Scienza, medicina e vaccini: la commissione, il dubbio e l’obbligo di pensare



La scienza non è un insieme di certezze, ma un sistema di congetture e confutazioni.” Karl Popper

Nel nostro tempo, segnato da crisi sanitarie, accelerazioni tecnologiche e comunicazione compulsiva, l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sui vaccini anti-COVID-19 è stata accolta da molti con sospetto, da altri con sollievo, e da altri ancora con profondo disagio. Ma ciò che conta, al di là delle reazioni immediate, è il senso profondo di questa iniziativa: un invito, forse tardivo ma necessario, a ripensare.

Ripensare cosa? Il nostro rapporto con la scienza. Con la medicina. Con la verità. E, soprattutto, con l’essere umano.

Scienza e fede: una linea da non confondere

Durante la pandemia, il discorso pubblico ha mostrato una tendenza inquietante: confondere scienza e fede. La scienza è stata trasformata in una liturgia. Le sue voci ufficiali in oracoli. Chi poneva domande, anche sensate, veniva messo ai margini, accusato di eresia laica, trattato come una minaccia pubblica. Ma la vera scienza non teme il dissenso: lo accoglie, lo vaglia, lo integra.

Karl Popper, tra i più importanti filosofi della scienza del Novecento, ci ha insegnato che ciò che rende scientifica una teoria non è la sua “verità” ma la sua falsificabilità: la possibilità di essere sottoposta a critica, confutata, superata. Dove manca questa tensione critica, non c’è scienza, ma dogma.

E se la scienza viene vissuta come un’istituzione infallibile, allora smette di essere un processo e diventa un apparato. È accaduto, e accade, anche alla medicina, sempre più tecnicizzata, automatizzata, frammentata. Più algoritmica, meno umana.

Medicina tecnica o medicina dell’ascolto?

Negli ultimi decenni — e con un’accelerazione impressionante durante la pandemia — la medicina si è progressivamente ridotta a sistema di protocolli e linee guida, dove il tempo clinico si misura in minuti, e dove il paziente viene sempre più spesso trattato come un contenitore di sintomi, un “caso”, una sigla.

Si è smarrita, nel cuore stesso della pratica medica, la dimensione della relazione.

Eppure, l’essere umano non è solo morfologia e biochimica. Non è solo una macchina biologica da calibrare o riparare. L’uomo è anche storia personale, emozione, coscienza, spiritualità, memoria, relazione. Il suo dolore non è mai soltanto fisico; la sua guarigione non passa solo per un valore ematico corretto.

Una medicina che ignora questo è una medicina dimezzata.

Ippocrate e Knidos: due visioni antiche, una scelta attuale

Qui si apre un nodo cruciale: quale medicina vogliamo? Una che cura il sintomo, o una che accompagna l’essere umano nel suo intero processo di sofferenza e trasformazione?

La risposta, sorprendentemente, la possiamo trovare nell’antica Grecia. Esisteva già allora una distinzione tra due scuole di pensiero: quella di Knidos (Cnido), orientata all’approccio nosologico, tecnico, frammentario, e quella di Kos (Coo), guidata da Ippocrate, che metteva invece l’osservazione individuale e la relazione medico-paziente al centro del sapere clinico.

I medici di Knidos erano ossessionati dalla classificazione delle malattie. I medici di Kos cercavano di capire chi fosse il malato, non solo cosa avesse.

La medicina moderna, paradossalmente, sembra essere tornata a Knidos: un sapere analitico, impiegato su corpi spezzettati in organi, molecole, sintomi.

Ma il futuro ha bisogno di Kos: di una medicina capace di vedere l’interezza, di ascoltare senza fretta, di seguire il paziente nel tempo, di restare accanto più che “intervenire”.

Kuhn e la fine dei paradigmi eterni

A sostegno di questa necessità, vale la lezione di Thomas Kuhn, secondo cui la scienza non cresce per semplice accumulo di dati, ma attraverso crisi di paradigma, ovvero rotture profonde che costringono a ripensare l’intero sistema di interpretazione della realtà.

I dati, da soli, non bastano: serve l’apertura al dubbio, la disponibilità a rivedere ciò che sembrava ovvio.

Durante l’emergenza sanitaria, abbiamo visto la scienza trasformarsi in potere amministrativo, in verità autoritaria. Ogni voce critica veniva ridotta al silenzio; ogni anomalia clinica ignorata. Ma è proprio nelle “anomalie” — ci insegna Kuhn — che si nasconde il seme di ogni progresso reale.

Farmaci “biologici”, retorica e realtà

Un esempio di questa deriva è la promozione disinvolta dei cosiddetti farmaci biologici, presentati come soluzione “intelligente”, quasi “naturale”, a molte patologie complesse. Eppure, si tratta di farmaci altamente invasivi, dal funzionamento poco conosciuto, con rischi immunitari, neurologici e metabolici spesso ancora oggetto di studio.

La parola “biologico” qui è ambigua, sfruttata con furbizia comunicativa, per disarmare la critica. Ma ciò che è innovativo non è automaticamente buono. E ciò che è potente non è automaticamente sicuro.

Allo stesso modo, la tecnologia mRNA, introdotta con una rapidità mai vista, non va demonizzata — ma neppure idolatrata. È uno strumento, non una certezza. Una scommessa, non un dogma. Di ciò che accadrà a lungo termine non sappiamo ancora nulla di definitivo. E non possiamo fingere di sapere.

L’intelligenza artificiale: utile ma non cosciente

L’altro mito del nostro tempo è l’intelligenza artificiale applicata alla medicina. Diagnosi predittive, triage automatici, assistenza virtuale. Ma l’AI, per quanto sofisticata, non ha corpo, non ha empatia, non ha coscienza. È un supporto, ma non un terapeuta.

Nessuna macchina potrà mai interpretare uno sguardo esitantesentire il silenzio di un paziente che non riesce a raccontare il proprio dolore, riconoscere un sintomo nascosto tra le righe di una frase detta a mezza voce.

Serve dunque una medicina che pensi, che ascolti, che accompagni. Che non rinunci alla tecnologia, ma non si sottometta ad essa.

Il futuro? Una medicina che cammina accanto

Il futuro — se vogliamo davvero umanizzarlo — deve fondarsi su una medicina che cura e accompagna, non che isola e corregge. Una medicina capace di stare accanto al paziente, non solo di agire su di lui.

Una medicina che ricordi che la guarigione non è sempre la scomparsa del sintomo, ma può essere anche la riconquista di un sensodi una dignitàdi una voce. Una medicina che sappia fermarsi ad ascoltare, anche quando non ha una risposta immediata.

E se oggi abbiamo il coraggio di istituire una commissione per riflettere su ciò che è accaduto, allora che sia una commissione che pensa, non che punisce. Che cerca di comprendere, non di esorcizzare. Che si fonda non sul sospetto, ma sull’esigenza di verità.

Perché la scienza, come ci ricordava Popper, non nasce dalla sicurezza, ma dal coraggio di dubitare.

E la medicina, se vuole restare umana, deve tornare ad ascoltare il mistero dell’uomo, non solo i suoi parametri vitali.

Carlo Di Stanislao

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