“La forza non viene dalla capacità fisica, ma da una volontà indomita.” Confucio
La macchina bellica di Benjamin Netanyahu rallenta, ma non si ferma. Le cosiddette pause tattiche, annunciate tra una riunione e l’altra del governo di guerra, servono più a placare la crescente pressione internazionale che a segnare un reale cambio di rotta nella strategia israeliana. Mentre i droni continuano a sorvolare i cieli della Striscia di Gaza e i mezzi blindati scavano la terra distrutta dei sobborghi, il consenso politico e morale che per decenni ha garantito a Israele una solida rete diplomatica in Occidente si sta lentamente sgretolando.
La crisi umanitaria nella Striscia di Gaza ha raggiunto livelli intollerabili. A fronte di decine di migliaia di vittime civili, di un sistema sanitario al collasso e di una popolazione intrappolata senza acqua, elettricità o rifugi sicuri, anche gli alleati più fedeli iniziano a prendere le distanze. La narrazione di un conflitto simmetrico, dove entrambi i fronti si affrontano con eguali mezzi e pari responsabilità, non regge più. E la diplomazia, con la sua consueta lentezza, inizia finalmente a reagire.
Ne è prova una lettera aperta firmata da quaranta ex ambasciatori italiani, indirizzata alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in cui si chiede all’Italia di seguire l’esempio della Francia e riconoscere lo Stato palestinese. Un atto politico di portata storica, se mai dovesse realizzarsi, che fino a pochi mesi fa sarebbe stato impensabile anche solo evocare. Ma oggi la tragedia in corso costringe molti a rivedere le proprie posizioni.
La risposta di Giorgia Meloni non ha sorpreso: la definizione della proposta come «controproducente» riflette il tentativo, tipico della diplomazia italiana recente, di non scontentare nessuno. Ma il tempo delle ambiguità sembra volgere al termine. Non si tratta più solo di scegliere una linea politica, ma di prendere posizione di fronte a una catastrofe umanitaria senza precedenti. E il fatto che a chiederlo siano figure di lungo corso della nostra diplomazia è il segnale che qualcosa si sta incrinando anche nei palazzi del potere.
Il colpo più inaspettato, però, arriva dall'interno del fronte filoisraeliano più storico e intransigente. Persino Giuliano Ferrara, editorialista e fondatore del Foglio, per anni uno dei più convinti sostenitori delle politiche di Netanyahu, ha mostrato un cambiamento di tono significativo. In un editoriale pubblicato lo stesso giorno dell’intervista a Meloni, ha scritto: «Se occupi un territorio abitato devi nutrire gli esseri umani che lo affollano». Una frase che, nella sua semplicità, suona come una condanna. Non tanto per la brutalità delle operazioni militari, ma per la disumanizzazione sistematica della popolazione palestinese che è alla base della strategia israeliana.
Che un intellettuale come Ferrara, non certo sospettabile di simpatie anti-israeliane, arrivi a questa conclusione è un segno dei tempi. E, se vogliamo, anche un campanello d’allarme per il mondo dell’informazione italiana, troppo spesso allineato acriticamente con la narrazione ufficiale.
Intanto, Netanyahu resta saldo al potere, almeno in apparenza. Ma è un potere sempre più assediato: dalle critiche interne, dai dissidi nel gabinetto di guerra, dall’isolamento diplomatico crescente e da un’opinione pubblica internazionale che fatica sempre più a distinguere tra legittima difesa e punizione collettiva. Le “pause” concesse per far entrare gli aiuti umanitari sembrano mosse tattiche più che gesti di umanità. Una strategia per guadagnare tempo, per abbassare la pressione mediatica, per sedare i malumori all’interno del governo e tra gli alleati occidentali.
Ma il tempo sta finendo. Ogni giorno che passa, la sproporzione tra la forza dell’esercito israeliano e la condizione della popolazione civile palestinese diventa più evidente. Le immagini che arrivano da Gaza non raccontano una guerra, ma un massacro prolungato. Non c’è più spazio per le retoriche che parlano di “scudi umani” e “colpe condivise” come giustificazione universale. E ogni parola che minimizza questa realtà diventa complice.
La questione israeliano-palestinese non si risolverà con una dichiarazione o una presa di posizione simbolica. Ma la legittimazione diplomatica di uno Stato palestinese, oggi più che mai, rappresenta una svolta necessaria. Un passo che serva almeno a riconoscere il diritto dei palestinesi a esistere politicamente, e non solo a sopravvivere sotto occupazione.
Il mondo, anche quello più vicino a Israele, sembra aver imboccato un punto di non ritorno. Quando anche i più fedeli iniziano a dubitare, quando le frasi più ovvie suonano come rivoluzioni, quando le pause servono solo a prolungare l’agonia, allora è chiaro che qualcosa si è rotto. E non si riparerà facilmente.
Carlo Di Stanislao