Paolo Ballardini, lo scrittore romanziere che ama viaggiare: un romanzo non è mai finito, è vivo. L'intervista



Intervista di Laura Gorini

Ci ha raccontato in un romanzo la vita di Yosep e di Miryam, i genitori di Gesù, prima della sua nascita, con una grande umanità, Paolo Ballardini (foto di Tom Trevatt). Grande viaggiatore e studioso, ci ha racconta di come sia riuscito nel suo intento di trasformare il lettore in un personaggio antico, contemporaneo ai protagonisti della sua ultima opera.

Paolo, lei è uno scrittore e un viaggiatore. Nasce prima l'amore per la scrittura o per il viaggio?

Viaggiare e scrivere non sono facilmente separabili. Viaggiare è condividere. Se le persone con le quali si vuole condividere un’esperienza non sono a portata di mano, allora bisogna raccontargliela. Scrivere è più efficiente che narrare a voce: si deve seguire un filo logico, si può rimuovere ciò che l’ascoltatore non troverebbe interessante, si distilla. Poi ci si accorge che si possono coinvolgere altre persone nelle esperienze che ci hanno ispirato e fornito idee. Queste idee si sviluppano silenziosamente e anche molto tempo dopo danno frutti che prendono forma in reportage, racconti, personaggi, ambienti e circostanze.

Si dice che per viaggiare davvero bisogni anche staccare realmente la spina dal quotidiano anche mentalmente, lei come riesce a farlo?

 Forse ci vuole un po’ di disciplina. Si cerca di osservare ed elaborare. Si evitano distrazioni: email, messaggini e social media non sono solo inopportuni, sono dannosi. I nostri cari hanno diritto alla nostra attenzione indivisa, a casa. In viaggio no. Passare il tempo al telefono significa forse che la persona dall’altro capo aveva bisogno di noi e non saremmo dovuti partire. Ma se siamo partiti, allora dobbiamo vivere adesso e qui. Al resto penseremo al ritorno.

Tuttavia sovente si viaggia fisicamente ma non con il cuore. Quanto conta la fantasia e la curiosità per poterlo fare come si deve?

 Io mi picco di essere un viaggiatore. Nel viaggio cerco esperienze. Questo mi distingue dal turista che sente l’obbligo di divertirsi. Io alle volte non mi diverto affatto, ma apprendo anche nelle circostanze più scomode.

Quando si viaggia ci si mette anche in discussione. Lei lo ha mai fatto sia dal punto di vista umano che professionale?

Mah, non credo di aver bisogno di viaggiare per “mettermi in discussione”. So chi sono. Se ho un dubbio, cerco nel quotidiano le soluzioni possibili. Viaggiare non risolve problemi, al massimo può aiutare a inquadrarli meglio. In viaggio ci portiamo comunque il nostro fardello.

Lei ha visitato i luoghi di cui parla dettagliatamente?

Sono stato quattro volte in Medio Oriente e ho visitato i luoghi della Bibbia e dei Vangeli, anche le trappole per turisti come la “grotta della Natività” e il “Santo Sepolcro”. Ma mi sono anche seduto a lungo a osservare i contorni delle montagne intorno a Nazareth, ho mangiato il pesce del Lago di Tiberiade, lo stesso che pescava Pietro, mi sono bagnato nel Mar Morto, ho camminato per i sentieri che il predicatore, esorcista e guaritore della Galilea ha percorso, ho viaggiato nel deserto e sono stato due volte in cima al Sinai, ho respirato l’aria e percepito odori e profumi di ognuno di quei luoghi.


Nelle prime pagine troviamo l'infanzia di Miryam/Maria. Lei ha evitato di mettere i protagonisti mettere su un piedistallo, dimostrando la loro umanità, difetti inclusi. Come è riuscito?

Il mio è un romanzo, e in nessun punto pretende di essere storia o teologia. Però è basato su tutto quanto sappiamo della vita, delle abitudini, dei valori, della concezione del mondo di quel tempo. La posizione remota di Nazareth fa di Maria e Giuseppe due ebrei conservatori. Dai Vangeli canonici sappiamo con certezza che i genitori di Gesù si chiamavano così e che Yosep non era il padre carnale del predicatore. Matteo, Marco e San Paolo ci parlano dei fratelli di Gesù. Associando la tradizione ebraica e la ricerca scientifica alla lettera dei Vangeli possiamo formulare ipotesi su come i protagonisti interpretavano gli eventi intorno a loro, a quali credenze si attenevano, cosa speravano e desideravano.

La stesura è stata molto complessa?

Mi sono basato sui Vangeli canonici, sugli apocrifi, sulla prima letteratura cristiana e sull’analisi critica dei maggiori accademici contemporanei. Ho lavorato sulla Bibbia e sulla tradizione ebraica. Ho ricercato tra i miti dell’antichità quelli che possono avere influenzato la narrativa ebraica e cristiana. Ripeto, il mio è un romanzo: il mio intento è trasformare il lettore in un personaggio antico, contemporaneo ai protagonisti.

Ci sono stati dei momenti in cui ha pensato di gettare la spugna?

In ogni scritto la difficoltà principale è cercare a una prosa asciutta e personaggi convincenti. Scrivere è specialmente riscrivere, aggiungere e togliere, raffinare. No, non mi sono mai stancato di narrare la storia di Miryam e Yosep, ma ho faticato a rimuovere eventi e particolari interessanti in cui avevo coinvolto i miei protagonisti. 

Quando ha capito che il romanzo si poteva dire finalmente concluso?

Un romanzo non è mai finito. Raccontiamo storie e ogni volta che raccontiamo, la ogni storia emerge un po’ diversa. Anche la Bibbia rielabora e ripropone avvenimenti già narrati, antichissimi.

Oggi, rileggendolo, che effetto le fa?

Mi pare di leggere un copione che conosco molto bene. Ascolto i personaggi parlare e scopro che qui un personaggio avrebbe potuto esprimersi con più economia di parole, e là avrebbe potuto aggiungere qualcosa, magari con uno sguardo. Un romanzo non è mai finito, è vivo.

Fattitaliani

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