di Francesca Ghezzani -
Prima ricercatore e poi
professore universitario di diritto amministrativo, Massimo Tucci è arrivato in
libreria con LA MIA LOBBY (Albatros Edizioni), un titolo quanto mai profetico e
attuale visti gli scandali tra concorsi pilotati, concessioni e altri fatti di
cronaca a cui stiamo assistendo.
In questa pagine Tucci prende in esame la realtà dell’università italiana e lo fa con quel piglio che fin da giovane – quando avrebbe voluto fare lo scrittore e il giornalista - l’ha visto andare con strenua determinazione controcorrente al sistema, alle dinamiche e alle sue falle: lo stesso principio su cui ha costruito poi tutta la sua carriera accademica.
Massimo, i riti e le manovre di
potere di una casta esclusiva sono esaminati con ironico disincanto da un
Insider che li ha vissuti in prima persona in oltre trent’anni di carriera e
vorrebbe che le cose cambiassero. Quali cose, esattamente?
Dire cosa dovrebbe cambiare è
estremamente semplice ed estremamente complesso al tempo stesso. Semplice
perché basterebbe spezzare il legame fortissimo tra Maestro e allievo destinato
alla carriera accademica e sostituirlo con un legame altrettanto essenziale tra
aspirante professore ed istituzione universitaria. Complesso perché, se è
facile trovare soluzioni tecniche per conseguire a livello teorico questo
risultato (ad esempio impedendo al Maestro del candidato di far parte della
commissione esaminatrice) difficile è cambiare la mentalità di intere
generazioni di docenti dai quali dipende qualsiasi riforma. Noi professori
siamo infatti convinti di essere i più idonei a giudicare se un nostro allievo
è maturo o no per la cattedra. Giusto, ma riservandoci questo diritto impediamo
di fatto a tutti coloro, pur validissimi, che un Maestro non ce l’hanno, di
accedere alla carriera accademica. Questo nostro sistema insomma non prevede
figli illegittimi. Rischiano la rupe Tarpea come nell’antica Roma.
L’editore ha sottolineato come
un’opera del genere mancasse nella descrizione di un mondo la cui importanza è
cruciale per formare le prossime generazioni ma che al contempo è ancora
vittima di usi e retaggi oramai insostenibili. Come ti appaiono gli studenti
oggi rispetto a quelli di un tempo?
Gli studenti di oggi rispetto a
quelli di ieri? La differenza? Nessuna. Forse quelli degli anni Ottanta e Novanta
del secolo scorso erano più arrabbiati: il baby boom aveva gonfiato le aule universitarie
mettendo in luce l’inadeguatezza delle nostre strutture. Si faceva alle volte
lezione nei cinema o in immensi spazi improvvisati. Ricordo lezioni al Palazzo
della Civiltà del Lavoro di Torino, costruito per celebrare l’Unità d’Italia e
adibito a contenitore universitario, con aule delimitate da divisori in legno, dove
stavo stipato con settecento studenti. Un rapporto con l’allievo, prima ancora
che difficile, di fatto inesistente. Ma se si riusciva ad avere un qualche
rapporto, ieri come oggi, era meraviglioso: occhi attenti, sguardi che non
perdevano e non perdono una parola di quello che dici. Certamente mi ha aiutato
il fatto di avere insegnato materie del terzo e quarto anno. Mi sono sempre
rivolto a studenti consapevoli del perché sedevano lì, di fronte a me. Cercavano
e cercano risposte che io tentavo e tento, ancor oggi, di dare loro.
Come siamo arrivati alla
situazione odierna?
Sembra il titolo del film Mio Dio, come sono caduta in basso! perché, certo, siamo arrivati ad un punto molto basso. Mi piacerebbe accusare, come molti miei colleghi, la mancanza di fondi per la ricerca e l’insegnamento. Vero, ma non è tutto qui: non abbiamo voluto rinnovarci nell’illusione, come il Principe di Salina nel Gattopardo che cito nel mio libro, di essere perfetti. Noi siamo la crema intellettuale del Paese, quelli che sono destinati a guidarlo, che bisogno abbiamo di migliorarci? Creiamo nuove strutture universitarie, dotiamole degli strumenti scientifici più adeguati, e tutto andrà per il meglio. In realtà ogni riforma vera nasce dagli uomini, dalle coscienze degli uomini. Se non ci convinciamo che questo sistema accademico va rifondato non ne usciremo mai anche con tutti i soldi di questo mondo.
In chiusura, non è però un punto di non ritorno, giusto? Ovvero: punti il faro contro la realtà accademica e le sue regole, cercando non solo di criticare ma anche di “costruire” una via d’uscita da percorrere nei prossimi anni, per continuare a dare speranza a chi rappresenterà il futuro del nostro paese?
Se mai ho desiderato avere una bacchetta magica o anche soltanto
disporre della Lampada di Aladino con la sua autonomia limitata in fatto di
miracoli, questo sarebbe stato per modificare lo stato di cose della nostra
università. Certamente le soluzioni proposte valgono per ogni facoltà scientifica
dato che sono strutturali: attuare una riforma per la quale qualsiasi inserimento
in carriera e qualsiasi progressione nella stessa non dipendono dal singolo
cattedratico, ma dalla struttura universitaria nel suo complesso. Attraverso
meccanismi interni sarebbe la stessa università a scegliere i docenti
individuandoli in ambito internazionale tra quelli che meglio possono
rispondere ai progetti scientifici che ha individuato come prioritari. In altri
termini, come dicono i nostri politici più o meno tromboni, ad ogni elezione per poi fare esattamente il contrario:
prima i programmi, poi le persone. Se tu sei uno scienziato anche di grande
qualità, ma le tue ricerche non rientrano nel quadro dei programmi che l’università
si è data, allora non mi servi e sceglierò qualcuno, magari meno titolato di te,
ma che si inserirà perfettamente nel team di ricerca che stiamo valorizzando.
Così facendo si otterrebbero i risultati che tutti dicono di voler conseguire: apertura dei concorsi a elementi esterni anche provenienti dall’estero, miglioramento della qualità scientifica della nostra ricerca, concentrazione delle risorse su quei progetti che, a livello statale o di Unione europea, siano ritenuti prioritari per il progresso della Nazione. Troppo enfatico? Forse, ma molto efficiente.