Federico Grazzini, regista de "Il barbiere di Siviglia": noia e cliché banditi

Il Barbiere di Siviglia opera buffa di Rossini apre la stagione autunnale del Teatro Comunale di Bologna dal 17 al 23 ottobre, con la direzione del M° Piergiorgio Morandi. Fattitaliani ha intervistato il regista Federico Grazzini, che torna a riproporlo a
Bologna dopo il successo della prima messa in scena del 2019.
Riproporre un'opera simbolo come Il barbiere di Siviglia rappresenta un valore aggiunto per un regista?

Lavorare su un'opera così geniale è prima di tutto un grande privilegio. Il fatto che quest'opera sia così famosa ti costringe a non dare per scontato nulla del libretto e della partitura. Il pubblico si aspetta tutta una serie di cose che provengono dalla tradizione. Da questo punto di vista mi piace ogni tanto accontentarlo e ogni tanto sorprenderlo con delle idee nuove. Il Barbiere è un'opera dove tutta la comicità è già dentro alla musica. Il problema è riuscire a stare allo stesso livello dal punto di vista dell'azione scenica, del gioco teatrale. Per fare questo ci vogliono degli interpreti davvero virtuosi, capaci di sostenere questo dialogo costante tra azione e musica. 

Personalmente preferisce misurarsi con i "classici" o le opere meno conosciute? Il suo approccio cambia?

Amo misurarmi  con entrambi i generi. Con i classici credo sia importante non dare niente per scontato e relazionarsi al libretto e alla partitura come se fossero un materiale sempre nuovo. Liberarsi dai clichè e concentrarsi su cosa è importante raccontare al pubblico di oggi. In questo l'approccio non cambia. Certo, nei titoli contemporanei c'è maggiore libertà, ma a me piace variare.

Per un nuovo allestimento cosa solitamente mantiene dall'inizio della concezione fino alla fine e quali elementi, invece, è più propenso a cambiare? Eventualmente, sulla base di che cosa cambia impostazione?

Parto sempre dallo studio della partitura, della drammaturgia musicale. Il tema, la storia che si vuole raccontare per me è la bussola per coordinare coerentemente tutto il resto (scene, luci e costumi). Durante lo spettacolo possono cambiare molte cose della superficie (alcune azioni, sfumature dei personaggi, un costume) ma il senso profondo, l'idea iniziale è difficile che cambi.  Per questo la fase preliminare di preparazione per me è fondamentale. Poi durante le prove si scoprono moltissime altre cose e nel lavoro col direttore e con i cantanti il lavoro di trasformazione è costante ma sempre all'interno dell'idea drammaturgica iniziale.


Lei ha ricevuto dei riconoscimenti per il suo lavoro. Obiettivamente riconosce in sé una cifra registica unica, tutta sua?

Credo che la cifra, lo stile, venga fuori col tempo. Faccio questo lavoro da più di quindici anni e posso dire di aver sviluppato un mio modo, un mio metodo. Credo che ogni artista abbia una sua unicità e io penso umilmente di avere la mia. Credo sia fondamentale per far maturare un proprio stile avere la possibilità di avere continuità con il lavoro e confrontarsi con materiali anche molto diversi tra loro per conoscersi e capire cosa risuona di più artisticamente. A me interessa dare vita nuova all'opera raccontando delle storie coerenti, emozionare il pubblico o divertirlo fino alle lacrime: condividere un'esperienza profonda di musica e teatro. La noia e i clichet sono banditi. 

Quanto la messa in scena può attirare i giovanissimi verso l'opera? Un esempio...

Credo che una messinscena invitante e non respingente sia quella che non dà per scontato il pubblico. Quando costruisco uno spettacolo cerco di immedesimarmi sempre nello spettatore, nella sua capacità di comprendere la storia, nelle sue aspettative. I giovani sono abituati soprattutto al linguaggio cinematografico dei film e delle serie. Sono abituati ad esempio ad una recitazione molto realistica. Se vogliamo che si interessino all'opera non è possibile prescindere da questa nuova sensibilità. È importante quindi che i cantanti abbiano una preparazione non esclusivamente musicale (come spesso succede) ma anche teatrale. Questo porta vita e gioco alla performance e il pubblico ne esce estremamente toccato, e ha voglia di tornare a teatro.


Tornando al Barbiere, c'è un'aria, una scena, una frase che secondo Lei ne riassume l'essenza?

L'ultima frase di Figaro: "Ecco che fa un'inutile precauzione". E' inutile opporsi alla forza della vita, dell'amore e della fantasia. Mi viene in mente la frase di Majakovskij "non sarà la paura della follia a farci tenere a mezz'asta la bandiera della fantasia!". Il tentativo tirannico di Don Bartolo finisce male e la storia del suo declino è in dei momenti assurda ed esilarante grazie a personaggi come Figaro, che ingarbuglia ancora di più anzichè sciogliere, e tutti gli altri. Rossini crea uno specchio deformato della realtà del suo tempo e ci suggerisce una cosa: di prendere la vita con ironia, di divertirsi anziché reprimere e brontolare come fa Bartolo. Penso che l'avvertimento valga anche di questi tempi! Giovanni Zambito.


Fattitaliani

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