La forma, la sostanza e il vuoto del progressismo

 


"Le parole sono la più potente droga usata dall’umanità."  Rudyard Kipling

Viviamo in un’epoca in cui la forma è divenuta sostanza, fino al punto da inglobarla, trasformarla e in alcuni casi sostituirla del tutto. Non si tratta soltanto di un ornamento superficiale, ma della dimensione stessa attraverso cui il pensiero, l’azione e la politica si esprimono. Ciò che appare vero diventa, per molti, più importante di ciò che è vero. Questa metamorfosi segna il nostro tempo più di ogni altra cosa: la sostanza rischia di dissolversi nelle nebbie dell’apparenza, eppure non possiamo ignorare che, spesso, è proprio l’apparenza a determinare la sorte della sostanza.

Nell’antichità classica, la retorica era già considerata arte del convincere, non mera decorazione del discorso. I sofisti insegnavano che la parola poteva piegare la realtà alla volontà di chi sapeva usarla. Platone, indignato, denunciava il pericolo di questa potenza disancorata dalla verità; Aristotele tentò di ricondurla a una disciplina dell’argomentare razionale. Eppure, nonostante gli ammonimenti, la storia ha dimostrato che il potere della forma non si è mai spento. Anzi, nelle epoche di crisi, di trasformazione e di conflitto, la forma ha spesso deciso le sorti dei popoli più della sostanza.

Oggi, con l’avvento dei social media, questa antica tensione tra verità e persuasione ha raggiunto un’acme inedito. La politica è diventata immagine, meme, slogan, battuta virale, e la comunicazione non è più semplice strumento ma campo di battaglia decisivo. I leader non vengono giudicati solo dalle loro azioni o dai loro programmi, ma dal modo in cui sanno raccontarsi e saper incarnare il racconto stesso.

Il caso americano, tra Trump e Newsom, è emblematico. Donald Trump, con i suoi tweet maiuscoli, i soprannomi ridicolizzanti affibbiati agli avversari, le conferenze stampa trasformate in show, ha inaugurato una nuova era: la politica come intrattenimento permanente, in cui l’esagerazione, la provocazione e la menzogna servono non tanto a persuadere nel merito, quanto a dominare la scena. Nel suo stile, riconosciuto e odiato, risiede gran parte della sua forza. Non importa quante volte i fact-checking ne abbiano smentito le affermazioni: l’impatto formale superava ogni smentita sostanziale.

A questa dinamica, sorprendentemente, si è ispirato negli ultimi mesi il governatore democratico della California, Gavin Newsom (foto Wikipedia). Egli ha scelto di sfidare il trumpismo non con un linguaggio alternativo e più alto, bensì calandosi sullo stesso terreno: meme generati dall’intelligenza artificiale, immagini satiriche che richiamano Harry Potter, Guerre Stellari, i Simpson; frasi in maiuscolo, sarcasmo corrosivo, slogan brevi e virali. È un’imitazione voluta, che secondo Steve Bannon fa di Newsom “l’unico democratico che abbia davvero compreso lo stile MAGA”.

Eppure, è qui che si pone una questione etica di enorme rilievo: il fine giustifica davvero i mezzi? È sufficiente il risultato politico per rendere accettabile la copia delle strategie dell’avversario, anche quando queste strategie hanno contribuito all’imbarbarimento del discorso pubblico, alla polarizzazione estrema e alla riduzione della complessità a caricatura? La lezione di Machiavelli viene spesso fraintesa: il Segretario fiorentino non suggeriva di cancellare ogni vincolo morale, bensì di riconoscere che la politica obbedisce a regole proprie. Ma ridurre questa complessità a un banale “tutto è lecito purché funzioni” rischia di avvelenare per sempre la convivenza democratica.

Certo, i numeri danno ragione a Newsom: milioni di follower guadagnati, centinaia di milioni di visualizzazioni, crescente popolarità nei sondaggi. Eppure, dietro il successo immediato, si annida un pericolo più sottile: quello di assuefare l’opinione pubblica a una politica che non si misura più con la verità né con i contenuti, ma soltanto con l’efficacia comunicativa. Se anche i democratici parlano come Trump, se anche i progressisti riducono il dibattito a meme, chi resterà a custodire l’idea che la politica debba innanzitutto proporre visioni e soluzioni?

È qui che si apre la riflessione più ampia sulla crisi del progressismo occidentale. Da anni, in Europa come in America, la sinistra appare smarrita, priva di progetto, incapace di formulare un orizzonte credibile. L’ultima stagione in cui il progressismo seppe unire visione e pragmatismo, sostanza e forma, fu quella di Tony Blair in Gran Bretagna e di Bettino Craxi in Italia. Blair seppe interpretare la modernizzazione come promessa di inclusione e dinamismo, portando il Labour fuori dall’angolo ideologico. Craxi, pur tra contraddizioni e ombre, incarnò un socialismo riformista che sapeva parlare al futuro, dotato di simboli e linguaggio forti. Dopo di loro, il vuoto.

Quel vuoto si è allargato fino a diventare, oggi, crisi strutturale: nessun leader progressista, in nessun Paese occidentale, appare in grado di proporre una nuova sintesi, un racconto capace di appassionare e convincere. La sinistra si è ridotta a inseguire i temi imposti dalla destra, ad adattarsi, a rincorrere mode e tendenze, perdendo la capacità di guidare. E quando la sostanza è debole, anche la forma si affloscia, o diventa imitazione caricaturale di quella dell’avversario.

In ciò si rivela una drammatica ironia: se la forma è sostanza, e la sostanza è ormai fiacca, allora la sinistra non ha più né l’una né l’altra. Da qui il ricorso, quasi disperato, a strumenti che un tempo avrebbe rifiutato, come i meme e la comunicazione “bassa”. Ma un linguaggio preso in prestito non crea identità, e una forma copiata non genera vera forza. Al contrario, rischia di certificare la sconfitta sul piano culturale ancor prima che su quello politico.

La storia offre insegnamenti preziosi. Nella tarda Repubblica romana, gli optimates e i populares si contendevano non solo il potere ma anche la scena pubblica. Catilina, Cesare, Cicerone: tutti compresero che la parola e l’immagine contavano quanto gli eserciti. Il Rinascimento italiano ci mostra un’altra faccia del medesimo problema: i principi, tra corti e città-stato, si servivano dell’arte e della magnificenza come linguaggio politico. Nell’Illuminismo, infine, la forma dei pamphlet, delle enciclopedie, delle satire, fu decisiva quanto i contenuti nel diffondere le idee nuove.

Ecco dunque la lezione: non si può separare mai del tutto forma e sostanza. Ma se si abbandona la sostanza, se la forma diventa solo artificio, si genera un vuoto che nessun artificio può riempire a lungo. La politica diventa spettacolo, ma uno spettacolo che logora sé stesso, perché privo di fondamento.

La domanda decisiva è allora questa: può il progressismo rinascere, può ritrovare un linguaggio che non sia semplice imitazione della destra, ma autentica innovazione? Per riuscirvi, occorrerebbe tornare a pensare la politica come progetto di futuro, non solo come gestione del presente o reazione agli avversari. Occorrerebbe ricostruire una narrazione capace di unire la concretezza dei problemi con la grandezza di una visione. Occorrerebbe ritrovare leader che, come i grandi del passato, sappiano tenere insieme profondità e chiarezza, sostanza e forma.

Oggi, la forma è diventata sovrana. Ma senza contenuto da custodire, la sovranità della forma è sterile. Non basterà un meme a salvare la democrazia, né una battuta virale a restituire senso alla politica. Solo quando la parola tornerà a essere magia che illumina e non solo fumo che acceca, il progressismo potrà tornare a svolgere il compito che la storia gli assegna: essere motore di futuro, non eco sbiadita del passato.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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