Maggie S. Lorelli, giornalista e scrittrice, ci presenta i suoi libri “The human show” e “HYBRIS” e ci parla del suo lavoro. INTERVISTA di Andrea Giostra.
«I miei libri invitano a guardarsi dentro, a ricercare l’autenticità nel dialogo interiore con sé stessi e con gli altri. Invitano a schivare il pericolo della manipolazione e dell’edonismo imperante, che ci rende da una parte desiderosi di mostrarci per ciò che non siamo, esibendo vite di plastica e immagini fake di noi stessi, in nome di un consenso che ci dà una gratificazione momentanea ma che non riempie i nostri vuoti.» Maggie S. Lorelli
Ciao Maggie,
benvenuta e grazie per aver accettato il nostro invito. Come ti vuoi presentare
ai nostri lettori che volessero sapere di te quale giornalista e scrittrice?
Mi presento come una persona che si divide tra diverse attività: la musica, la scrittura e l’attività giornalistica. La prima fa parte della mia formazione primaria: ho sempre studiato musica sin da piccola, e sento il pianoforte come il mio habitat, e anche se è un’attività faticosa, che assorbe buona parte del mio tempo, ma non potrei farne a meno. Scrivere invece è un’attività più libera, una necessità quasi, perché mi permette di esprimere le mie idee e la mia visione del mondo che non ho modo di esprimere altrimenti. Infine, il giornalismo risponde a una mia esigenza di conoscere dei dati di realtà risalendo direttamente alla fonte, è uno strumento di conoscenza. Intervisto personaggi importanti della realtà culturale, musicale e sociale, e imparo da loro.
Chi è
invece Maggie Donna al di là dell’essere una giornalista e scrittrice? Cosa
puoi raccontarci di te e della tua quotidianità oltre il lavoro?
Ben poco. Lavoro quasi sempre, studio quasi sempre. Ogni tanto mi concedo dei viaggi, che sono un’attività che mi rende felice. Amo conoscere nuovi luoghi, osservare, camminare e perdermi nelle città, respirare nuove atmosfere. A casa leggo, guardo film d’autore e ascolto musica. Sono piuttosto solitaria, ho rapporti sociali sporadici ed evito le relazioni affettive: troppo inaffidabili.
Qual è il tuo percorso accademico, formativo,
professionale ed esperienziale che hai seguito e che ti ha portato a fare
quello che fai oggi nel vestire i panni di giornalista e scrittrice?
Ho una laurea in lettere, una laurea in pianoforte al Conservatorio, mi
sono quasi laureata in Scienze Politiche, ho fatto studi di Composizione e
Musica elettronica e attualmente studio Musicologia. Sono iscritta all’ordine
dei giornalisti, e questo ha comportato un lungo training in una redazione. Ho
scritto per diversi giornali e riviste e ho continuamente nuove collaborazioni.
Le collaborazioni di cui vado maggiormente fiera sono quella con “La Voce di
New York”, che mi ha permesso di raccontare alcune belle realtà o
personaggi agli italiani emigrati negli Sati Uniti d’America e non solo, e la
mia collaborazione con la rivista MUSICA, la più antica e una delle più
prestigiose riviste musicali italiane. Tra poco avrò una nuova prestigiosa
collaborazione, ma ancora non l’anticipo… Per quanto riguarda la scrittura, a
un certo punto ho sentito l’esigenza di fissare sulla carta le mie idee, perché
volevo che fossero il mio lascito, la mia orma nel mondo.
Come
nasce la tua passione per scrittura, per i libri, per l’editoria, per il
giornalismo e per il lavoro che fai oggi? Chi sono stati i tuoi maestri e quali
gli autori che da questo punto di vista ti hanno segnato e insegnato ad amare i
libri, le storie da scrivere e raccontare, il giornalismo, e il variegato mondo
della letteratura e del sapere?
La passione per la scrittura nasce da quand’ero molto piccola. Dapprima i libri per bambini, che adoravo, perché mi aprivano finestre su nuovi mondi affascinanti, dopo di che i primi romanzi, alcuni dei quali forse inadatti alla mia giovane età. Insomma, non credo che leggere Gramsci o Musil fosse indicato per un’adolescente. Ma poi ci sono stati i libri che mi hanno illuminato, come l’intera “Récherche” di Proust, “La coscienza di Zeno” e Saramago, un vero Maestro, in particolare “Cecità”. E poi grandi classici, come Dostoevskij, Tolstoj o Victor Hugo. E poi Philip Dick, che mi ha aperto uno spaccato distopico, e poi Roth, ma potrei citarne molti altri.
Ci
parli dei tuoi ultimi libri, “The human show”
e “HYBRIS”? Come
nascono, qual è l’ispirazione che li ha generati, quale il messaggio che vuoi
che arrivi al lettore, quale le storie che ci racconti senza ovviamente fare spoiler?
“The human show” nasce dal mio spirito di osservazione, che mi porta
talvolta a osservare la commedia umana dal di fuori, trovandola piuttosto
bizzarra. L’avvento dei social network ha creato negli “human” una sorta di
dissociazione. Passano, scusa, passiamo buona parte della nostra giornata a
comunicare in maniera virtuale, e questo comporta una rinuncia ad alcuni sensi
e, soprattutto, alle emozioni, cioè esattamente a ciò che ci rende umani.
Questo non può non avere delle conseguenze nelle nostre relazioni quotidiane.
Non ci riflettiamo mai abbastanza. Il mio invito al lettore è proprio quello di
utilizzare consapevolmente il mezzo tecnologico, che ci sta trasformando senza
che ce ne accorgiamo, che ci sta plasmando secondo modelli che hanno fini di
lucro e che sono quindi, necessariamente, privi di etica. Il tema di sottofondo
è la manipolazione di massa, che investe anche “HYBRIS”, che basandosi su un
mio precedente scritto che si intitolava “Automi”, nel quale ho previsto nel
2017 la pandemia e la vaccinazione di massa, in realtà è preveggente anche su
altri fronti, toccando anche il tema dell’impianto dei microchip neurali che
attualmente sono già una realtà, se pensiamo a Neuralink di Elon Musk e che
aprono scenari futuri da una parte rassicuranti, in merito all’aiuto per certe
malattie invalidanti, ma dall’altra inquietanti. Siamo infatti agli albori
della telepatia.
Una domanda
difficile, Maggie: perché i nostri lettori dovrebbero comprare “The human show” e “HYBRIS”? Prova
a incuriosirli perché vadano in libreria o nei portali online per acquistarli.
Perché i miei libri invitano a guardarsi dentro, a ricercare l’autenticità nel dialogo interiore con sé stessi e con gli altri. Invitano a schivare il pericolo della manipolazione e dell’edonismo imperante, che ci rende da una parte desiderosi di mostrarci per ciò che non siamo, esibendo vite di plastica e immagini fake di noi stessi, in nome di un consenso che ci dà una gratificazione momentanea ma che non riempie i nostri vuoti. Nei miei libri ci sono degli Idol, che richiamano gli Influencer della modernità, persone che vendono sogni a una massa di frustrati senza personalità che preferiscono passare le ore di fronte a video improvvisati di balletti o idiozie varie, piuttosto che pensare. I miei scritti invitano a riflettere sul fatto che se gli individui non prendono consapevolezza dei loro comportamenti, rischiano di diventare pedine di un meccanismo che li rende solo merce, prodotti da sfruttare sino all’osso, anzi sino all’anima.
«Quale sarà la condizione
della società e della politica di questa Repubblica di qui a settant’anni,
quando saranno ancora vivi alcuni dei bambini che adesso vanno a scuola?
Sapremo salvaguardare il primato della Costituzione, l’uguaglianza di tutti i
cittadini di fronte alla legge e l’incorruttibilità della giustizia, oppure
avremo un governo del denaro e dei disonesti?» (Joseph Pulitzer, “Sul
giornalismo”, 1904). Cosa ne pensi di queste parole di Pulitzer, che
scrisse nel suo saggio sul giornalismo pubblicato nel 1904? In che stato di
salute vive oggi il giornalismo occidentale, secondo te?”
Rispondere a questa domanda presupporrebbe conoscere lo stato del giornalismo di tutti i Paesi della sfera occidentale. Ho sempre un occhio rivolto verso la dimensione internazionale, e io stessa ho scritto anche per un quotidiano che ha sede a New York, come dicevo, ma vorrei rispondere solo per l’Italia, in cui risiedo. Mi pare evidente che ci sia un certo conformismo, nei contenuti e nel linguaggio, e un assecondare tendenze internazionali che remano da una certa parte. Poiché credo che l’Italia sia una Nazione eterodiretta, i veri “padroni” non sono le forze politiche che continuamente si avvicendano al potere nazionale, le quali a loro volta, rispondono a logiche più alte. Tuttavia penso che, al di là del conformismo imperante, a sua volta manipolatorio nei confronti dei lettori, ci sia anche un ottimo giornalismo d’inchiesta, che purtroppo è minoritario rispetto al pappagallismo imperante. Bisognerebbe vigilare e ribellarsi quando ogni tanto viene tagliata qualche testa, e anche di questo parlo nei libri. Fuori gli intelligenti dalle cabine di regia dei media e via libera ai pappagalli del potere.
«In una società in cui le parole sono
usate anzitutto nel loro valore emotivo, gli uomini non sono liberi. Sono
schiavi spesso per opera del demagogo che sa usare con astuzia i valori
connotativi delle parole … altre volte si è schiavi per una sorta di occulto
patto sociale per cui certi valori, che è scomodo sottoporre a critica, sono
protetti da parole magiche, che istintivamente connotano “positività”. Allora
tutte le parole che connotativamente vi si oppongono appaiono alonate di
terribile e ampia “negatività”. Quando una società è prigioniera di questi tabù
linguistici, chi cerchi di muovervisi criticamente è soggetto a esperienze
tremende, prigioniero della maglia di parole da cui sarà soffocato, personaggio
kafkiano che infine non riuscirà più a comprendere quali sia il potere che lo
sovrasta.» (Umberto Eco, “Sotto il nome di
plagio”, Bompiani ed., Milano, 1969). Cosa ne pensi di questa lucida
analisi di Umberto Eco che fece nel lontano 1969 e oggi quanto mai attuale?
Qual è, secondo te, oggi il valore della parola e quali i rischi terribili
nell’usarla criticamente contro il cosiddetto mainstream?
Intanto il rischio principale è che la parola si perda. Parliamo tutti sempre di meno, sono sempre più rari i luoghi e le occasioni di dibattito e di incontro/scontro dialettico. La società attuale, complici i social network, mira a farci chiudere in casa e a esprimerci con l’illusione di essere tutti collegati e uniti. In realtà siamo soli e disgregati, e la parola di ognuno, nel mare magnum della rete, diventa lettera morta. Le grandi rivoluzioni si sono sempre fatte nelle piazze, per le strade, quando la gente si incontra in un unico luogo per urlare all’unisono, allo stesso ritmo cardiaco. Anche se ultimamente il dissenso pubblico è assai mal tollerato e inibito, per non dire represso. L’analisi di Umberto Eco è molto sottile, e penso anch’io che le parole siano prigioniere di stereotipi. Bisognerebbe tornare al valore semantico ed etimologico originario delle parole, anche perché appunto la gente utilizza spesso frasi fatte e non conosce il vero significato delle parole che utilizza. Il fatto che il latino e il greco, da cui la nostra lingua origina, siano considerati lingue morte e sempre meno studiati, secondo me è un gran danno, perché studiando quelle meravigliose lingue (bellissime anche musicalmente) si comprenderebbe meglio il senso della nostra altrettanto affascinante lingua, che spesso utilizziamo male e in maniera sempre più povera. Riguardo al fatto che le parole siano utilizzate nel loro senso emotivo, non sono pienamente d’accordo con Eco: la nostra epoca è piuttosto alessitimica ossia le parole sono svuotate di emotività, e le persone non sono abituate a un dialogo emotivo, in cui le parole siano veicolo di emotività, sono contenitori vuoti. Anche se si legge sempre meno e i social inibiscano la parola in favore delle immagini o dei video, bisogna che continuiamo a far transitare la parola da qualche parte: a leggere, a scrivere, a parlarci guardandosi in faccia, perché anche la prossemica arricchisce le parole di significato emotivo.
In Italia ogni anno si
pubblicano tra i 75 e i 80 mila nuovi titoli, con le circa 2000 Case Editrici
attive nel nostro Paese (dati
del 2021, fonte: https://cepell.it/dati-aie-editoria-nel-2021-16-per-romanzi-e-saggistica-audiolibri-37/). La media ponderata di
vendita di ogni nuovo titolo è di circa 50 copie; mentre chi legge
effettivamente tutta l’opera letteraria acquistata non supera il 10%, il che
vuol dire che delle 50 copie vendute solo 5 copie vengono effettivamente lette
da chi acquista in libreria o nei distributori online. In Italia il
numero di lettori assidui, che acquistano e leggono almeno 2 libri al mese, non
supera il milione di abitanti. Partendo da questo dato numerico, che per certi
versi fa impressione e ci dice chiaramente che in Italia non si legge o si
legge pochissimo, secondo te cosa si dovrebbe fare per migliorare questa
situazione? Cosa dovrebbero fare gli editori, gli autori, ma anche le agenzie letterarie,
i critici letterari, e in generale gli addetti ai lavori, per far aumentare il
numero dei lettori e degli appassionati ai romanzi, ai racconti, alle poesie e
alle storie da leggere?
Secondo me, innanzitutto la passione della lettura dovrebbe essere inculcata ai più piccoli in famiglia. Ossia i genitori o qualsiasi altro datore di cura, dovrebbe leggere a voce alta i libri ai bambini e incoraggiarli poi sin dalla più tenera età alla lettura in proprio. L’editoria pensata per i più piccoli offre una proposta molto ampia e variegata con tutte le facilitazioni per le varie età: basterebbe, da parte dei genitori, portare più spesso i libri in libreria, passare un bel po’ di tempo nel reparto bambini e imparare a giocare coi libri, a maneggiarli. E poi la scuola: organizzare delle sessioni di lettura, dove ogni studente o studentessa possa leggere a voce alta e interpretare le letture tratte innanzitutto dai classici. I libri, ricordiamo, sono veicolo valoriale, e tanti insegnamenti si possono trarre dai libri per comprendere l’animo umano. Tutto è già stato detto dai grandi pensatori e dai grandi autori: basterebbe frequentarli un po’ di più per comprendere meglio la realtà e le relazioni umane, perché anche se le società cambiano, l’animo umano, secondo me, è immutabile. Riguardo al settore specifico dell’editoria, intanto credo che debba essere meno spocchioso e meno “amichettistico”. Ci sono molti editor incompetenti, che non hanno mai fatto studi grammaticali e linguistici e sono del tutto privi delle basi culturali per editare i libri altrui. Naturalmente anche molti autori hanno scarse basi culturali e linguistiche, perché molti scrivono molto e hanno letto assai poco. Riguardo agli editori, forse si potrebbe cominciare a pensare a dei libri multimediali. Qualcosa è stato fatto, ma credo che il libro, se vuole sopravvivere, debba adeguarsi a una realtà di fruizione virtuale, che coinvolga più facoltà percettive.
«Lasciate che vi
dia un suggerimento pratico: la letteratura, la vera letteratura, non
dev’essere ingurgitata come una sorta di pozione che può far bene al cuore o al
cervello – il cervello, lo stomaco dell’anima. La letteratura dev’essere presa
e fatta a pezzetti, sminuzzata, schiacciata – allora il suo squisito aroma lo
si potrà fiutare nell’incavo del palmo della mano, la potrete sgranocchiare e
rollare sulla lingua con gusto; allora, e solo allora, il suo sapore raro sarà
apprezzato per il suo autentico calore e le parti spezzate e schiacciate si
ricomporranno nella vostra mente e schiuderanno la bellezza di un’unità alla
quale voi avrete dato qualcosa del vostro stesso sangue» (Vladimir Nabokov, “Lezioni di letteratura russa”, Adelphi ed., Milano, 2021). Cosa ne
pensi delle parole di Nabokov a proposito della lettura? Come dev’essere letto
un libro, secondo te, cercando di identificarsi liberamente con i protagonisti
della storia, oppure, lasciarsi trascinare dalla scrittura, sminuzzarla nelle
sue componenti, per poi riceverne una nuova e intima esperienza che poco ha a
che fare con quella di chi l’ha scritta? Qual è la tua posizione in merito?
Credo che nella “vera” letteratura, per richiamare l’aggettivo di Nabokov, sia innervata di idee e di valori. Almeno, io ho assorbito i miei dalla letteratura. La considero quindi, invece, proprio una pozione magica che fa bene al cervello e al cuore. Quando la letteratura è vera arte, e non ho difficoltà a riconoscerla, in quanto uno scrittore di talento riesce a prorompere nella sua originalità di pensiero tra le righe di un romanzo (e, in un mondo di omologazione anche linguistica, anche con il proprio stile), riempie l’anima e ha lo stesso effetto che può dare l’ascolto di una Sinfonia di Beethoven o la visione di un quadro di un pittore immortale. Non tutta la letteratura è arte. Un libro può anche non comunicare niente, se non ha dietro una grande anima e un essere il cui pensiero sa volare alto e vedere oltre, più in profondità degli altri.
«Per quanto riguarda i corsi di scrittura io li chiamo Club per cuori
solitari. Perlopiù sono gruppetti di scrittori scadenti che si riuniscono e …
emerge sempre un leader, che si autopropone, in genere, e leggono la loro roba
tra loro e di solito si autoincensano l’un l’altro, e la cosa è più distruttiva
che altro, perché la loro roba gli rimbalza addosso quando la spediscono da
qualche parte e dicono: “Oh, mio dio, quando l’ho letto l’altra sera al gruppo
hanno detto tutti che era un lavoro geniale”» (Intervista a
William J. Robson and Josette Bryson, Looking
for the Giants: An Interview with charles Bukowski, “Southern California
Literary Scene”, Los Angeles, vol. 1, n. 1, December 1970, pp. 30-46). Ha
ragione Bukowski a dire queste cose a proposito di coloro che frequentano corsi
di scrittura creativa? Cosa ne pensi in merito? Pensi che servano davvero per
imparare a scrivere anche se il
talento non c’è? Come si diventa grandi e apprezzati scrittori secondo te alla
luce della tua esperienza di giornalista e scrittrice?
Ho un’esperienza del tutto diversa. Mi è venuta voglia di scrivere
proprio frequentando un gruppo di scrittura creativa. È stato molto stimolante
e, incoraggiata dagli altri, che trovavano di forte impatto il mio modo di
scrivere, quando i miei racconti o stralci di romanzi venivano letti a voce
alta, ho iniziato a immaginare di poter pubblicare. Quest’ultimo passaggio non
è molto semplice, forse perché ci sono molti aspiranti scrittori, molti dei
quali convinti di essere i talenti del secolo. Di fronte a tanta superbia si
giustifica parzialmente il distacco di molti editori, che preferiscono delegare
alle agenzie rinunciando a fiutare i possibili talenti che potrebbero
nascondersi nell’indistinta massa degli aspiranti senza conoscenze, senza
amichetti e senza nome. Non escludo che molti capolavori siano chiusi dentro
qualche cassetto e non vedranno mai la luce….
Ci parli dei tuoi imminenti e prossimi impegni
letterari e professionali, dei tuoi lavori in corso di realizzazione? A cosa
stai lavorando in questo momento? In cosa sei impegnata che puoi raccontarci?
Porto avanti un progetto musicale che riguarda le compositrici, le
invisibili donne della musica, oscurate dalla storia in quanto donne. Faccio
reading-concerti in tutta Italia dove racconto le storie di queste donne e ne
eseguo le musiche. Sto scrivendo un libro che le riguarda. Inoltre, progetto un
nuovo romanzo su un tema ancora una volta di cui ancora poco si parla ma che è
già nell’aria e sul quale vengono fatti già degli esperimenti scientifici.
Intanto continua la promozione di “The human show” e “HYBRIS”, che mi ha dato
molte soddisfazioni, soprattutto in termini di interesse e dibattito che i libri
sempre suscitano durante le presentazioni. Quando presento i miei libri le
persone vogliono sempre intervenire e dire la loro, perché evidentemente tocco
temi che interessano noi tutti. Questo mi fa piacere, perché si creano proprio
quelle occasioni di dibattito di cui c’è molto bisogno ora.
Maggie S. Lorelli
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Il libro:
Maggie S.
Lorelli, “The human show”, Castelvecchi editore, 2022
Andrea Giostra
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