di Francesca Ghezzani - Parlare di Samuela
Pierucci vuol dire raccontare di una donna dalla battuta pronta grazie al sangue
toscano che le scorre nelle vene, medico di professione ma anche scrittrice,
mamma di due bambini e sempre in movimento per incastrare tutto, esempio di resilienza
grazie alla sua capacità di trovare sempre nuove opportunità nelle sfide che la
vita ci pone di fronte.
Esordisce sul
mercato editoriale con “Vuoto fino all’orlo”, poi sempre con la casa editrice
Intrecci pubblica il romanzo dal titolo “Quel poco che basta”.
Samuela, quando hai avvertito la necessità di scrivere,
tanto da definirla “terapeutica”?
Fin da bambina ho
amato la parola scritta, come lettrice innanzi tutto e poi cercando di mettere
nero su bianco quello che mi passava per la testa. Ho sempre tenuto un diario e
i miei pensieri, il mio vissuto e i sogni bambini assieme alle riflessioni sul
mondo intorno a me hanno quasi ogni giorno trovato spazio sulla pagina. Però
c’è stato un momento ben preciso in cui ho capito che potevo dare forma alle
storie e ai personaggi che riuscivo a creare, ed è stato durante l’adolescenza,
dopo aver letto “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” di Enrico Brizzi. Era un
libro fresco eppure cupo, parlava di me, parlava di musica, di chi eravamo o
avremmo potuto essere. Ho capito che se potevo sentirmi così parte di una
storia potevo anche scriverla, essere io quella che dava vita alle emozioni. Fu
una scoperta, una rivelazione.
Che tipo di lettrice sei?
Sono una lettrice alquanto
eclettica, mi piacciono i romanzi gialli, di avventura, i grandi autori come
Murakami, Haruf, molti autori sudamericani, ho amato King, Pennac, Benni, De
Carlo così come i grandi classici letti a scuola. Leggo tanto anche libri
pensati per i ragazzi ma molto consigliati anche ai lettori adulti: ci sono
autori notevoli come Morosinotto, Baccalario, Geda, Magnone, Gatti, Percivale,
per citarne alcuni, oltre a Dahl, Pullman, Rowling. Insomma, leggo un po’ di
tutto, tranne che i libri scritti per un pubblico disattento, i libri poco
curati o i polpettoni d’amore o che raccontano storie banali.
Ti sei cimentata con la prosa, che rapporto hai, invece,
con la poesia come fruitrice e come scrittrice?
Non sono una grande
lettrice di poesia e non conosco molto bene i vari autori, ma in alcuni casi ne
resto incredibilmente affascinata, come nel caso di Emily Dickinson, o di
autrici contemporanee quali Silvia Vecchini, Giusy Quarenghi o la mia
conterranea Francesca Matteoni. Mi piace cimentarmi anche con questa forma di
scrittura ma più come un gioco, piccoli tentativi di mettere le parole in
musica. In “Quel poco che basta” c’è anche un’appendice poetica, nata per far
conoscere dopo l’epilogo alcuni aspetti della protagonista che non erano
emersi.
In “Quel poco che basta” Seba e Nada sono i due protagonisti
della storia le cui vicende si intrecciano alla Storia con la S maiuscola. Vuoi
parlarci di loro e della correlazione tra microstoria e macrostoria?
Sebastiano e Nada
sono due ragazzi che vivono quell’età storta e meravigliosa intorno ai
venticinque anni, quel momento fatidico in cui si sono già fatte alcune scelte
ma ancora non si è ben consci di quello che porteranno. Nel loro caso le scelte
saranno dettate dalla follia inconsapevole dei sentimenti ma anche da una serie
di bugie sulle proprie vite che li porteranno inevitabilmente ad un vortice di
distruzione. Ho voluto poi far intrecciare alle loro storie le vicende
dell’Undici Settembre, quei fatti tragici che hanno sconvolto il mondo intero
ma che nel loro caso ci mostrano quanto non si possa non tener conto del
destino, a tratti ineluttabile, che può mettersi di traverso e prendere a
spallate ognuno di noi.
Hai notato una evoluzione personale, oltre che
stilistica, tra le due opere?
Certamente non sono
più la stessa scrittrice di quando, a diciassette anni, mi misi davanti a un
foglio bianco per scrivere di un certo Almalinda e dei suoi amici stralunati.
Col primo libro ho affrontato con una storia distopica alcuni elementi di
inquietudine che mi tormentavano da ragazzina, in questo libro invece ho
buttato giù rapidamente e quasi senza freni le angosce dell’età adulta, i
dilemmi di cui siamo vittime quando ci accorgiamo che i nostri piani non sono
proprio del tutto andati nel verso giusto. Inevitabilmente, sia per l’età
diversa che per la storia propria di queste due pubblicazioni, lo stile ne ha
risentito. Ad esempio, nel primo caso la mia editor ha solo fatto piccole
correzioni, con “Quel poco che basta” invece ha dovuto riprendere anche il filo
narrativo e farmi notare piccole incongruenze poi corrette. Due genesi,
insomma, molto diverse, oltre che una diversa storia personale alle spalle.
Cosa vorresti lasciare ai tuoi figli attraverso gli
scritti che hai prodotto?
Soprattutto vorrei
lasciare delle domande. Mi piacerebbe che si chiedessero sempre di cosa sono
soddisfatti e di cosa no, cosa possono cambiare, se il loro ruolo è quello che
si sentono cucito addosso o ne discosta e quanto. Vorrei insomma lasciare poche
certezze e molti dubbi, così da invitarli a crescere continuamente, perché solo
così si diventa migliori.
Infine, il periodo di pandemia che ti ha visto attiva in
prima linea come anestesista rianimatore, è stato per te fonte d’ispirazione
per nuovi progetti letterari?
Diciamo che è stato
inevitabilmente fonte di fatica e paure, perché vivere la lotta a questo virus
imprevedibile è stato molto pesante. Direi che mi ha lasciato però la voglia di
cercare i piccoli bagliori di gioia e bellezza che il quotidiano ci regala, mi
fa scrivere in maniera più introspettiva e semplice, mi ha dato il senso della
misura. Scrivo poche cose, piccoli pensieri, piccole storie. E inoltre continuo
a portare avanti il prossimo progetto, indirizzato a un pubblico giovane, di
bambini. Una nuova sfida, vedremo come andrà.