Arte, Fattitaliani intervista Silvia Gribaudi/Zebra: la sospensione come forma di resistenza



di Giovanni Zambito - A Serradifalco (Caltanissetta), la settima edizione di Performare Festival quest'anno ha come tema Corpo Universo: ha preso ufficialmente il via con un’anteprima, in programma dal 26 al 31 luglio, e tornerà con la sua programmazione dal 1° al 6 settembre 2025.

Domenica 27 luglio, presso la Villa Comunale R. Livatino alle 21:30, Silvia Gribaudi/Zebra ha portato in scena Estratti - SUSPENDED CHORUS, una performance site-specific che ha indagato la relazione tra corpo individuale e collettivo. In un contesto privo di scenografia teatrale, la performer ha coinvolto attivamente il pubblico in un atto coreografico poetico e politico, trasformando lo spazio in un coro sospeso e plurale. L’opera ha decostruito i canoni di bellezza e celebrato la forza del collettivo come metafora della convivenza sociale. Nell’intervista a Fattitaliani, l’artista ha raccontato la genesi del progetto e il senso profondo della sospensione come spazio fertile per la relazione e la creazione. Ha riflettuto sul valore del corpo che cambia, sul gesto come atto civile, sull’energia trasformativa dei luoghi e sull'importanza del coinvolgimento del pubblico. Un dialogo intenso che ci restituisce l'urgenza di riscoprire la coralità in un tempo frammentato.

Come nasce “Suspended Chorus”? Qual è stato il primo seme creativo di questa performance?

Suspended Chorus è nato dall’esigenza di approfondire cosa ci connette come esseri umani. Esplorare una dimensione individuale e collettiva di responsabilità comune, di convivenza e partecipazione a un’attività. In che modo conviviamo? Ci guardiamo?

Il titolo evoca qualcosa di in bilico, di sospeso. Cosa rappresenta per lei questo stato di sospensione?
Nella sospensione trovo che ci siano tutte le possibilità di poter creare e conoscersi. È il tempo dell’indefinito e dell’incertezza. Dove c’è un tempo indefinito c’è una possibilità creativa.

Nel suo lavoro il corpo è sempre al centro, ma questa volta si relaziona fortemente con il collettivo. Cosa significa per lei indagare la relazione tra corpo individuale e corpo sociale?
Significa conoscersi in un tempo della performance e giocare insieme, destrutturando dei ruoli che a tratti ci costruiamo all’interno del tessuto sociale.

Cosa succede quando il pubblico diventa parte attiva della performance? Come cambia il senso del gesto artistico?
Il gesto, grazie alle persone, diventa vivo. Prende senso grazie allo sguardo del testimone pubblico.

Nel suo lavoro c’è una decostruzione evidente dei canoni estetici. In che modo questo spettacolo mette in discussione le convenzioni sul corpo e sulla bellezza?
Attraverso la scelta di mostrare un corpo che non è più giovane. Che impatto ha il nostro corpo nel mondo? Esporre un corpo con grasso, con una pelle non tonica, significa affermare la bellezza della carne che cambia, mettendo in discussione i codici sociali legati all’estetica e alla bellezza.

“Suspended Chorus” ha una dimensione dichiaratamente politica: può raccontarci in che senso il gesto artistico diventa anche un atto civile?
Per me il gesto artistico diventa atto civile quando coinvolge le persone, quando crea uno spazio dove ci si può guardare, ascoltare, stare insieme senza dover aderire a un modello. In Suspended Chorus il gesto nasce dalla relazione, dal corpo che si espone nella sua verità, fuori dai canoni, fuori dalla prestazione. È un atto politico proprio perché semplice, umano, vulnerabile. È nella sospensione che possiamo stare con l’altro senza dover subito definire, decidere o giudicare. E questo, oggi, è già una forma di resistenza.


La performance è site-specific e prende vita in spazi non convenzionali. In che modo l’ambiente influenza o trasforma il lavoro? Come cambia l’energia di una performance come questa in contesti diversi, come una villa comunale all’aperto?

L’ambiente trasforma profondamente il lavoro, perché Suspended Chorus nasce dalla relazione con il luogo e con le persone che lo abitano. Ogni spazio porta con sé una storia, un’energia, un ritmo. Quando la performance si svolge all’aperto, come a Serradifalco, tutto cambia: cambia il suono, cambia lo sguardo, cambia la distanza tra i corpi. Il gesto si adatta, ascolta, risponde, influenzato dalle persone che abitano il paese. È come se il luogo diventasse un altro performer, che dialoga con me. E questo rende ogni replica piena di imprevisti che rendono vivo il lavoro.

Come reagiscono gli spettatori quando vengono coinvolti? C’è diffidenza iniziale, oppure desiderio di partecipare? Che tipo di emozione o riflessione vorrebbe restasse allo spettatore dopo questa esperienza?
All’inizio spesso c’è un po’ di diffidenza, è naturale: siamo abituati a pensare che l’arte si guardi da fuori, in silenzio, a distanza. Ma poi, piano piano, qualcosa si apre. Lo sguardo cambia, il corpo si rilassa, nasce una curiosità, un desiderio di esserci. Non si tratta di fare qualcosa di giusto, ma di essere presenti, anche solo con uno sguardo o con un respiro. Quello che mi piacerebbe restasse è la sensazione di essere parte di un coro, di un’esperienza collettiva dove ogni presenza ha valore. Una riflessione sul fatto che la bellezza non sta nel controllo, ma nella relazione, nell’ascolto, nella sospensione.

Viviamo in una società sempre più individualista. “Suspended Chorus” è anche un invito a riscoprirsi parte di un tutto?
Sì, assolutamente. Suspended Chorus è un invito a riscoprire la coralità, il sentirsi parte di qualcosa che ci supera. Viviamo in un tempo in cui spesso siamo chiusi nei nostri confini, ma il corpo – quando si muove insieme ad altri – ci ricorda che siamo interdipendenti. Non c’è un gesto che non influenzi l’altro. In questo senso, la sospensione non è vuoto, ma spazio condiviso: un tempo per ascoltare, per respirare insieme, per accorgersi che non siamo soli, e che ogni presenza ha un peso, un suono, un senso.


In un mondo frammentato, che valore assume oggi per lei la parola “corpo collettivo”?

In un mondo frammentato, “corpo collettivo” per me significa ricordare che siamo legati, anche se spesso ce ne dimentichiamo. È il riconoscere che i corpi non esistono mai isolati: si influenzano, si rispecchiano, si sostengono. Il corpo collettivo non è uniforme, ma è fatto di differenze che convivono. È un luogo dove l’ascolto è più importante del controllo, dove si può sbagliare, ridere, cadere, senza dover dimostrare nulla. È un gesto politico e poetico allo stesso tempo: stare insieme senza perdere la propria unicità.

Fattitaliani

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