forse anche alcune ingenuità narrative e magari un ritmo un po' altalenante. Insomma mi sembra che si ritorni sempre al solito inciampo di partenza: era la critica ottocentesca che tagliava i testi con la mannaia e arrivava a dire che Mefistofele è più riuscito di Faust, che l’Inferno è meglio del Paradiso. Il testo è uno e va compreso, interpretato e inserito, nella sua unicità compatta, in una scala di valori all’interno dell’opera dell’autore che lo ha prodotto o del tempo che lo ha accolto.

Sono circa 15 anni che Sorrentino ci accompagna con le sue storie:  da L'uomo in più (2001) a Le conseguenze dell'amore (2004), e poi L'amico di famiglia (2006), Il divo (2008), This Must Be the Place (2011) e infine La grande bellezza (2013) e Youth - La giovinezza (2015). I primi cinque sono film con una struttura narrativa nel complesso tradizionale, dove prevalente è il grande racconto. Poi negli ultimi due Sorrentino ha mutato la struttura in modo esplosivo e innovativo – e in noi è stata riprodotta la sensazione di quando, dopo aver letto Manzoni o Tolstoj, ci siamo imbattuti in Joyce o nello Svevo della Coscienza di Zeno. La proposta degli ultimi due film di Sorrentino è costruita sul frammento: non un cinema ad episodi come negli anni Sessanta, ma un cinema fatto di scene, di incontri, di epifanie rivelatrici, come fossero tanti tasselli buttati in modo apparentemente casuale, ma che vanno a ricomporre alla fine il mosaico di una realtà umana segnata da non poche ferite esistenziali e da forti shock emotivi, non ultima la questione dello scorrere della vita verso la morte.
Nel corso di Youth vediamo messa in scena, unico filo conduttore del film, una antica amicizia tra un anziano Musicista e direttore d’orchestra e un anziano Regista cinematografico e sceneggiatore (con tratti, per intenderci, alla Sandor Marai delle Braci, romanzo che con una traduzione alla lettera del suo titolo originale in magiaro avrebbe risuonato in modo sorrentiniano: bruciare le candele fino in fondo). L’incontro avviene in un organizzata e lussuosa, ma anche geriatrica e monotona Spa tra le montagne svizzere e la vita che qui si svolge tra saune e piscine, comme d'habitude, favorisce la passeggiata con chiacchiera, il recupero memoriale, il ricordo di vecchi amori, le riflessioni sul difficile rapporto con i figli e sul ruolo dei padri, l’osservazione voyeuristica degli altri, anche l’improvvisa esplosione di rabbie compresse. Chi ha fatto un po’ vita d’albergo ne riconosce la sicura autenticità e sa come esso sia il luogo degli incontri più improbabili che Sorrentino estremizza quasi in modo surreale come aveva già fatto nella decadente Roma della Grande Bellezza: un simulacro di Maradona (proprio inteso alla Baudrillard come qualcosa che non ha alcuna relazione con una qualche realtà di sorta pur risultando vero), una prorompente Miss Universo che incanta e consola sguardi senili, un monaco tibetano che cerca il miracolo della levitazione, il Musicista che dirige la natura fatta di suoni di campanacci, muggiti e frusciare di vento tra le cortecce dei pini (in assoluto la scena più poetica), un dinoccolato e barbuto scalatore, una volgare cantante pop, un giovane attore in cerca il perché del suo incomprensibile successo, una goffa prostituta e tanti altri volti che, tutti insieme, costituiscono l’album di fotografie di quella particolare commedia umana sospesa nel nulla e lì datasi occasionale convegno.
Nella narrazione di Sorrentino tale realtà appare frammentaria e volutamente franta, assurda, a volte incomprensibile, spesso inutile (ma non è forse questo il dato più vero della vita vera?). Sorrentino decide di non costruire una situazione narrativa lineare e precisa, anche perché costruisce qualcosa di diverso da una storia da narrare: è interessato alla mente che combina e disordina, che associa e dissocia immagini e ricordi in continuazione, spesso svelando il percorso assurdo delle stesse azioni umane o ancora meglio la loro inutilità. Tutto sembra infatti essere segnato, nel declinare inesorabile del tempo, da sforzi immani e da risultati modesti pur in una cornice di poeticità estrema. E in questa logica tout se tien e anche la visionarietà paradossale del regista assume un senso nel suo voluto non senso: dal monaco tibetano che infine riuscirà a levitare, alla scena della copia silenziosa che a tavola si ignora ma che ulula di desiderio in un amplesso quasi selvaggio che ha per cornice una foresta di marca nibelungica, al giovane attore provato dal facile successo che prova la parte di un improbabile Hitler che assomiglia più al Charlot di Chaplin o alla versione che il più famoso “vagabondo” del cinema dà del dittatore tedesco, al ritrovato amore della disorientata Figlia del Musicista con uno scalatore dallo sguardo allucinato e sognante che la porta in parete per amarla. E sono proprio questi gli episodi che gli ipercritici di turno sentono come stonati rispetto al fluire della narrazione, senza però capire che non vi è alcun fluire di racconto per scelta e tutto avviene come in sogno in un flusso tuttalpiù di coscienza.
Non mi sento di fare la cernita di ciò che è riuscito e ciò che non è riuscito in nessun film, figuriamoci in un film come questo! Sorrentino sta costruendo con la sua filmografia una delle riflessioni più profonde e al contempo più ironiche e amare del vivere contemporaneo, accomunando tutti negli affanni delle piccole cose, delle cose prossime ma che, per miracolo, entrando a volte in contatto con le cose alte e metafisiche, forniscono occasione di ironica leggerezza. E poi nel finale tutto si spiega e si riscatta, forgiando il senso della vita: dal Regista che salta nel vuoto come un Monicelli trovando per davvero quelle sue ultime parole prima di morire cercate invano durante la stesura della sceneggiatura con i suoi giovani colleghi, al suo amico Musicista che gli sopravvive e che visita la lapide di Stravinskj al San Michele di Venezia per poi portare i fiori alla vecchia moglie incatenata dall’alzheimer e reclusa in un ospizio, fino a ritrovare il coraggio della sua ultima rappresentazione delle sue famose “Simple Songs” di fronte alla Regina d'Inghilterra. Tout se tien … ma i francesi di Cannes e gli amatissimi fratelli Coen forse non se ne sono accorti.

Cesare G. Albertano
Fattitaliani

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