di Giuseppe Lalli - «Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’ esprimeva ancora un sentimento. […]. La madre, data a questa un bacio in fronte, la mise [sul carro] come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: “addio Cecilia! Riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri.” Poi voltatasi di nuovo al monatto, “voi”, disse, “passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.”
Così
detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo
in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto.
Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro
non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se
non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire
insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino
ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.»
È questo
uno dei passi più liricamente commoventi de I Promessi Sposi, quel libro
da tenere a fianco sul comodino del letto (livre de chevet), da leggere
e rileggere, da gustare, da assimilare quale miniera inesauribile di arte e di
saggezza, quell’opera immortale scritta per la consolazione di generazioni di
Italiani da Alessandro Manzoni (Milano 1785 – Ivi, 1873), grande
anima cristiana prima ancora che grande scrittore.
Noto come La
madre di Cecilia, il brano lo s’incontra in uno dei capitoli dedicati alla
peste che nel 1630 funestò la città di Milano e il suo territorio. Ci troviamo
di fronte ad una di quelle pagine del celebre romanzo che non si possono
leggere senza che le palpebre non si inumidiscano e che il cuore non si
stringa. In questo brano, come in altri del romanzo, la poesia veste i panni
della storia. La descrizione quasi ci paralizza, tanto è toccante: il realismo
efficacissimo delle immagini si accompagna ad un sentimento che avvolge madre e
figlioletta in un unico abbraccio. In queste righe poesia e pietà si danno la
mano, il dramma umano del dolore e la luminosa speranza cristiana della
risurrezione si invocano ad ogni parola, e la compassione si fa silenziosa
preghiera che sale in alto. Va in scena il dolore, placato tuttavia da una consapevolezza
dignitosa, quella che alla povera donna dà la sua fede cristiana, che fa sì che
la sua anima, ancorché affranta, guardi oltre la materia, e le assicuri, pur
tra lo strazio, che il male alla fine non vincerà. La stessa evocata bellezza
della donna («quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel
sangue lombardo»), inficiata dal dolore ma non distrutta, non è, nella
penna del grande scrittore, solo magistrale espressione di stile, ma anche
segno tangibile che la morte non avrà l’ultima parola.
In scene
come questa, che al Manzoni fu ispirata dalla lettura di un episodio realmente
accaduto e riportato nella cronaca che dell’immane flagello fece il cardinale Federico
Borromeo (Milano 1564-Ivi, 1631), la sventura umana reclama la croce di Cristo,
e la madre di Cecilia ci appare la madre di tutti i dolori, la Vergine
addolorata che ci ricorda che, finché camminiamo sulla terra, le gioie piccole
e grandi hanno sempre le radici a forma di croce.
Romanzo storico per eccellenza, il racconto di
Manzoni è ambientato negli anni in cui l’Europa e l’Italia erano funestate da
una terribile epidemia, nota, da uno dei suoi sintomi più vistosi, come “peste
bubbonica”. Si trattò di uno dei frutti più nefasti di quel conflitto
continentale che fu poi chiamato “Guerra dei Trent’anni” (1618-1648), che vide
in campo grandi eserciti, che seminarono nelle contrade d’Europa morte e
desolazione. Furono gli effetti collaterali di questa guerra, nel milanese, la
causa principale della carestia, della rivolta del pane, della calata dei
Lanzichenecchi e, da ultimo, della peste, che, entrata con le bande alemanne,
non si fermò nel territorio lombardo, ma spopolò, con inarrestabile contagio,
in gran parte dell’Italia settentrionale,
mietendo centinaia di migliaia di vittime.
I capitoli
dedicati alla peste sono esemplari di quel mirabile intreccio di avvenimenti
realmente accaduti e trama romanzesca che fanno de I Promessi Sposi
un capolavoro unico ed irripetibile. In questi capitoli il rigore storiografico
non è mai disgiunto dal giudizio morale: per Manzoni la storia spiega ma non
giustifica.
La
descrizione che l’autore fa della grande calamità nel capoluogo lombardo è
dettagliata, e impietosa nei confronti degli errori e delle colpe degli uomini.
Egli mostra come all’inizio il diffondersi del morbo fu anche la conseguenza
dolorosa sia di scelte sbagliate da parte dei responsabili delle pubbliche
istituzioni, sia dei pregiudizi che, insieme al panico e al delirio, presto si
diffusero in mezzo al popolo. Dapprima il male lo si volle negare, e i
pochissimi medici che ebbero il coraggio della verità si videro additati al
pubblico ludibrio; poi, di fronte all’evidenza di una mortalità sempre più
diffusa, esso venne attribuito alle arti malefiche di streghe, al commercio col
demonio, all’opera di una congiura da parte di criminali che spargevano
dappertutto unguenti mortali. «Ed era in vece il povero senno umano
– sentenzia amaramente il Manzoni – che cozzava co’ fantasmi creati
da sé».
Più della
peste, una parola si propagò di bocca in bocca: ‘untore’, e il «vocabolo fu
ben presto comune, solenne, tremendo».
Ad illustrare questo parossismo, basti un
esempio, preso tra i tanti. Accadde in una chiesa che un vecchio, per aver
spolverato la panca prima di sedersi, fu accusato di ungere le panche e, senza
alcun riguardo per l’età e per il luogo, fu dapprima percosso violentemente e
poi condotto ai giudici per essere sottoposto a tortura.
La deriva
delle menti si accompagnò ad un progressivo imbarbarimento dei costumi. Si
giunse a sospettare perfino degli stessi familiari. La follia di certo non si
impadronì di tutte le menti, e tuttavia, come spesso accade quando le parole
corrono più veloci dei pensieri, chi mantenne la lucidità non ebbe sempre il
coraggio di uscire allo scoperto: «il buon senso c’era - commenta ancora
Don Lisander con lapidaria ironia - ma se ne stava nascosto, per
paura del senso comune». Quante volte, anche ai nostri giorni, per le più
disparate questioni, ci è dato di fare esperienza di questa amara verità umana!
Per la
raccolta dei malati da condurre al lazzeretto, un ospedale, se così
poteva chiamarsi, costruito nei secoli precedenti nella periferia della città,
fuori Porta Orientale, per ricoverare le persone affette da malattie
contagiose, furono reclutati uomini scelti tra la peggiore feccia della città,
i cosiddetti ‘monatti’, persone senza scrupoli che ben presto, nella quasi
totale anarchia, diventarono i veri padroni di Milano.
Ogni disastro collettivo ha la sua storia
propria, ma in tutti si può osservare lo svolgersi, in maniera più o meno
intensa, di alcune dinamiche ricorrenti: dapprima la negazione, o
l’edulcorazione, della realtà, poi la paura irrazionale, in seguito la sindrome
della congiura, e alla fine la ricerca dei colpevoli: il capro espiatorio.
Gli uomini
tendono sempre a rimuovere l’idea della morte individuale, ma ancor più
inaccettabile appare alla loro coscienza la morte dei grandi numeri, la morte
senza nome, la sciagura che non si annuncia. Da qui l’esigenza di identificare
a tutti i costi dei responsabili, sui quali vendicarsi della malasorte. La
storia (anche quella recente e a noi vicina) è piena di queste ingiustizie
travestite da giustizia: «Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi
dritto», aveva avvertito il grande scrittore lombardo nella tragedia dell’Adelchi.
È rimasto
celebre, a questo proposito, nella peste di cui si parla, il processo che
nell’estate di quell’annus horribilis si svolse a carico di alcuni
uomini accusati di spargere in Milano unguenti velenosi, e descritto a parte
dal Manzoni nella famosa Storia della colonna infame, opera destinata a
fare da appendice al racconto manzoniano.
Un addetto
al tribunale della sanità, tale Guglielmo Piazza, accusato di essere un
untore - pare sulla base di una voce messa in giro da una donnetta - , per
sottrarsi al terribile supplizio della tortura, allora in auge nella prassi
giudiziaria, volendo approfittare dell’impunità promessagli in cambio della
rivelazione di altri complici, chiamò in causa un barbiere, Giacomo Mora,
il quale, stravolto a sua volta dalla tortura, fece altri nomi di persone che
alla fine vennero barbaramente giustiziate insieme ai due imputati principali.
I giudici disposero altresì che la casa del Mora venisse rasa al suolo e al suo
posto fosse eretta una colonna che, concepita a perenne ricordo dell’infamia
attribuita ai condannati, e abbattuta nel 1778, verrà piuttosto ricordata come
esempio atroce di infame ingiustizia.
La condanna di Manzoni dell’operato dei
giudici in quella triste circostanza è recisa, né vale a suo parere invocare
come attenuanti la nequizia dei tempi o il condizionamento sociale. Per lo
scrittore agisce in ogni occasione il primato della coscienza e della
responsabilità individuali: il fatto che la legge desse ai giudici la facoltà
di far ricorso alla tortura, non implicava che essi vi dovessero ricorrere
necessariamente, né l’ignoranza diffusa circa gli unguenti velenosi e la loro
efficacia sugli organismi umani poteva costituire sufficiente attenuante per
quei magistrati, la cui condotta avrebbe
dovuto ispirarsi a criteri di giudizio ben superiori rispetto alla mentalità
comune. Essi vollero invece soddisfare la feroce sete di vendetta di una folla
impazzita. Il “garantismo giuridico” del cattolico Manzoni affonda nel Vangelo,
e nella conseguente responsabilità personale, la sua prima e più robusta
radice.
In mezzo a
tanta desolazione e miseria umana, una luce tuttavia rifulse: l’opera
meritoria, e che si rivelò insostituibile, dei religiosi, secolari e
soprattutto regolari. Essi furono «saldi di coraggio, al loro posto». Nel descrivere la loro carità operosa,
Manzoni dà al grande affresco della peste la sua pennellata più sublime.
Nell’assenza di ogni effettiva autorità, per
governare il lazzeretto, il tribunale della sanità non seppe far di meglio che
affidarne la gestione ai frati cappuccini. Coloro che erano investiti di
pubblica responsabilità, di fronte alla inettitudine e all’egoismo dei molti e
dei più, conferivano potere e responsabilità agli unici che non lo rifiutavano:
i frati.
E fu cosa
davvero singolare veder svolgere compiti di autorità a uomini, i monaci
francescani, alieni per stato e per intima vocazione da ogni autoritarismo, e
che furono in quel luogo di dolore non solo confessori, ma ancor più «soprintendenti,
amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobai, lavandai, tutto ciò che
occorresse»: tanto è creativa la forza del Vangelo, che tutto inventa,
tutto trasforma, tutto forgia al fuoco di un amore che non conosce né misure né
criteri umani.
Al gravoso
e delicato compito di presiedere il governo di quella gigantesca struttura
sanitaria fu designato padre Felice Casati, che, come ci informa il
Manzoni, «godeva un gran fama di carità […] e di fortezza d’animo»;
e gli fu dato come assistente padre Michele Pozzobonelli, «ancor
giovine, ma grave e severo, di pensieri come d’aspetto».
Era padre
Felice un uomo che non si risparmiava, né di giorno né di notte, per soccorrere
i malati e per coordinare gli sforzi, che vide attorno a sé morire la gran parte
dei suoi confratelli (che lasciavano questo mondo «con allegrezza») e
che alla fine della sua missione, sopravvissuto
quasi per miracolo, ringraziava il Signore per avergli concesso l’alto
privilegio di servire Gesù Cristo negli appestati, e non mancava di chiedere
pubblicamente perdono per le sue mancanze, lui che tutti aveva superato nella
sollecitudine operosa.
Come avviene in tutte le disgrazie collettive,
anche nella peste descritta dal Manzoni un pensiero, sentito con minore o
maggiore consapevolezza, correva in tutte le menti: ciò che accade è solo
frutto degli errori degli uomini, o è anche ammonimento di Dio?
Rimarrebbe
deluso chi cercasse nel capolavoro di Manzoni una risposta ingenua. La risposta
va cercata tra le pieghe della storia degli uomini, che è per tanta parte
storia di sangue e di forza bruta; e nella natura, che, ancorché uscita dalle
mani di un Dio d’amore, è autonoma nelle sue leggi e nelle sue dinamiche. I
Promessi Sposi è il grande poema della Provvidenza divina, ma è anche il
racconto della libertà dell’uomo, ed è, soprattutto, il romanzo della
compassione. Il dolore e la bellezza, presenti si può dire in ogni pagina del
racconto, sono, nella penna del grande poeta cristiano, le due facce della
vita, che è sempre dono di Dio di cui un giorno bisognerà rendere conto.
La risposta il grande scrittore l’affida
all’arte sua sublime.
Renzo,
giovane onesto e probo, nonché insofferente di ogni ingiustizia, che nel
racconto manzoniano è, insieme a Lucia, sua promessa sposa, il protagonista
principale, mentre si aggira tra i viali del lazzeretto alla ricerca della sua
fidanzata, che ha saputo essere lì ricoverata, si imbatte in padre Cristoforo,
il santo cappuccino che è stato per loro consigliere e protettore. Il frate,
che in quel luogo presta amorevole servizio ai malati, trovandosi a dover
rintuzzare i propositi di vendetta che Renzo, in un momento di scoramento,
temendo di non ritrovare viva la donna che ama, si lascia scappare
all’indirizzo di Don Rodrigo, suo persecutore la cui insana passione per Lucia
è alla base di tutte le sue traversìe, conduce il giovane dentro una capanna in
cui giace un uomo nel quale Renzo riconosce il suo nemico. Don Rodrigo,
l’arrogante e capriccioso signorotto che nella trama romanzesca incarna l’umana
perfidia (e che può ben rappresentare il prototipo di un certo uomo moderno che
coltiva la sola religione del potere, del denaro e del sesso), il potente a cui
tutti si inchinavano, è ridotto dalla peste in fin di vita: «Stava
l’infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il viso e sparso di macchie nere; nere ed
enfiate le labbra: l’avreste detto il viso d’un cadavere, se una contrazione
violenta non avesse reso testimonio d’una vita tenace. Il petto si sollevava di
quando in quando, con un respiro affannoso; la destra, fuor della cappa, lo
premeva vicino al cuore, con uno stringere adunco delle dita, livide tutte, e
sulla punta nere».
«“Tu
vedi!”» disse il frate con
voce bassa e grave». “Può esser gastigo, può esser misericordia”».
Anche in
questi nostri incerti giorni, in quest’epoca in cui l’umanità appare così
scaltrita, così informata, così autosufficiente, e così radicata nell’idea che
certi episodi siano solo un lontano ricordo dei “secoli bui”, di fronte ad
eventi mondiali che sembrano sconvolgere i nostri piani e nostri schemi
mentali, è lecito farci la stessa domanda che si fa - e ci fa - il Manzoni alla
fine della descrizione del tragica morte Don Rodrigo: è giustizia o è
misericordia?...