«L'amore e l'impegno per la cultura può e deve convivere con
l'amore per la vita, per i sentimenti, per la scoperta» di Andrea Giostra
Ciao
Paolo, benvenuto e grazie per avere accettato il nostro invito. Come ti vuoi
presentare ai nostri lettori?
In
qualche modo vorrei presentarmi con le stesse modalità con le quali mi
presenterei a me stesso: uno scrittore che esplora i sentimenti e le modalità
con cui questi vengono trasmessi a chi legge. In altri termini un costruttore
di modi che siano esplicativi del mio modo di concepire la letteratura, come
anche le capacità di amare e provare i sentimenti dei miei personaggi. Anche a
costo di addentrarmi in quella che, attraverso le parole, ricercate ad hoc,
potrebbe apparire come una fredda analisi. Con la speranza che sia stimolante
per tutti.
Qual è
la tua formazione professionale e artistica? Ci racconti il percorso che ti ha
portato a svolgere quello che fai oggi?
Premesso
che prima di iniziare il mio percorso, diciamo così artistico, esercitavo la
professione tecnica di ingegnere, devo convenire che la stessa presentava
aspetti deludenti che la rendevano insoddisfacente. E non tanto per la mancanza
di una visione olistica, che pur in quella attività è più che rintracciabile,
quanto per il rischio possibile che il tecnicismo e l'esigenza del "tanto
mi tanto" avrebbero potuto farmi relegare in standby le modalità più
liriche del conoscere. Dunque, a partire da un momento pur anche nebbioso, ho
sentito il bisogno di recuperare aspetti che sino a un certo punto della mia vita
erano stati elementi al contorno, caratterizzati solo da momenti ludici
secondari e non professionalmente definiti.
Nel 2019 hai
pubblicato il tuo ultimo romanzo, “Jacob Rohault. I
giorni di Venezia” edito da CTL Editore Livorno. Ci racconti come nasce
questo libro, dove è ambientato e di cosa narra?
Jacob Rohault nasce dalla scoperta di un libro che per anni era rimasto inascoltato
nella mia libreria, Tractatus Phisicus, scritto da un filosofo francese vissuto nel diciassettesimo secolo:
Jacob Rohault, appunto. La bellezza della stampa, ricca di incisioni e disegni
scientifici tipici dell'epoca, a un certo punto suscitò in me la curiosità di
saperne di più. Cercando, trovai nella rete notizie inspiegabilmente molto
scarse. Si trattava di un filosofo francese insegnante alla Sorbonne che aveva
scritto e pubblicato un trattato di evidente formazione cartesiana. Ma lo
stimolo a scriverne arrivò soprattutto dalla circostanza che Rohault fu
rapidamente dimenticato, probabilmente anche per il prevalere, nella cultura
dell'epoca, delle teorie Newtoniane. In qualche modo fui affascinato dalla
possibilità di rendere giustizia a quell'autore parlando delle sue posizioni
scientifiche e del suo amore per la filosofia. Ma anche immaginando, e qui do
un riconoscimento alla mia passione scrittoria, una sua permanenza a Venezia
per far stampare il trattato. E Venezia, a quell'epoca era il luogo deputato a
queste attività.
Cosa dovranno
aspettarsi i lettori e quale il messaggio che vuoi lanciare loro con questo
romanzo?
Sostanzialmente, che l'amore e l'impegno per la
cultura debba e possa convivere con l'amore per la vita, per i sentimenti, per
la scoperta non solo di principi scientifici ma anche della consapevolezza che tutti
possiamo essere persone, con difetti, pregi, passioni, innamoramenti e,
soprattutto, per la disponibilità a parlarne non confessionalmente ma laicamente.
Ci parli delle tue
precedenti opere e pubblicazioni? Quali sono, qual è stata l’ispirazione che li
ha generati, quale è il messaggio che vuoi lanciare a chi li leggerà?
Prima di Jacob Rohault, avevo scritto altri
romanzi: Con gli occhi di
Arianna, L'intruso nelle vecchie stanze, Il venditore di pensieri altrui. C'è un filo conduttore che lega questi romanzi, pur molto diversi nei
contenuti. E il filo è costituito dalla voglia di partecipare delle emozioni e dei
sentimenti di persone che, pur nelle loro diverse peculiarità letterarie, potevano
essere simbolo e metafora di un'umanità vera e nelle quali in tanti potevano
riconoscere qualcosa di sé. Arianna è stato il tentativo di uno scrittore
"uomo" di scrivere un diario tutto al femminile. L'intruso è la
storia di una ricerca di vecchi libri e documenti storici in una casa
abbandonata; ricerca che, strada facendo, perde il suo oggetto programmato, per
abbandonarsi alla lettura di altri scritti, intimi, anche trasgressivi e
drammatici d'amore e di morte. Il venditore di pensieri altrui è un gioco sul
fraintendimento e sulla interpretazione delle parole e del loro significato. Il
messaggio è, evidentemente, un metamessaggio, nel senso che chi legge possa non
fermarsi alle storie in sé, ma trovi nel linguaggio usato una corrispondenza
amorosa e coinvolgente con quelle.
Come nasce la tua
passione per la scrittura? Ci racconti come hai iniziato e quando hai capito
che amavi scrivere?
Credo che la passione per la scrittura sia nata
dall'emozione provata da bambino leggendo Emilio Salgari e i suoi cicli dei corsari. Una passione che si è trasformata più tardi
in amore assoluto anche, lo confesso, per spirito di emulazione con le storie
scritte da grandi autori. Un fascino non legato semplicemente alle narrazioni
tout court, ma anche alla scoperta di un mondo latente e sotterraneo, in
qualche modo poco visibile, di una sorta di insicurezza che quegli autori
volevano e dovevano vincere attraverso le loro opere. In fondo facendo in modo
che la mia insicurezza fosse specchio della loro, se pur accompagnandola con
una inconfessata o inconfessabile vanità.
Una domanda difficile Paolo Massimo:
perché i nostri lettori dovrebbero comprare “Jacob
Rohault. I giorni di Venezia” e gli altri tuoi libri? Prova a
incuriosirli perché vadano in libreria a comprarne alcuni.
Jacob Rohault per la coesistenza degli intrighi
tipici della città lagunare con lo stupore e l'onestà intellettuale del
protagonista. Che viene irretito dal gioco sensuale e a volte perverso delle
donne che lo adulano, lo provocano, lo seducono, lo abbandonano ma che, inaspettatamente,
gode del piacere di nuove amicizie e, inevitabilmente, s'imbatte nel fastidio
di malevoli inimicizie. Arianna, per la ricerca sofferta di sé stessa. Arianna vive
in due donne separate che finiscono per ricongiungersi e trovarsi quando le
immagini dell’infanzia, dell’adolescenza e della giovinezza si incontrano con
quelle della maturità: in quel momento, la frammentarietà delle esperienze,
umane, sentimentali e a volte eroticamente trasgressive, si avvia a trovare
compiutezza in una maggiore coscienza di sé smussando le asprezze altalenanti
tra anarchiche velleità e sofferte sottomissioni. Nel venditore di
pensieri altrui, per la magia dell’itinerario lavorativo e intellettuale del protagonista
Roè: da cartomante a venditore di libri usati a scrittore. Roè percorre strade
della Romagna e di una Bologna quasi sempre notturna incontrando e conoscendo
persone con le quali non riesce ad aprirsi veramente. Ma è il paesaggio urbano
minore che gli suggerisce pensieri, desideri e velleità, come anche i
presupposti per raccontare. I rapporti e i dialoghi con le persone con le quali
viene a contatto, per quanto superficiali, gli permettono di inventare una
personale scrittura che diventa una sorta di palinsesto sul quale costruire le
storie. E le parole inventate, ascoltate, lette, ricordate, finiscono per
essere le prede con cui nutrire la fame della scrittura.
Nel gigantesco frontale del Teatro Massimo di Palermo c’è una grande
scritta, voluta dall’allora potente Ministro di Grazia e Giustizia Camillo
Finocchiaro Aprile del Regno di Vittorio Emanuele II di Savoia, che recita
così: «L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il
diletto ove non miri a preparar l’avvenire». Tu cosa ne pensi di questa
frase? Davvero l’arte e la bellezza servono a qualcosa in questa nostra società
contemporanea tecnologica e social? E se sì, a cosa serve oggi l’arte secondo
te? Quando parliamo di
bellezza, siamo così sicuri che quello che noi intendiamo per bellezza sia lo
stesso, per esempio, per i Millennial, per gli adolescenti nati nel Ventunesimo
secolo? E se questi canoni non sono uguali tra loro, quando parliamo di
bellezza che salverà il mondo, a quale bellezza ci riferiamo?
Parole magniloquenti nella forma e certo dettate dall'atmosfera
storica e culturale del momento. Calandoci nella realtà dei nostri giorni,
potremmo chiedere: Cos' è la bellezza, nell'arte, nella stessa vita? Provando a rispondere non dal punto di vista
del professionista della scrittura, ma da quello di chi vive nella società
tecnologica, o da quello degli adolescenti che spesso sono fuorviati da facili
miti e dal fascino del consumo e, conseguentemente del denaro necessario a
realizzarlo, sarebbe bello sentire: "Il mezzo attraverso il quale la forma
diventa stile". E questa risposta auguro a loro di pronunciare. In un
passo successivo potrei porre la domanda: L'arte e la bellezza decorano la vita
e formano le persone? Il sogno dello scrittore vorrebbe ascoltare: “Tutto ciò
che decora la vita è formazione”. Dunque la speranza: che i Millennial e gli
adolescenti, pur nell'infinita varietà dei canoni possibili, infine salvino il
mondo attraverso la conoscenza del bello e dell'arte. E al riguardo non
smetterei mai di consigliare la lettura di un testo fondamentale per il mio
sentire, diciamo così, artistico. Intendo Filosofia dell'arte di Antonio
Banfi, un testo che si avvalse della cura meticolosa di Dino Formaggio
per il quale "I veri maestri di vita e conoscenza hanno una caratteristica rilevante: non
invecchiano mai. Su di loro e sulle loro opere, il tempo non aggiunge scorie,
bensì nuove possibilità, che li rendono sempre più vivi." Opinione che conferma in ogni caso le parole di Finocchiaro Aprile e rendono universalmente a-temporale il valore
della bellezza per la salvezza del mondo.
Esiste oggi secondo te
una disciplina che educa alla bellezza? La cosiddetta estetica della cultura
dell'antica Grecia e della filosofia speculativa di fine Ottocento inizi
Novecento?
Certamente la musica. A partire da Pitagora, che si dice abbia scoperto quasi per caso il fondo numerico/matematico
dell'armonia musicale, in tal modo mostrandone il fascino misterioso e ancestrale.
Per proseguire con la madre di tutte le discipline della conoscenza: la
filosofia. Dopo secoli di speculazioni filosofiche, mi piace ricordare il
mirabile, e certo lirico riconoscimento einsteiniano sull'armonia delle sfere
enunciato all'inizio del secolo scorso. E d'altra parte, come non inchinarsi di
fronte al principio popperiano per il quale una verità scientifica o filosofica
può essere tale solo se falsificabile? Una proposizione che non è affatto cripticamente
astrusa come potrebbe sembrare, ma che apre al riconoscimento umanistico di
teorie che, di volta in volta, sono state oggetto di rifiuto e di critiche feroci
e sarcastiche da parte di avversari delle forme di conoscenza precedenti, basta
pensare, al riguardo, al giudizio che Schopenhauer – così l'aneddoto recita -, forse in un momento di
rancorosa e personale depressione, dette su Hegel: "Un
ciarlatano insulso, privo di spirito, schifoso, ripugnante e ignorante, che
scribacchiava con incomparabile insolenza, demenza e insensatezza". Forse
l'umanesimo di Popper si sarebbe indignato. E mi perdonino i cultori di altre discipline se ho privilegiato,
certo minimalisticamente, la musica e la filosofia come essenziali discipline
che possono educare alla bellezza.
Charles Bukowski, grandissimo poeta e
scrittore del Novecento, artista tanto geniale quanto dissacratore, a proposito
dell’arte dello scrivere diceva: «Non mi preoccupo di cosa sia o
meno una poesia, di cosa sia un romanzo. Li scrivo e basta… i casi sono due: o
funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato con: “Questa è una poesia,
questo è un romanzo, questa è una scarpa, questo è un guanto”. Lo butto giù e
questo è quanto. Io la penso così.» (Ben Pleasants, The Free Press Symposium:
Conversations with Charles Bukowski, “Los Angeles Free Press”, October
31-November 6, 1975, pp. 14-16.) Secondo te perché un romanzo, un libro, una raccolta di poesie
abbia successo è più importante la storia (quello che si narra) o come è
scritta (il linguaggio utilizzato più o meno originale e accattivante per chi
legge), volendo rimanere nel concetto di
Bukowski?
Credo che Bukowski avesse
innato il senso dello scrivere. In altri termini possedeva l'istinto della
parola sino a usarla in modo dissacrante senza svilirla con linguismi
teatralmente preponderanti. In tal modo, nelle sue opere, la storia ha finito
per prevalere non tanto sul linguaggio, quanto su quell'uso retorico o
lacrimevole dello stesso di cui tanti autori sono stati spesso vittime.
Bukowski non concede nulla all'enfasi sentimentale, le sue parole denotano
durezza rigorosa - mi si perdoni l'indubbio ossimoro – e altrettanta dolcezza. Con
ciò permettendo alla storia di restare il centro della narrazione ma anche di
rivalutare il linguaggio, sino a fargli perdere ogni condizione di supporto e
contorno, sì da realizzare una perfetta armonia tra forma e contenuto. Dunque,
accettando la lezione bukowskiana, accetteremo la parola come elemento di
chiarezza certamente, ma anche rivalutandone la caratteristica creatrice di un
ritmo sempre concreto e mai debordante, necessario per conservare il riscontro tra il
narrato e i suoi modi espressivi. È il
ritmo, dunque, che rende suadente la scrittura, pur non rappresentando il mezzo
per suscitare l’interesse o per conoscere lo sviluppo e la conclusione della
storia. In altri termini, la storia deve coinvolgere il cuore e il suo bisogno
di ascolto della narrazione; il ritmo deve parlare, a mio modo di vedere, alle
capacità razionali della mente, stimolando curiosità e piacere semantico. In
questa dicotomia dello scrivere è racchiuso, io credo, il fascino del leggere e
il risultante amore per lo scrivere.
«Quando la lettura è
per noi l’iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di noi stessi
quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire, allora la sua funzione
nella nostra vita è salutare. Ma diventa pericolosa quando, invece di
risvegliarci alla vita individuale dello spirito, la lettura tende a
sostituirsi ad essa, così che la verità non ci appare più come un ideale che
possiamo realizzare solo con il progresso interiore del nostro pensiero e con
lo sforzo del nostro cuore, ma come qualcosa di materiale, raccolto infra le
pagine dei libri come un miele già preparato dagli altri e che noi non dobbiamo
fare altro che attingere e degustare poi passivamente, in un perfetto riposo del
corpo e dello spirito.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance
Latine”, 15 giugno 1905). Qual è la riflessione che ti porta a fare questa
frase di Marcel Proust sul mondo della lettura e sull’arte dello scrivere?
Proust fu anche il poeta
della cosiddetta memoria involontaria. Allora penso che la sua idea della
lettura come "l'iniziatrice le cui magiche chiavi ci aprono al fondo di
noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai saputo aprire" sia una
proiezione del lettore nel lettore ideale che non può che riconoscersi nello
scrittore ideale come suo maestro: in fondo il sogno di ogni esploratore della
conoscenza – sia artistico/letteraria che filosofica -. Un sogno molto
ottocentesco direi a cui la critica moderna ha riconosciuto evidentemente un
valore estremamente lirico – certo possibile in uno scrittore onnisciente che
professava l'intradiegesi intima per raccontarsi al mondo - ma, nello stesso
tempo, ne ha evidenziato confini e limiti che lo rendono ormai - in una società
che pratica come un mantra il valore dell'informazione a disposizione di tutti,
compresi gli scrittori – estremamente circoscritto ed elitario, se non
velleitario. Un bello studio di Aldo Gargani (Il sapere senza fondamenti)
ha
mostrato che "il sapere (...) filosofico è una descrizione densa, ossia
una raccolta di strumenti, di abiti concettuali, di modelli comportamentali, di
condotte operative, di valori e di procedure decisionali inserite nelle forme
di vita degli uomini come estensioni dei loro contesti antropologici." E
ancora (è sempre Gargani che parla): "... non esiste il sapere genuino,
disinteressato, decontestualizzato, ma solo il potere di quel sapere".
D'altra parte a smentire Proust, esiste un'ottima dissertazione di Riccardo
Campi (Citare la tradizione, Alinea Editrice) che riporta una confessione di
Voltaire il quale aveva ammesso "di aver notato due versi dalla tragedia
omonima di Corneille (Edipo), aggiungendo poi di non essersi fatto scrupolo di
rubarli poiché, dovendo dire la stessa cosa di Corneille gli era impossibile
dirla meglio". Dunque un miele già preparato da altri. È vero però che Ezra
Pound volle distinguere tra grandi scrittori ladri e cattivi scrittori
(ladri anch'essi). Posso esprimere, a valle di questo florilegio di posizioni,
una mia idea personale della scrittura: scrivere ha senso solo là dove può spingersi il linguaggio e la
sintassi. Ed essenziale, per scrivere, è aver
preventivamente letto: molto e di tutto, con dedizione e continuità. Dunque
desiderio di “imitazione” in senso generale e non specifico di un testo o di
un’opera individuata.
«La lettura, al contrario della conversazione, consiste,
per ciascuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando
cioè a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi
stessi e che invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a
lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”,
pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905 | In italiano, Marcel
Proust, “Del piacere di leggere”, Passigli ed., Firenze-Antella, 1998, p.30).
Molti autori quando parlano di libri e di autori importanti, dicono che leggere
un libro e come avere una conversazione con un grande uomo o donna della
letteratura e della cultura. Proust sembra dire proprio il contrario. Tu cosa
ne pensi in proposito? Cos’è leggere un romanzo, un racconto, un saggio secondo
te?
Non posso, in questo caso,
che essere d'accordo con Proust. Pensare che "leggere un libro è come
avere una conversazione con un grande della letteratura e della cultura",
sia un vezzo che paga un pedaggio a quella moda che propone di fare del dialogo
un elemento qualificante e, volendo, elogiabilmente trasgressivo di vecchi
conformismi. Ma è scandaloso dire che ormai la vera trasgressività è
rappresentata dal conformismo? Ritengo
che la lettura di un romanzo, di un racconto, di un saggio, sia un'operazione
intima: un grande autore avrà pur avuto una sua visione del mondo, ma io sono
libero di interpretare in modo diverso quel mondo e di averne una visione che
le pagine in lettura, se viste come conversazione, possono vanificare se non
offrono un'alternativa, proprio perché quella conversazione è praticamente
impossibile.
Non credo che i
corsi di scrittura siano utili se non a chi li propone a pagamento. Oltretutto,
a mio modo di vedere, rappresentano una scorciatoia un po' squallida per
imparare a scrivere. Posso dire che sono metafora dei Bignami utilizzati da studenti che poco impegno hanno
profuso nello studio? Credo che ci sia una sola scuola per imparare a scrivere,
ed è la lettura; una modalità che deve essere ossessiva, sino al punto di
tornare più di una volta su testi già letti, anche dopo anni, cercando atmosfere,
parole, espressioni, che potrebbero esserci sfuggite o dimenticate. E vorrei
esortare ogni aspirante scrittore a profanare i libri che hanno in lettura
aggiungendo sui margini laterali delle pagine o sottostanti la stampa, note,
osservazioni, domande. Ho sempre avuto l'opinione che un libro intonso sia un
libro da tenere in libreria come elemento decorativo, magari perché è dotato di
un bel dorso di copertina. Magari ho detto un'ovvietà, ma è un'ovvietà che mi
piace!
Chi sono i
tuoi modelli, i tuoi autori preferiti, gli scrittori che hai amato leggere e
che leggi ancora oggi?
Credo che, come accade a ogni lettore, i modelli possano essere tanti e,
soprattutto diversi a seconda del momento, dell'età e dei riferimenti anche
casuali in cui ci imbatte. Da ragazzo fui folgorato da William Faulkner, Palme selvagge, Santuario e La paga del soldato
su tutti. Fui avvinto da uno dei topos letterari di Faulkner: il desiderio di alcuni dei protagonisti di vivere più vite. Acquistai
su una banchetta di libri usati un libricino di un autore allora per me
sconosciuto: Molloy di Samuel Beckett. Devo confessare, solo per il costo: 200 lire (vecchie). Il libro fu una
rivelazione che mi spinse a comprare, negli anni successivi, tutte le opere di
Beckett pubblicate in Italia. Passai rapidamente attraverso Italo Calvino, Franz Kafka che tanto amai per quanto mi procurò un'angoscia profonda, senza per
altro che quell'amore ne venisse scalfito. Poi il teatro di Brecht, Le poesie di Rafael Alberti, i romanzi di Albert Camus, di Jean Paul Sartre con la sua trilogia e, soprattutto, con Le parole, che fu il primo libro
che riuscì a commuovermi. Aden Arabia di Paul Nizan lo leggevo spesso durante i miei viaggi in Medio Oriente, lo dimenticai
in un'oasi: il mio primo atto appena rientrato in Italia fu riacquistarne una
copia. Poi Elias Canetti - sicuramente l'autore più difficile che abbia mai affrontato - On the
Road, l'opera omnia di Italo Calvino con, soprattutto, Il castello dei destini incrociati che spesso mi ha
fatto venire in mente il film La Ronde di Ophuls per il legame con cui gli eventi sono legati tra loro. Ovviamente, e non
poteva essere diversamente, per anni mi sono dedicato a Joyce, leggendo ogni cinque anni Ulysses (e ormai sono alla sesta tornata),
Dedalus e il suo alter Ritratto dell'artista da giovane; appassionandomi poi al teatro di William
Shakespeare, e all'opera di Borges. E potrei dichiarare uno
sviscerato amore per Raymond Quenod, per l'ironia e la capacità di
essere surreale restando coi piedi per terra; per Antonio Tabucchi e per
tutti i suoi libri. Last but no least, Adolfo Bioy Casares con
L'invenzione di Morel, stupenda elegia dedicata alla possibilità di un autore
di essere immortale. Elenco
evidentemente riduttivo, ma non poteva essere diversamente.
Gli autori e i
libri che secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai
nostri lettori almeno tre libri e tre autori da leggere nei prossimi mesi
dicendoci il motivo della tua scelta.
Farenheit 451 di Ray Bradbury (Strabiliante l'invenzione degli uomini-libro come ribellione alla
deriva culturale indotta dalla televisione. I fiori blu di Quenod (inimmaginabile nel suo essere fantastica, eppure incredibilmente
realistica, la vicenda nella quale il duca D'Auge quando dorme nel suo castello
del XIII secolo sogna la vita di Cidrolin, mentre Cidrolin, dormendo su una
chiatta ormeggiata sulla Senna ai nostri giorni, a sua volta sogna quella del
duca D'Auge). Il grande sonno, in cui Raymond
Chandler disegna una delle vicende del suo alter ego ispettore Marlowe, detective
deluso e umano nel suo innamorarsi senza speranza, nel cercare la verità e nel
subire la sconfitta nel momento stesso della sua vittoria.
Quali
sono i tuoi prossimi progetti e i tuoi prossimi appuntamenti che vuoi
condividere con i nostri lettori?
Ho in
programma la pubblicazione di una decina di racconti, dei romanzi Diari
sospesi, 18:30 per caso a Parigi e Delitto in tribunale. Oltre alla
ri-presentazione, in circoli e librerie, di romanzi già conosciuti come Con gli
occhi di Arianna, Jacob Rohault I giorni di Venezia, L'intruso nelle vecchie
stanze e Il venditore di pensieri altrui.
Ti andrebbe di consigliare ai nostri lettori tre film da
vedere assolutamente e tre registi da studiare per capire l’arte del cinema? E
perché secondo te proprio questi?
Il
posto delle fragole di Ingmar Bergman (I ricordi
trasformati in nostalgia senza mai cadere nella trappola dei rimpianti). I 400
colpi (Tenero e poetico omaggio di Francois Truffaut all'adolescenza e
a una Parigi solo da amare). Gran Torino di Clint Eastwood (Un ex eroe
pistolero finge di sparare ai cattivi mimando con le dita l'azione di un
revolver, finendo ironicamente e inevitabilmente ucciso).
Dove
potremo seguirti e come vuoi concludere questa chiacchierata?
In
questo mondo dominato dai social, mi si può seguire su Facebook sulla mia
pagina: Paolo Massimo Rossi scrittore. La mia conclusione: ho sempre amato i
libri e la lettura. Posso dire che, a memoria d'uomo, mai ho preso sonno senza
aver mai letto qualche pagina, sia che fossi in casa, sia in un campo di un
deserto orientale, sia in albergo a Parigi.
Paolo Massimo Rossi
Jacob
Rohault. I giorni di Venezia
Andrea Giostra