Vico, la fede, la politica e la questione meridionale: un pensiero ancora vivo



"Non si può comprendere il presente senza conoscere il passato, né governare il futuro senza aver studiato la storia."  Benedetto Croce

Nel vasto panorama del pensiero filosofico europeo, pochi autori risultano così attuali, pur restando poco compresi, quanto Giambattista Vico. Nato a Napoli nel 1668, immerso nella complessità culturale di una città cosmopolita e stratificata, Vico ha saputo coniugare la visione cristiana della storia con un’acuta analisi dei meccanismi attraverso cui l’uomo costruisce le proprie istituzioni, la propria memoria e il proprio immaginario. La sua opera maggiore, la Scienza nuova, non è semplicemente un libro di filosofia: è un atlante dell’umano, un trattato sul destino delle civiltà, un monito contro l’illusione della ragione astratta.

Benedetto Croce, con una formula che può sembrare provocatoria, lo definì “il più grande filosofo dell’Ottocento”, pur essendo Vico vissuto nel Settecento. Ma non è un paradosso. Croce riconosceva in lui l’anticipatore delle grandi domande moderne: la storicità della verità, il ruolo delle istituzioni simboliche, la crisi della civiltà, l’importanza della cultura come cemento della politica. Una visione che oggi, nel cuore della crisi dell’Occidente, appare più che mai profetica.

La fede come origine dell’umano e della civiltà

Uno dei concetti chiave del pensiero vichiano è quello di fede importata. Si tratta di una nozione che va ben oltre il significato religioso: è la convinzione profonda che lega l’individuo alla comunità, l’uomo al tempo, la società alle sue radici. È fede nel senso di fiducia ricevuta, di memoria condivisa, di simboli interiorizzati che precedono l’uso della ragione e strutturano la coscienza collettiva. Vico mostra come nessuna civiltà possa esistere senza questa base “poetica”, senza un sistema simbolico condiviso che rende possibile l’ordine sociale.

In questo senso, la fede è ciò che permette la nascita del diritto, della politica, della storia. La civiltà si costruisce attraverso miti, riti, religioni, tradizioni, linguaggi, che non sono sovrastrutture ideologiche ma condizioni originarie. La modernità, nel tentativo di sostituire questa struttura con l’individuo astratto e la ragione tecnica, ha reciso il legame tra l’uomo e il suo passato, tra l’istituzione e la sua legittimità. Da qui, per Vico, nasce la crisi.

La politica come espressione della cultura e non come tecnica

Vico insegna che la politica non può essere un esercizio tecnico o un calcolo strategico, ma dev’essere fondata su una visione del mondo condivisa, radicata nella storia e nella cultura di un popolo. Le istituzioni non reggono sulla sola forza delle leggi, ma sulla loro accettazione interiore, sulla percezione collettiva di una legittimità profonda. La politica, per essere efficace e giusta, deve dialogare con la coscienza storica e simbolica delle comunità.

Per questo Vico è un pensatore “contro-moderno”: non nel senso di reazionario, ma nel senso di critico verso la modernità che pretende di ricominciare da zero, ignorando le radici. Egli smonta l’illusione del costruttivismo razionale, anticipando pensatori come Edmund Burke e Alexis de Tocqueville, i quali hanno denunciato i pericoli di una politica sradicata dalla cultura. L’ordine giuridico e politico, in assenza di una cultura comune, diventa fragile, precario, manipolabile. Vico è invece convinto che solo la coerenza tra istituzioni e tradizione può garantire una civiltà durevole.

La questione meridionale prima di Gramsci

Ben prima di Antonio Gramsci, Giambattista Vico aveva intuito che i problemi del Sud Italia non erano riducibili a una questione economica, ma affondavano in una più complessa mancanza di radicamento simbolico. Vico vedeva nel Mezzogiorno una società in cui lo scollamento tra cultura popolare e istituzioni civili impediva la nascita di una vera coscienza storica. Non c’era fede nel diritto, non c’era senso dello Stato, ma solo un’aristocrazia chiusa e un popolo escluso dal linguaggio del potere.

Gramsci, due secoli dopo, parlerà di rivoluzione passiva, di egemonia, di necessità di una riforma culturale e morale come prerequisito per ogni trasformazione sociale. Ma è Vico ad avere per primo colto questa connessione: senza una narrazione condivisa, senza un “mito” positivo di sé, un popolo resta diviso, fragile, incapace di progresso. In questo, Vico è un precursore di ogni pensiero che intenda la cultura non come orpello, ma come struttura portante della convivenza civile.

Marcello Veneziani e la riscoperta contemporanea

In Vico dei miracoli, Marcello Veneziani porta alla luce con passione e rigore l’attualità del pensiero vichiano. Per Veneziani, Vico è l’antidoto alla decadenza dell’Occidente, alla perdita dell’identità, al disfacimento della memoria. Egli mostra come la Scienza nuova sia una proposta per ritrovare un ordine simbolico, un senso del tempo, una fiducia collettiva. La cultura non come nostalgia, ma come fondamento della politica.

Veneziani interpreta Vico come un pensatore capace di parlare all’oggi: non un autore museale, ma una voce che ci chiede di ricostruire un sentimento comune, una narrazione originaria in grado di superare tanto l’individualismo post-moderno quanto il tecnicismo senza anima. In tempi di crisi morale e di frammentazione, Vico offre la possibilità di una riconciliazione tra ragione e memoria, tra popolo e istituzioni.

Vico e Ratzinger: fede e ragione, memoria e comunità

Il pensiero di Vico dialoga, in modo sorprendente, con quello di Joseph Ratzinger. Entrambi denunciano la crisi del razionalismo moderno, che ha voluto emancipare l’uomo da ogni legame, riducendolo a individuo isolato e consumatore. Entrambi rivendicano la necessità della fede come elemento strutturante della civiltà.

Per Ratzinger, la fides cristiana è la verità ultima che fonda la libertà. Per Vico, la fede importata è la condizione simbolica dell’umano. Ma l’analogia è evidente: senza un riferimento trascendente, senza un legame con il passato, senza un ordine morale e culturale comune, la società si dissolve nel relativismo. Entrambi invitano a recuperare la profondità del tempo, la ricchezza della tradizione, la forza della memoria.

Una bussola per una destra sociale e una sinistra consapevole

Se davvero la destra italiana volesse essere qualcosa di più del populismo reattivo, dovrebbe riscoprire Vico come guida. Non bastano slogan identitari o politiche securitarie: serve una visione culturale, una radice storica, una comunità simbolica. Vico offre gli strumenti per pensare una destra sociale, capace di coniugare tradizione e giustizia, appartenenza e solidarietà.

Allo stesso tempo, la sinistra avrebbe tutto da guadagnare da una rilettura vichiana. Senza comprendere Vico, non si capisce Gramsci; senza leggere la Scienza nuova, si rischia di ridurre la questione meridionale a una statistica. Solo una sinistra che riconosca l’importanza della fede culturale, della storia, della comunità, potrà davvero rigenerarsi.

Vico è, dunque, un autore “trasversale”, capace di offrire a entrambi gli schieramenti politici una visione più profonda dell’umano e della società. È un pensatore che chiede coerenza tra parole e radici, tra progresso e memoria, tra politica e destino storico.

Vico oggi: più attuale che mai

Nel tempo delle intelligenze artificiali, delle democrazie sfilacciate, delle verità liquide, Vico ci invita a tornare alla profondità dell’umano. Ci ricorda che senza cultura condivisa non esiste politica, che senza storia non esiste giustizia, che senza fede nel senso della vita non esiste civiltà.

In un mondo che ha dimenticato i suoi padri, Vico ci riporta all’origine. Ma non per tornare indietro: per ripartire da ciò che abbiamo rimosso. La sua voce, come quella dei profeti, sembra parlare proprio a noi: disillusi, frammentati, cinici. E ci chiede di riscoprire la verità dell’uomo non nei numeri, ma nei racconti, nei miti, nei simboli.

“Chi non sa far metafore, non sa pensare.” scrive Vico. E forse oggi più che mai, abbiamo bisogno di pensatori come lui, capaci di restituirci non solo idee, ma visioni.

Carlo Di Stanislao 

Fattitaliani

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