Giordano Petri torna al Cinema con un ruolo da protagonista. Dall’8 marzo in esclusiva sulla piattaforma CHILI con il film “Credo in un solo padre”. Nel Cast oltre agli attori citati nell’intervista, ci sono Flavio Bucci e Francesco Baccini. Lo abbiamo intervistato per fattitaliani.it.
“Credo
in un solo padre” ha come tema la violenza domestica. In che modo è stata
raccontata?
E’ una sofferta preghiera che una donna recita per
scongiurare l’ennesima violenza di un carnefice, una persona che è al suo fianco
e che invece di amarla si rivela una persona crudele e vigliacca. Vuole essere
in qualche modo un Film con un monito di dolore, una supplica che tutte quelle
persone, vittime di violenza fanno, cercando di trovare un’espiazione
attraverso un’eventuale denuncia che possa dare soluzione al fatto commesso e
una rivalsa nella società e nel territorio dove vivono.
Racconta una duplice violenza sessuale, perpetrata dal nonno Giuseppe,
interpretato in maniera magistrale da Massimo Bonetti, prima nei confronti
della nuora (Anna Marcello) e poi della nipote (Chiara Primavesi).
Interpreto Gerardo Bianco che dovendo abbandonare il suo paese per cercare
fortuna e dare un futuro migliore alla propria famiglia, affida la moglie e i
figli al padre che dovrebbe essere la figura di riferimento e garantire una
sorte di pace e armonia per tutto il tempo della mia temporanea assenza e
invece si rivela essere la figura
negativa, capace di compiere gesti condannabili ed arrivare ad un epilogo
drammatico in cui nessuno vorrebbe trovarsi.
Quando hai parlato di duplice violenza pensavo ti riferissi sia alla figura del carnefice e sia alla giustizia perché spesso le denunce cadono nel vuoto, le donne non vengono credute, i tempi della giustizia sono lunghissimi…
E’ stato proprio questo uno dei motivi che ha spinto il Regista Luca
Guardabascio a raccontare la storia. Il Film parte da un’indagine sociale mossa
dallo scrittore Michele Ferruccio Tuozzo nel libro “Senza far rumore” che fa
un’indagine nel territorio, raccontando alcuni episodi, alcuni dei quali sono
stati ispirati a storie vere come quella narrata nel Film. In questo libro ha
raccontato che tanti anni fa, le storie di violenza soprattutto in alcuni paesi dell’entroterra e
della provincia erano sommerse da un’attenzione mediatica che non dava quella
risonanza o comunque quell’importanza che invece meritava. Si preferiva tenere
la testa sottoterra e fare in modo che il gesto grave e condannabile, compiuto,
passasse come un piccolo screzio che si era creato in famiglia. L’uomo poteva
legittimarsi di un gesto così grave, adducendo la colpa alla moglie che gli
dava motivo non solo per compierlo ma anche per usare la forza e umiliarla
davanti ad un fatto così grave.
Il Film risulta necessario per aiutare tutte quelle donne che soprattutto in
questo periodo di Lockdown si trovano ingabbiate nelle mura familiari e faccia
a faccia con il proprio carnefice, spingendole a denunciare soprattutto al
primo gesto di violenza, di umiliazione o di mancanza di rispetto e a raggiungere
un qualsiasi centro di assistenza antiviolenza e denunciare il fatto e poi
scappare dalla persona che non è adatta ad amare e né a condividere un percorso
di vita.
Con la pandemia, la violenza si è moltiplicata! Condividere lo stesso spazio per tutta la giornata, scatena una mente ignobile che può essere quella di chi arriva a compiere un atto del genere.
Assolutamente! Lo scopo del Film è quello di voler mostrare i fatti nella
loro crudeltà, parlarne, sottolineare questi gesti crudeli, proprio per raccontare
a tutti la verità su qualcosa che purtroppo ancora oggi, appare un tabù del
passato come un retaggio culturale che non vuole essere dichiarato ma emerge
soltanto a fatto compiuto, quando si arriva all’epilogo finale che culmina
sempre con quello che è il femminicidio, con l’uccisione della donna preposta
da parte del carnefice. Si fa presto a parlare! Ci vorrebbero delle strutture
che a monte sostengano queste donne, ci dovrebbe essere un lavoro di ricerca,
una maggiore sicurezza da parte delle donne a fuggire e a non sentirsi
abbandonate. Sapere che c’è sempre qualcuno che tende la mano ed è pronto ad
aiutare. Il lockdown ha dimostrato questo, facendo vedere che Associazioni e
Sportelli antiviolenza, hanno in qualche modo abilitato i loro operatori. Hanno
trovato degli escamotage affinché la donna possa essere in grado di chiamare e
rivolgersi a loro per esporre la gravità in cui vivono e soprattutto in questa
emergenza, le difficoltà che vivono e che le trova costrette a soccombere e a
sentirsi prigioniere.
Dovrebbe essere lo Stato a proteggerle,
fornendo delle strutture, allontanando l’uomo dalla casa, dai bambini, dalla
donna. Dovrebbe imporre delle misure restrittive che sono previste dal codice
penale ma spesso sono molto soft…
Rimangono inosservate soprattutto
nella provincia, nelle zone più nascoste. Nella nostra Nazione c’è una
difficoltà di educazione e di moniti anche da parte di Istituzioni Regionali,
dai Comuni o da altre realtà locali che possano sensibilizzare il fenomeno. Si preferisce vivere nell’omertà, nel non
voler raccontare piuttosto che tirar fuori questa paura e denunciare. Si deve
intervenire nelle scuole, negli uffici, dove attraverso le campagne di
sensibilizzazione e un aiuto concreto, fisico, in modo che la donna non si senta
sola ed abbandonata.
Hai voluto bene al personaggio perché è
un uomo imperfetto…
Assolutamente! Il mio Gerardo Bianco è un uomo impacciato, un ingenuo in tutto il Film, una figura che ho cercato di rendere al meglio attraverso un lavoro di recitazione per sottrazione, cioè togliendogli tutta quell’enfasi che un personaggio può portarti ad interpretare. L’ho messo a nudo nella sua impotenza di fronte a questa realtà che sta vivendo. Quando lui alla fine scoprirà ciò che è successo, ci sarà un epilogo inaspettato che ovviamente sottolinea quella che era la sua fragilità di essere umano e la sua impotenza di fronte a questo padre- padrone che arriva a considerare i propri familiari come oggetti. Tant’è che nonno Giuseppe dice sempre a tutti “questa è roba mia, è cosa mia, voi siete roba mia”. Ciò sottolinea la sua difficoltà nel trovare una scappatoia da questa condanna al quale è destinato.
Assolutamente! Il mio Gerardo Bianco è un uomo impacciato, un ingenuo in tutto il Film, una figura che ho cercato di rendere al meglio attraverso un lavoro di recitazione per sottrazione, cioè togliendogli tutta quell’enfasi che un personaggio può portarti ad interpretare. L’ho messo a nudo nella sua impotenza di fronte a questa realtà che sta vivendo. Quando lui alla fine scoprirà ciò che è successo, ci sarà un epilogo inaspettato che ovviamente sottolinea quella che era la sua fragilità di essere umano e la sua impotenza di fronte a questo padre- padrone che arriva a considerare i propri familiari come oggetti. Tant’è che nonno Giuseppe dice sempre a tutti “questa è roba mia, è cosa mia, voi siete roba mia”. Ciò sottolinea la sua difficoltà nel trovare una scappatoia da questa condanna al quale è destinato.
Il padre-padrone dove si trova maggiormente?
Purtroppo si trova ovunque non si può fare una distinzione tra Nord e Centro Sud. Ormai siamo tutti quanti contaminati. Penso che si tratti più di un fatto di educazione, un fatto culturale, purtroppo in alcune zone meno sviluppate non c’è l’educazione al rispetto della donna e della figura umana in genere. Essendo un fatto culturale, molto spesso l’ignoranza, l’ego referenzialità, ti porta a dimenticare quelli che sono i valori che sono alla base del senso civico. Si dovrebbe intervenire fin da piccoli, nelle scuole. Rimettere l’educazione civica come materia fondamentale proprio per far rispettare quelli che sono i diritti umani a cui spesso le persone si appellano ma in maniera sbagliata e a volte senza avere una logica in quello che fanno.
Farei in modo che Educazione Civica sia una materia al pari delle altre perché
è alla base di tutto quello che noi andremo a studiare. Se non abbiamo dei precetti, un’educazione,
una formazione, un senso di consapevolezza della vita, della società di oggi,
possiamo studiare ed erudirci come vogliamo ma è soltanto un’opzione in più che
ognuno ha ma non è un qualcosa che ti rende unico nel tuo comportamento o nel
tuo andamento sociale.
Spesso i colpevoli di questi gravi fatti di cronaca non sono ignoranti o analfabeti ma sono istruiti, fanno dei lavori importanti. È un retaggio culturale ma non legato alla provenienza geografica o agli studi fatti ma come hai giustamente sottolineato è legato all’educazione ricevuta in famiglia.
Mi riferivo alla condizione familiare in cui una persona ha vissuto. Uno si
può anche emancipare ma se alla fine come precetti, applica quelli che ha
percepito in famiglia che può essere una forma d’ignoranza, di superiorità nei
confronti di un altro genere, a non privilegiare la parità dei sessi, dei
diritti, a trovarsi in una condizione medievale nella condotta quotidiana. Come
dicevamo, una persona può studiare, si può erudire ma sono solo nozioni e ciò che primeggia è
il retaggio culturale, ambientale, la condizione familiare da cui proviene,
l’educazione avuta, è senz’altro condannabile.
Sei stato protagonista di “Carlo Levi a
Sud di Eboli” interpretando il ruolo
di Italo Calvino, che ricordi scolastici avevi?
Italo Calvino era uno dei miei scrittori preferiti, lui è stato un Maestro per tutti i ragazzi che lo hanno letto da giovane e penso che riscoperto da adulto abbia un valore ancora più forte. Ci sono delle metafore, dei riferimenti importantissimi per il vivere quotidiano e soprattutto per rendere la persona più unica che eccezionale. Calvino è un personaggio che mi ha regalato grandi emozioni. L’abbiamo portato all’interno di una Rassegna importante “Matera Capitale della Cultura 2019” e su questo palcoscenico importante siamo riusciti a far conoscere il percorso che Carlo Levi fece durante il suo periodo di esilio con tutti gli abitanti della valle del Sele, conoscendo tradizioni, usi e costumi, spontaneità e freschezza di queste persone che pur essendo ignoranti, ha cercato di erudire attraverso l’aiuto di Italo Calvino che abbiamo reso come una sorte di Caronte dantesco, in qualche modo accompagna in questo viaggio di redenzione e di educazione. Levi è reso magistralmente da Fabio Mazzari.
Italo Calvino era uno dei miei scrittori preferiti, lui è stato un Maestro per tutti i ragazzi che lo hanno letto da giovane e penso che riscoperto da adulto abbia un valore ancora più forte. Ci sono delle metafore, dei riferimenti importantissimi per il vivere quotidiano e soprattutto per rendere la persona più unica che eccezionale. Calvino è un personaggio che mi ha regalato grandi emozioni. L’abbiamo portato all’interno di una Rassegna importante “Matera Capitale della Cultura 2019” e su questo palcoscenico importante siamo riusciti a far conoscere il percorso che Carlo Levi fece durante il suo periodo di esilio con tutti gli abitanti della valle del Sele, conoscendo tradizioni, usi e costumi, spontaneità e freschezza di queste persone che pur essendo ignoranti, ha cercato di erudire attraverso l’aiuto di Italo Calvino che abbiamo reso come una sorte di Caronte dantesco, in qualche modo accompagna in questo viaggio di redenzione e di educazione. Levi è reso magistralmente da Fabio Mazzari.
Hai citato il palcoscenico e ti dividi tra Cinema, Teatro e Televisione, ho letto che la tua casa preferita è il Cinema, com’è nata la passione?
E’ nata per caso! Avevo la passione della recitazione ma non sapevo da
dove iniziare. Alla fine inizi sempre nel territorio locale, avvicinandoti a
compagnie locali piuttosto che quella del Liceo. Dopo i vari percorsi
accademici come il Centro Teatrale Universitario, lo Stabile dell’Umbria e il
Centro Sperimentale di Roma, mi sono avvicinato a questa realtà cinematografica
per caso. Mi ero appena diplomato e nell’Accademia venne Roberto Benigni che
stava cercando nuovi attori che facessero parte del Cast di “Pinocchio”. In
particolare cercava dei ragazzi che andavano a completare il gruppo dei giovani
del “Paese dei Balocchi”. Fui scelto per interpretare Bastiano, un giovane poco
amante della scuola, dedito al gioco. Benigni mi ha tenuto a battesimo per il
Cinema.
Tornando alla tua domanda “Che cosa mi piace di più del Cinema rispetto al
Teatro”! In verità mi piace un po’ tutto, mi piace essere attore e mi piace
condividere la mia esperienza attoriale su tutti i palchi dove mi viene
richiesta. Il Cinema è una magia della quale godi nel momento in cui ti vedi
nel maxi schermo. Vedere la tua presenza, la tua faccia, il modo come ti muovi.
Interpretare un personaggio ti dà una grande gioia e una consapevolezza
maggiore del lavoro che hai fatto. Da lì
lavori a ritroso di tutto quello che è stato per arrivare a quel risultato. Il
Cinema è bello perché si crea una sorta di famiglia putativa mentre nel Teatro
fai le repliche, vai in tournée ma alla fine non è più come si partiva per sei,
sette mesi e condividevi gran parte dell’anno con la Compagnia. Adesso fai
cinque o sei repliche, ti fermi un mese poi fai tre giorni, poi due e diventa
tutto un po’ discontinuo. Far parte di
un progetto cinematografico significa condividere per un mese, un mese e mezzo,
tutti i giorni con un gruppo altrettanto putativa con cui condividi le
emozioni, l’esperienza, gioie e dolori. In qualche modo si cerca una certa
intimità che poi ti porti sempre dietro perché sono esperienze che rimangono
impresse nella tua mente e nel tuo cuore.
Il Cinema in qualche modo è luce, vitalità, sentimento e forza mentre il Teatro
risulta essere una sorta di “Diretta”, sul palco dai tutto te stesso e
condividi l’esperienza con il tuo pubblico che ti stimola e ti dà la carca
giusta per arrivare a fine spettacolo, si chiude il sipario e torni ad essere
un cittadino comune. Elisabetta Ruffolo