Germana Fabiano: Leggere significa entrare in un mondo che non ci appartiene e a cui finiremo per appartenere. L'intervista



Ciao Germana, benvenuta e grazie per avere accettato il nostro invito. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori? 
Grazie a voi di avermi invitata. Ai lettori vorrei presentarmi con un grazie per l’interesse che mi dedicano: leggere un’intervista, in fondo, è un gesto di grande attenzione. 
Qual è la tua formazione professionale e letteraria? Ci racconti il percorso che ti ha portato a svolgere quello che fai oggi?
Il percorso credo sia iniziato quando mia madre mi ha insegnato a leggere e ho capito che avevo in mano le chiavi di una serie infinita di mondi… poi, molto semplicemente, ho scritto il mio primo libro, ho stampato e corretto le bozze e l’ho buttato via. Temevo il confronto con la realtà, immagino: rifiuti, critiche, disillusioni. Mio marito lo ha recuperato dalla raccolta differenziata della carta e mi ha incoraggiato a spedirlo. Vederlo nelle librerie un anno dopo è stata una delle emozioni più belle che ricordi. Per quanto riguarda il mio lavoro di docente… ho studiato scienze politiche e mi sono specializzata in Tutela dei Diritti Umani a Palermo affiancando allo studio sia il volontariato che diversi tirocini per varie NGO. Al momento tengo corsi sulla politica europea dei diritti umani presso l’università di Tubinga.
Nel 2012 hai pubblicato una raccolta di racconti brevi dal titolo “Racconti Bonsai” edito da Robin edizioni. Ci racconti come nasce questo libro, dove è ambientato e di cosa narra? 
Mi trovavo su un treno che mi portava da Tubinga a Strasburgo. Dietro di me stava seduto un uomo che non vedevo e che parlava alle persone sedutegli accanto: «questo è il posto che ho prenotato, il numero 5, la mia valigia sta qui accanto alla Sua, stiamo partendo in orario mi pare, alla stazione di Strasburgo devo prendere il bus, magari ci andiamo insieme». Ero infastidita, non capivo perché sentisse il bisogno di dire tutto questo e non mi lasciasse leggere in pace. Al momento di scendere, mi sono accorta che era non vedente; ogni sua frase aveva avuto una ragione precisa e la mia pigrizia mentale non mi aveva fatto considerare questa possibilità. I racconti bonsai nascono così, sono racconti brevissimi caratterizzati da un capovolgimento della prospettiva iniziale, con ambienti e personaggi molto vari, dagli Apostoli a un fanatico dei videogiochi. Come tutte le storie, nascono da idee improvvise, da associazioni libere, da una immagine che cogli per strada. In questo caso, anche dalla voglia di giocare col lettore e sorprenderlo. Era necessario non scoprire le carte troppo presto e, in racconti lunghi una pagina, non è stato facile, ma devo ammettere che mi sono divertita un mondo sia a scriverli che a parlarne con i lettori. 
Ci parli delle tue opere e pubblicazioni? Quali sono, qual è stata l’ispirazione che li ha generati, quale il messaggio che vuoi lanciare a chi li leggerà? 
“Balarm”, il mio romanzo d`esordio, racconta le storie racchiuse nel cuore di una città splendida e terribile, metafora di un sud sempre in bilico tra luce e ombra; vi si intrecciano le vicende di poeti e venditori ambulanti, immigrati, disoccupati, ragazzini cresciuti per strada, preti di frontiera e anziane maestre, con sullo sfondo la voce insistente di Federico II, lo Stupor mundi, che pone domande a cui, dopo secoli, nessuno ancora è riuscito a rispondere. Come ha scritto la critica, Balarm “è il crogiolo dove vivono mille anime irrisolte”, una città raccontata “tra cronaca e visione”.La luna Contro” raccoglie tre lunghi racconti: nelle campagne siciliane dell’Ottocento, la vita di un villaggio è sconvolta dal male oscuro che viene dalla luna, nel periodo fascista, un puparo girovago oppone la sua fantasia alla crudeltà dei tempi e infine, ai giorni nostri, una città sepolta dalla immondizia e schiava della mafia si ribella e pianifica una vendetta feroce. Tre epoche diverse, tre luoghi sospesi nello spazio di una Sicilia immaginaria ma subito riconoscibile e tre stili differenti per ogni racconto. Il mio ultimo lavoro è la trilogia intitolata “Concerto Siciliano”. Il dono della profezia, i miti antichissimi che incarnano le nostre paure e i nostri desideri, la lotta impari contro forze troppo grandi per loro, segnano la vita delle tre donne protagoniste e sono il filo rosso che le collega attraverso il tempo. “L’ultimo Rais” ci porta sull’isola di Katria (nome immaginario che compendia le tre isole delle Egadi) dove la vita è scandita da ritmi arcaici, le tradizioni e le leggende hanno ancora un grande peso e dove il Rais appartiene da secoli alla stessa famiglia. Ma l’ultimo Rais, un gigante biondo «che sa di alghe, pesce, sale, pietre, reti» non ha eredi maschi e contro la volontà di tutti sarà una donna, sua nipote Eleonora, a prendere il suo posto perché “se la catena si spezza, la sventura colpirà Katria e la sua storia si fermerà”. Ma non è detto che la tonnara possa vivere in eterno; presto i pescherecci asiatici minacceranno la sopravvivenza dei pescatori isolani e la piccola isola diventerà suo malgrado il centro di un nuovo mondo, quando dovrà accogliere centinaia di disperati in fuga dalle guerre e dalla fame. Mi ha ispirato una visita alla tonnara-museo di Favignana dove un anziano tonnaroto fungeva da guida. Lì ho buttato giù le prime righe. Non si sa mai quando l’ombra di una possibile storia ti passa accanto, meglio avere sempre carta e penna a portata di mano! “Tra Scilla e Cariddi” propone un futuro in cui il ponte sullo Stretto, costruito per metà, è simbolo di un mondo che procede al contrario. Grazia, una donna in apparenza insignificante e che vive di espedienti, si oppone tenacemente alla sua costruzione, in un mondo cupo che è tornato indietro di decenni e dove tutto quello che prima appariva scontato non esiste più. Infine, con “Motya”, la narrazione si sposta indietro di circa duemila anni per raccontare gli ultimi giorni della piccola colonia fenicia dove un sacerdote fanatico e una umile tessitrice interpretano in modo opposto il volere degli dei. Sono cresciuta e vivo a pochissima distanza dalle rovine di Solunto e da tanto volevo far rivivere in un romanzo questo popolo affascinante ed enigmatico. “In nome di Dio e per mano del diavolo” racconta la storia di un boia vissuto nel medio Evo in Francia e indaga sul tormento di chi è costretto dagli eventi, dalle usanze, dalle credenze, ad agire contrariamente alla propria indole e alle proprie convinzioni. Piu che un romanzo storico è un romanzo sulla libertà individuale che non conosce frontiere di spazio e di tempo. 
Mi colpì una frase su una rivista di storia: descriveva il dolore del boia della Rivoluzione francese, Sanson. Pare piangesse ad ogni testa che rotolava…. Il personaggio di Laurent Deville, con i suoi dubbi, i suoi tormenti e la sua difficilissima ricerca della libertà, è nato da quella immagine. Alla sua epoca, quello del boia era un mestiere che si ereditava, non si poteva scegliere una via diversa. Anche la dicotomia di questa figura a margine mi appassiona: conoscendo l’anatomia, il boia era anche guaritore. La gente che di giorno lo evitava perché strumento di morte, di notte lo cercava perché alleviasse le sue sofferenze. Mantenere l’equilibrio non doveva essere facile.
Mi chiedi che messaggio voglia lanciare… direi che non ho l’ambizione di lanciare un messaggio, solamente quella di scrivere storie. Succede però che i lettori e i critici scovino tra le righe significati che io non avevo notato e mi accorgo allora che nascono dalla stessa storia, dagli stessi personaggi e, meravigliosamente, dai lettori stessi. 
Come nasce la tua passione per la scrittura? Ci racconti come hai iniziato e quando hai capito che amavi scrivere? 
Credo nella “teoria della ghianda” di James Hillman per la quale tutti noi veniamo al mondo con delle passioni e con la vocazione a realizzarle. Ciò che conta è riconoscerle e non dimenticarle strada facendo. Se vuoi, restare fedeli a quello che si ama. Io ho avuto la fortuna di avere una nonna un po` fuori dal comune che, quando ero piccola, trascorreva lunghissimi pomeriggi a raccontarmi non solamente fiabe e favole ma l’Odissea, l’Eneide e persino la Divina Commedia, e che mi ha trasmesso l’amore per il racconto. Uno dei personaggi del mio romanzo d’esordio, Balarm, è proprio lei. Ascoltandola, avevo la sensazione di partecipare a un rito magico, che i personaggi prendessero vita grazie alle parole e che farli vivere, prima o poi, sarebbe stato il mio compito. Poi, tutto questo è rimasto sepolto nella memoria fino a quando, senza una ragione precisa, delle frasi hanno cominciato a ripresentarsi alla mente, insistenti, sempre le stesse. Sono diventate l’incipit di Balarm, il mio romanzo d’esordio. Non so, mi piace credere che quella storia volesse essere raccontata e sia venuta a cercarmi 
Una domanda difficile Germana: perché i nostri lettori dovrebbero comprare i tuoi libri? Prova a incuriosirli perché vadano in libreria a comprarne alcuni.
Per incuriosirvi… potrei offrirvi qualche immagine rubata a ognuno di loro. Balarm stava giocando, li spingeva nelle strade per un suo disegno segreto o forse solamente per vincere la noia e, quando ne avesse avuto voglia, li avrebbe di nuovo rinchiusi dietro le sue frontiere”. Balarm - Voci da una città in ostaggio - “Fu così che il nuovo esattore fu avvistato dai passanti fantasiosamente appeso ad un rachitico albero, con una mutandina di pizzo in bocca e un foglietto appuntato al taschino della sua giacca firmata con su scritto “Di pizzo pigliati questo”. La luna contro. “La campata svettava su acque verdi e stanche, mutilata nel suo slancio. Era la profezia di un progresso che aveva sbagliato tutti i suoi parametri, un braccio spezzato che suggeriva una meta al di là del mare e, allo stesso tempo, la negava.” Tra Scilla e Cariddi. “Per un attimo, ogni elemento si dispose come nella foto scattata da un genio: il cielo nero, il mare rabbioso, la sagoma minacciosa del castello che si stagliava contro le nuvole pronte ad esplodere. Poi si udì un tuono e un temporale spietato si rovesciò sull’isola avvolgendo di sé tutte le cose inspiegabili di quell’universo; il barcone che Nora vedeva oscillare all’orizzonte, carico di altri disperati, era una di queste”. L’ultimo Rais. “Mescal tesseva, come ogni donna tesseva sempre, tesseva come un ragno per catturare prede non ancora vicine, tesseva le fasce di un nascituro e il sudario di un moribondo, tesseva per raccogliere e per custodire, tesseva il mondo intero senza attendere il ritorno di nessuno, perché di nessuno aveva bisogno”. Motya. “Per la prima volta stava dall’altra parte del patibolo e infinite mani di assassini avevano preso il posto delle sue. Ma erano mani frenetiche e inesperte, compiaciute del dolore che arrecavano. Il boia le guardava uccidere, solo e distante nella propria innocenza”. In nome di Dio e per mano del diavolo. 
Considero l’arte un modo di interpretare e reinventare la realtà e anche, perché no, una maniera per sopravvivere a noi stessi. Penso che “il diletto” che se ne ha non sia mai vano, che l’arte non debba necessariamente avere una sua funzione sociale. Mi viene in mente la famosa scena del film Amadeus in cui si rappresenta uno scurrile Flauto Magico per un pubblico incolto e rumoroso, ma rapito dalla bellezza della musica e dalla magia della storia. Non so se Mozart avesse in mente di “preparar l’avvenire” di quelle persone, forse voleva semplicemente che si divertissero un paio d´ore… A mio parere, l’arte non dovrebbe avere altro fine che sé stessa; se poi rinnova, rivela, ispira, fortifica, ben venga. Ma se una cosa è bella, può anche essere perfettamente inutile. La sua utilità, a mio parere, sta semmai nel non lasciare che il nostro spirito inaridisca. Da qui, alla tua seconda domanda: tanti social vivono di arte e servono a diffonderla, temo però che la eccessiva quantità e velocità di testi, canzoni, immagini, stia sconvolgendo il nostro modo di apprezzare l’arte e comprenderla e, alla lunga, la stia avvilendo. Il rischio è che, per avere visibilità in un mondo che vive di clamore, si finisca per gridare sempre più forte per farsi sentire dimenticando lo spessore, la qualità. Per citare un libro che amo: non dicono niente, ma come lo dicono forte (Fahrenheit 451).
È noto che il concetto del bello cambia a seconda dei tempi, delle culture, dei luoghi. Credo che ognuno di noi si riferisca a qualcosa di diverso quando parla di bellezza, dipende anche dal modo in cui si è stati educati, dalle esperienze vissute. La bellezza salverà il mondo, di certo, ma se non limitiamo il concetto di bello all’arte perché non è affatto scontato che ci renda migliori. Artisti eccelsi sono stati criminali, assassini, truffatori, depravati, e non dimentichiamo che i gerarchi nazisti nei lager ascoltavano commossi Wagner e Beethoven mentre mandavano a morte milioni di innocenti. 
Esiste oggi secondo te una disciplina che educa alla bellezza? La cosiddetta estetica della cultura dell'antica Grecia e della filosofia speculativa di fine Ottocento inizi Novecento? 
Secondo me, quelle che nomini sono discipline che educano a un certo gusto, cercando di trovare dei parametri validi per il maggior numero di persone in un determinato contesto. Come docente, lavoro con studenti che vengono da paesi diversissimi, dalla Cina agli USA, dalla Siria alla Nuova Zelanda, e noto che le differenze culturali sono enormi anche in questo mondo globalizzato e che i concetti di bello e di giusto sono estremamente variabili. Collegando queste riflessioni, per me la disciplina che educa alla vera bellezza è un’etica condivisa, quella che gli addetti ai lavori chiamano nuova etica dei diritti umani, sulla quale forse sarà possibile un giorno trovare un consenso universale.
Charles Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto geniale quanto dissacratore, a proposito dell’arte dello scrivere diceva: «Non mi preoccupo di cosa sia o meno una poesia, di cosa sia un romanzo. Li scrivo e basta… i casi sono due: o funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato con: “Questa è una poesia, questo è un romanzo, questa è una scarpa, questo è un guanto”. Lo butto giù e questo è quanto. Io la penso così.» (Ben Pleasants, The Free Press Symposium: Conversations with Charles Bukowski, “Los Angeles Free Press”, October 31-November 6, 1975, pp. 14-16.) Secondo te perché un romanzo, un libro, una raccolta di poesie abbia successo è più importante la storia (quello che si narra) o come è scritta (il linguaggio utilizzato più o meno originale e accattivante per chi legge), volendo rimanere nel concetto di Bukowski?
Amo molto queste parole di Bukowski perché mi trovo perfettamente d’accordo con lui: una storia la racconti come meglio puoi, la butti giù, vedi se funziona. Punto. A mio parere, conta più la storia: un libro non lo metti via se ti preme sapere cosa succede nella pagina seguente. Se è scritto magistralmente ma ti annoia, finirai per rinunciare, o per odiarlo. Se poi una bella storia è scritta bene, allora sai che è arte, e che sei in presenza di una specie di miracolo. 
«Quando la lettura è per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire, allora la sua funzione nella nostra vita è salutare. Ma diventa pericolosa quando, invece di risvegliarci alla vita individuale dello spirito, la lettura tende a sostituirsi ad essa, così che la verità non ci appare più come un ideale che possiamo realizzare solo con il progresso interiore del nostro pensiero e con lo sforzo del nostro cuore, ma come qualcosa di materiale, raccolto infra le pagine dei libri come un miele già preparato dagli altri e che noi non dobbiamo fare altro che attingere e degustare poi passivamente, in un perfetto riposo del corpo e dello spirito.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905). Qual è la riflessione che ti porta a fare questa frase di Marcel Proust sul mondo della lettura e sull’arte dello scrivere? 
Per me, leggere significa entrare in un mondo che non ci appartiene e a cui finiremo per appartenere. In questo mondo possiamo trovare solamente domande e nessuna risposta, o risposte a domande che non abbiamo posto. In nessuno dei casi restiamo passivi, ne usciremo cambiati o per lo meno porteremo con noi per un poco qualcosa di nuovo, anche nostro malgrado. Mi piacerebbe dirti che scrivere è vivere mille vite, esercitare un potere assoluto sul mondo che hai creato. E così è, per pochissimi, benedetti istanti. Per il resto del tempo, scrivere è fatica, disciplina, ricerca, liste di sinonimi e contrari, costruzione dei dialoghi, tagli, riscritture infinite, fogli appallottolati, dita che fanno male per chi, come me, fa le prime stesure a penna perché qualsiasi altra cosa è inimmaginabile. Lo scrittore, in fondo, è un’anima in pena.  
«La lettura, al contrario della conversazione, consiste, per ciascuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando cioè a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi e che invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905 | In italiano, Marcel Proust, “Del piacere di leggere”, Passigli ed., Firenze-Antella, 1998, p.30). Molti autori quando parlano di libri e di autori importanti, dicono che leggere un libro e come avere una conversazione con un grande uomo o donna della letteratura e della cultura. Proust sembra dire proprio il contrario. Tu cosa pensi in proposito? Cos’è leggere un romanzo, un racconto, un saggio secondo te? 
Penso ci sia una differenza enorme tra la lettura di un saggio e quella di un romanzo o racconto. Nel primo caso, ci si può immergere nella propria solitudine o avere la sensazione di conversare con l’autore, dipende molto da come è impostato il saggio. Leggendo un romanzo o un racconto, invece, sei dentro ogni personaggio, ti muovi in un universo nuovo, la storia che segui ti regala emozioni. Non parlerei di conversazione con l’autore, l’autore deve scomparire perché un libro funzioni. A meno che non sia scritto male…
Penso che la scrittura viva essenzialmente di solitudine e che basterebbe leggere attentamente On Writing, di Stephen King, per avere un’idea di cosa fare e di cosa non fare. Poi, dipende molto dalle aspettative e dagli obiettivi. Una libraia mi raccontava di un corso di scrittura tenuto nella sua libreria: i partecipanti sembravano tutti molto motivati e passavano ore a leggere e commentare i loro scritti, peccato che in dieci giorni a nessuno di loro sia venuto in mente di comprare un libro… Leggere come se non ci fosse un domani, rispolverare la grammatica (è incredibile cosa si sente e si legge oggigiorno) e studiare il vocabolario dei sinonimi e contrari mi sembra sufficiente, se si hanno talento e una buona storia da raccontare. Detto questo, immagino che le varie tecniche narrative possano essere apprese, almeno in linee generali, e che il talento, se c’è, possa essere affinato dall’esercizio continuo. Penso che un corso di scrittura, dati questi presupposti, possa anche essere utile, dipende da come è strutturato. Il problema, come ci ricordavi citando Bukowski, è che pochi accettano serenamente di non avere talento, l’unica cosa che non si può apprendere, e che pochi sono in grado di riconoscerlo, il talento. Oggi si tende a complimentarsi con chiunque per qualsiasi sciocchezza e questo crea aspettative enormi e altrettante enormi delusioni. 
Chi sono i tuoi modelli, i tuoi autori preferiti, gli scrittori che hai amato leggere e che leggi ancora oggi? 
Mi piacciono stili differenti e mi piace vedere come plasmano la narrazione, dandole il ritmo giusto. Amo la magia di Garcia Marquez, la serpeggiante follia di Pirandello, l’incisività di Tabucchi, la prosa possente e a tratti ossessiva di Jaume Cabrè.  
Gli autori e i libri che secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai nostri lettori almeno tre libri e tre autori da leggere nei prossimi mesi dicendoci il motivo della tua scelta. 
Uno Nessuno e Centomila di Luigi Pirandello perché rimette tutto in discussione, sempre. 1984 di George Orwell perché ancora oggi non ci permette di chiudere gli occhi davanti alla verità. Io confesso di Jaume Cabrè per la forza travolgente delle storie che vi si intrecciano. 
Ti andrebbe di consigliare ai nostri lettori tre film da vedere assolutamente? E perché secondo te proprio questi? 
Le vite degli altri di Florian Henckel, per ricordarci che la libertà non è mai scontata. La leggenda del pianista sull` oceano di Giuseppe Tornatore, perché è un film pieno di poesia e una originale metafora della vita. Leon di Luc Besson, semplicemente perché è bellissimo.
Quali sono i tuoi prossimi progetti e i tuoi prossimi appuntamenti che vuoi condividere con i nostri lettori? 
Le letture che avrei voluto tenere quest’anno sono state, ovviamente, tutte rimandate, ma è ancora presto per un nuovo calendario. Sto lavorando a qualcosa di nuovo ma ne so ancora troppo poco: scrivere una storia, in fin dei conti, è come cominciare un viaggio del quale ignori la destinazione finale. 
Dove potremo seguirti? 
Sulle pagine dei miei libri, se vorrete…  Troverete le novità relative ai miei romanzi e racconti anche su Facebook, sul mio sito e su Instagram. 
Come vuoi concludere questa chiacchierata?
Dal momento che abbiamo parlato di scrittura, chiuderei con una frase rubata al mio Balarm: «Niente esiste che non valga la pena di essere raccontato e niente che non venga raccontato è mai esistito davvero».

Germana Fabiano
@germanafabiano

Andrea Giostra



Fattitaliani

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