“Quando è successo, ovviamente il primo momento non è stato così lucido. La lucidità della reazione è venuta qualche mese dopo, quando ho cominciato a pensare che per Nicola avrei dovuto chiedere verità e giustizia, come hanno fatto altri successivamente per altre vicende, come la vicenda Regeni. Avendo due figli piccoli ho pensato che Nicola meritasse una mia battaglia, ci dovevo provare. Avevo di fronte gli Stati Uniti, qualcuno mi disse ‘Fare la guerra agli Stati Uniti? Ma sei pazza?’. Io non volevo fare la guerra a nessuno, volevo semplicemente capire le dinamiche che hanno portato a quella situazione. Nicola era una persona molto prudente, molto attenta, di grande esperienza. Non era la prima negoziazione né il primo sequestro, la prima persona che liberava… Quindi perché era successo? Nicola non aveva cattivi rapporti con gli americani, noi eravamo uno Stato alleato, in un conflitto che in effetti non era iniziato con il sigillo delle Nazioni Unite. All’inizio fu di fatto un’invasione, poi diventò una missione di pace, ma di pace non c’era niente”. Così la vedova di Nicola Calipari, Rosa Maria Villecco Calipari, a Che tempo che fa di Fabio Fazio sul Nove, a 20 anni dalla sua morte e in occasione dell’uscita del film “Il Nibbio” con Claudio Santamaria.
Sulla sua riservatezza in ambito lavorativo. “Nicola era una persona molto riservata in generale, anche quando era in polizia, ha sempre mantenuto questo riserbo. Allora si parlava poco anche con la stampa. Coi figli ma anche con me quando poi andò nel SISMI, non si discuteva del suo lavoro. Io poi capivo, intuivo, seguivo le vicende anche esterne… Che c’era un conflitto in Iraq lo sapevamo tutti e che quel conflitto ci trovasse ben presenti, mi faceva pensare che Nicola spesso andava in Medio Oriente, questo lo sapevo, ma non i dettagli. Della pericolosità ne avevo ampiamente conoscenza”.
Sul suo atto eroico che l’ha portato alla morte. “Il coraggio non è qualcosa che arriva di botto. Non nel momento finale quando fai la scelta di morire per proteggere qualcuno, ecco perché non credo alla parola ‘eroe’. È un insieme del modo di essere, dei valori, delle idee che ti portano a essere altro che quello, altrimenti non mi sarei mai spiegata perché avrebbe lasciato me e i suoi figli, perché in quel momento proteggere Giuliana (Sgrena) e non pensare che la sua famiglia lo stesse aspettando a casa. È ovvio, lui non poteva fare altrimenti: lui era cattolico, era uno scout, ha sempre tutelato i più deboli, i minori, gli omosessuali, gli immigrati nell’ufficio immigrazione. Era un poliziotto atipico ma io vorrei tanto – e questo è il messaggio che vorrei passasse con questo film (‘Il Nibbio’) – che invece fosse tipico esattamente questo modello di persone, che coniuga sicurezza e tutela dei diritti umani”.
Sull’editoriale pubblicato da Giuliana Sgrena nei giorni scorsi in cui ringraziava la signora Calipari per non averla mai fatta sentire in colpa. “Non era certo colpa sua. Non si è mai creata una dinamica difficile tra di noi. Io sono andata dopo 5 giorni al Celio per incontrarla”.
Sulla parola “Nibbio”. “Il nibbio è un piccolo rapace dell’Aspromonte. Nicola era di Reggio Calabria e faceva parte del gruppo scout Aspromonte. L’Aspromonte era pieno di latitanti ‘ndanghetisti, quando tutti negavano che la ‘ndrangheta” esistesse in quegli anni. Quindi è un ricordo di questo che lo ha portato a scegliere quel nome come nome di battaglia”.
Sulla conoscenza di Nicola Calipari del proprio lavoro e le sue abilità. “Fare analisi geopolitica non è una cosa semplice, non era uno studioso alla Lucio Caracciolo, però operando si rendeva conto. Quello è il concetto di informazioni. Come costruire cornici di sicurezza in territori dove devi andare a trattare non con i buoni ma con i cattivi, con quelli che stanno chiedendo qualcosa in cambio. La scuola era la realtà ma anche molti anni in polizia, anche lì si fa analisi, lui ha sempre fatto indagini, era uno che veniva dalla squadra mobile, per cui era un operativo, ma un operativo di testa. Come disse il Presidente Cossiga, mio vicino di casa, quando venne a farmi le condoglianze: ‘Si ricordi, suo marito era un investigatore, non un muscolare. E con queste parole mi fece capire molto”.