Intervista a cura di Domenico Carriero
Pimples Marmalade tornano con “Pretty Vacant”, un brano che
non chiede il permesso e non fa sconti a nessuno. Una dichiarazione d’identità,
un titolo che richiama certe attitudini punk, reinterpretate con un sound
grezzo, urgente e profondamente personale.
“Pretty Vacant” nasce dal rumore di fondo di una generazione
disillusa, che ha smesso di cercare approvazione e ha iniziato a raccontarsi
per quello che è senza filtri, senza pose.
Il singolo è crudo, diretto e volutamente imperfetto. Chitarre
distorte, una voce che graffia e testi che parlano di vuoti esistenziali,
alienazione urbana e desiderio di autenticità.
È il ritratto sonoro dei Pimples Marmalade: una band che ha scelto di
non edulcorare nulla.
“Pretty Vacant” è il primo tassello di un nuovo percorso, più maturo ma ancora visceralmente istintivo.
Ragazzi, anzitutto perché “Pimples Marmalade” per questo progetto musicale?
E’ da poco meno di trent'anni che ci chiamiamo così. Era un'altra epoca e, facendo punk, col nome volevamo dare un senso come di disagio, come lo crea una “marmellata di brufoli”. Volevamo essere un po' disturbanti, controcorrenti, anticonformisti, e ci siamo diventati!
Se vogliamo il punk nasce proprio come frutto di una cultura del disagio, dagli Stati Uniti all’Europa. Quindi già col vostro nome rispecchiate questo tipo di missione del punk….
Sì, il punk è contro cultura fondamentalmente. Nasce nel 1975 da un'esigenza di rompere le regole e noi, essendo arrivati un po' dopo, abbiamo recuperato quello che era il punk più degli anni ‘90 che comunque si appoggiava su quel tipo di mentalità. Non facciamo solo il punk canonico ma abbiamo anche gli inserimenti di Ska ed altri generi, cercando di miscelare un po' di ingredienti e fare una marmellata.
Il vostro nuovo singolo è la reinterpretazione di “Pretty Vacant” (“abbastanza vuoto”) dei Sex Pistols. Questo vuoto in particolare intendete rispecchiare nel brano?
E’ un classico dei Pistols che abbiamo voluto omaggiare, forse il più
classico dei classici.
Esso fa parte di un percorso che abbiamo
deciso di portare avanti fatto da una serie di cover che arrivano proprio da
quel contesto di punk classico. Oggi è sempre più evidente l'esigenza di
riempire un certo tipo di vuoto che si è andato a creare, soprattutto nei
giovani. C'è una mancanza di cultura come poteva essere quella contro cultura
punk nei giovani di oggi.
La canzone parla di disillusione verso una società che non ti dà un granché su cui contare. La reazione del giovane punk del 1977 era “non mi interessa, io vado avanti nelle mie condizioni, nella mia vita” e probabilmente anche i ragazzi di oggi si possono rispecchiare in questo tipo di mentalità conservatrice che sta tornando.
Questo tipo di esigenza che ci potrebbe essere anche oggi può trovare nel punk una risposta?
Pensiamo che il punk sia un virus che si va a insinuare un po' nelle
crepe, quindi anche se uno non fa musica punk certi concetti possono essere
riportati a quel tipo di attitudine.
Il punk si dice spesso che è più un'attitudine che una musica e probabilmente qualcosa si riesce ancora a ritrovare in maniera molto nuova, che magari va un po' compresa, però c'è.
A proposito di cover, nell’ultimo anno avete fatto uscire due omaggi: da "Ever Fallen in Love (With Someone You Shouldn’t’ve)" dei Buzzcocks a “Bonzo Goes to Bitburg” dei Ramones. Perché la scelta proprio di questi brani?
Sicuramente sono delle canzoni che a noi sono care, che ci hanno anche
ispirato e quindi anche per la melodia c'è proprio un effetto di piacere. Sono
canzoni che comunque sono nel nostro background anche se non sono delle hit. Nel caso specifico dei Buzzcocks è il
loro brano è più celebre, dei Ramones invece forse no in quanto è fuori dai
canoni dei soliti Ramones: è una canzone politica molto attuale.