di Laura Gorini - Franco Eco è un compositore, direttore artistico, regista teatrale e
produttore discografico italiano. Ha soli 34 anni ma possiede un curriculum
artistico incredibile. Tra i suoi estimatori il maestro Ennio Morricone.
Franco, come e in che età hai
scoperto la passione che poi si è tramutata nel tuo lavoro attuale?
Ho lasciato Crotone, la città in cui sono nato, appena presi la maturità
classica per trasferirmi a Bologna e studiare discipline teatrali
all’università mentre la sera seguivo le lezioni di recitazione di Emanuele
Montagna presso la scuola di teatro “Colli”, ma non ho mai voluto fare
l’attore. Piuttosto m’interessava la regia teatrale. Durante la settimana non
mancavano le lezioni da privatista di violino e pianoforte. Insomma, sono stati
anni belli ma molto faticosi per lo studio. Avevo iniziato a scrivere musiche
per alcuni cortometraggi, ma sapevo che se avessi voluto fare il compositore
per il cinema era necessario trasferirsi a Roma. Bologna è una città che
ispira, così una sera di primavera presi la decisione di lasciare tutto e tutti
per studiare composizione al Saint Louis di Roma, uno dei pochi conservatori
privati in Italia. Mi buttai nella bolgia romana, non conoscevo nessuno, nel
frattempo fui ammesso al Saint Louis e fui rifiutato al corso di regia
dell’Accademia “Silvio D’Amico” litigando con il musicologo Paolo Terni. Fu
forse il periodo più difficile, ma non mollai e dopo qualche mese iniziai a
lavorare per Gabriele Lavia e Glauco Mauri e contemporaneamente iniziai a
scrivere le prime colonne sonore per il cinema con la Warner Chappell Music. È
stato molto bello, ma faticoso perché non ho mai avuto nessuno che mi
“spingesse” per andare avanti, ho sempre fatto affidamento su me stesso, sui
miei limiti, i miei errori e fallimenti.
In che modo ti sei avvicinato
per la prima volta alla musica?
Sono state una serie di concause durante il periodo della mia adolescenza;
da piccolo ho sempre pensato che avrei fatto lo scienziato, l’astrofisico o il
paleontologo, passioni che ancora coltivo, eppure gli studi durante il liceo
classico, il gruppo musicale che avevo messo in piedi con gli amici d’infanzia,
le poesie che scrivevo e la scoperta dell’amore hanno fatto in modo che
trovassi nella musica il modo migliore per digerire il mondo. Non è cambiato
nulla rispetto a vent’anni fa.
Cosa ci puoi dire in particolare
sul concetto della creazione, o arrangiamento, di una colonna sonora?
Ho sempre molta difficoltà nel rispondere a domande inerenti alla
musica; penso che la musica non debba essere spiegata, bensì ascoltata. Ma mi
butto anche se la lingua non restituirà mai l’esatto linguaggio musicale. Bene.
La musica applicata o per immagini sono narrative e fortemente didascaliche, ma
lo sono anche le cosiddette musiche assolute, ovvero quelle svincolate da
qualsiasi media e che altro non esprimono che loro stesse. Mi piacerebbe una
musica polisemica, ma non essendo una disciplina semplice da decodificare, sono
portato a pensare che la musica non sia polisemica come il resto dell’Arte. Col
tempo sto maturando il fatto che la musica muove le emozioni e le valutazioni
critiche lì dove il compositore vuole. Il compositore diventerebbe una specie
di stregone perché muove le emozioni. Aristotele nella “Politica” avanzò
l’affascinante ipotesi che la musica non rappresenti l’espressione dei
sentimenti, ma le emozioni umane stesse e che l’anima dell’ascoltatore si muove
lì dove il musicista desidera. Probabilmente la musica per immagini non tanto
“rappresenta”, piuttosto “riproduce” dei contenuti espressivi chiaramente
identificabili proprio a supporto dell’immagine stessa. La musica non
rappresenta le emozioni, ma è l’emozione stessa! La “Filosofia della musica
moderna” di Adorno parla proprio di questo, del fatto che in musica non c’è
spazio per valutazioni personali, critiche e individuali: la musica è troppo
precisa per lasciare terreno fertile alla polisemia. Faccio un esempio lampante:
se io riproduco un accordo maggiore e successivamente un accordo minore, siamo
tutti d’accordo che il primo stimoli felicità e il secondo tristezza. Ecco,
questo è alla base di un discorso ben più ampio che dimostra come sia difficile
scrivere musica, soprattutto se commissionata come nel caso delle colonne
sonore, e che pone l’accento sugli stati d’animo che devi tenere sotto
controllo per non scrivere qualcosa che poi non c’entri nulla con il film. La
musica è molto potente, alcune volte supera anche il film stesso per cui è
stata scritta e nella storia del cinema ci sono numerosi esempi. Sto imparando
questo: la musica è potente perché muove le emozioni dove si vuole. Un bravo
regista sa che la musica è importante perché è proprio con il linguaggio della
musica che si riesce a compensare lì dove la lingua e la parola non arrivano.
Si può dire che funzioni in
maniera analoga al concepimento di un prodotto video-mediatico?
Certamente. Resta un lavoro creativo e d’insieme. Non è un caso che il
compositore della colonna sonora è a tutti gli effetti di legge coautore
dell’audiovisivo insieme al soggettista, sceneggiatore e regista.
Quando crei una colonna sonora,
su quali elementi e/o prerogative fai affidamento?
Generalmente inizio a lavorare con diverse sessioni d’ascolto con il
regista. Non importa in quale fase del lavoro siamo, se il film è stato montato
o se sia ancora da girare. In questa fase è importante sincronizzare le proprie
idee con il regista che ha già in mente un’idea totale del film, e ovviamente è
l’unico ad avere questo punto di vista privilegiato. Il resto del reparto dovrà
lasciarsi ispirare dal regista, attori e tecnici compresi. Con la musica invece
è diverso perché ti racconta qualcosa di complesso, una narrazione fatta
d’intrecci, di tradimenti; ad esempio in armonia esistono diverse regole con
dei nomi singolari per ciò che intendo: cadenza d’inganno, cadenza sospesa,
cadenza evitata, e via discorrendo. Ecco, tutto questo sembra essere una
struttura narrativa che poi sarà colorata dall’orchestrazione e sfumata dagli
esecutori. Un processo creativo che è necessario stabilire insieme al regista
per “settare” le proprie orecchie su certe sonorità che poi saranno riprese in
fase di stesura della colonna sonora originale. E bisogna inoltre prestare
attenzione affinché la colonna sonora non sia sopra il film stesso. La musica è
un’arte che supera il cinema stesso perché ha il potere di narrare intrecci
complessi e senza bisogno di una lingua, bensì del linguaggio, universale,
totale. Persino gli animali si accorgono della musica percependo suoni comunque
di origine artificiale e complessi.
In questo lavoro è più
importante fare affidamento sui propri istinti e passioni o saper venire
incontro ai gusti del cliente, anche se essi possono molto “cozzare” con le
proprie attitudini e preferenze?
Ogni compositore ha una sua poetica, un metodo che sviluppa soprattutto
con l'esperienza; perché scrivere colonne sonore è un mestiere altamente
pragmatico ed empirico. Indubbiamente i migliori alleati per un compositore
sono la tecnica musicale e l'autocontrollo emozionale, valori molto dissimili
tra loro, che spesso aiutano a scrivere una musica che sostanzialmente non è
"assoluta" bensì "applicata", in questo caso alle immagini
in movimento.
E poi, detto onestamente e per quanto se ne scriva, non esiste una
teoria estetica accettata univocamente dalla musicologia che definisce il
rapporto musica-immagine. Ognuno ha una sua visione e segue un pensiero
piuttosto che un altro.
Quale è stato – fra i tanti – un
progetto che hai realizzato di cui ti senti particolarmente fiero e al quale ti
senti più legato?
Penso il mio primo album, “Dante Concert”. È nato da un recital di
Emanuele Montagna, ma quella musica era davvero particolare che Giancarlo
Passarella mi propose la pubblicazione con UDU Records. Ma un debuttante
compositore con un disco su Dante in Italia, lo so è paradossale, parte già
svantaggiato. Così studiai una strategia mediatica: chiesi sia ad Ennio
Morricone, ad Andrea Camilleri e a Giulio Andreotti (all’epoca presidente della
Casa di Dante di Roma) di scrivermi delle note di copertina che avremmo
chiamato “introduzione” come nei libri. Ebbene, il primo che accettò fu Giulio
Andreotti (dopo il mio diverbio con Ennio Morricone quando ci conoscemmo per la
prima volta in questa occasione). La critica è andata giù di testa. Non si
capacitavano come e perché Franco Eco, perfetto sconosciuto, avesse pubblicato
un disco pretenzioso sulla “Divina Commedia” con Andreotti che gli dà una
spallata portafortuna. Poi coinvolsi uno dei miei più cari amici, Fabrizio De
Masi, ad illustrare ogni canto/canzone con un disegno che raccontasse i
personaggi tradotti (o traditi) in musica, proprio come è sempre stata nella
storia bibliografica e editoriale della “Divina Commedia”, penso una su tutte
l’edizione curata con le opere di Gustave Dorè. Volevo che un prodotto
discografico fosse trattato più come un libro, che fosse un’opera con una sua
filologia.
Che ricordi hai in particolare
dei tuoi inizi e – soprattutto – degli anni della tua formazione?
Nonostante gli studi devo molto della mia formazione alle
“PerditeSonore”, il gruppo di musica elettronica messo in piedi con gli amici
di una vita. In tutta la Calabria eravamo gli unici a proporre sonorità nuove,
elettroniche, spigolose. Sperimentavamo sempre e ci piacevano i Bluvertigo e i
Subsonica. Credo che questo periodo sia stato centrale per la formazione di
ognuno di noi in quanto individui. La musica è un ottimo strumento per la
crescita di sé stessi. A qualsiasi età non è mai troppo tardi.
Un compositore di colonne sonore
e/o un musicista, nostrano o straniero, che consideri un “mostro sacro” e al
quale ti senti particolarmente ispirato?
Ho sempre spiazzato con questa risposta. Qualcuno si aspetta sempre che
risponda con Ennio Morricone, o John Williams, o per chi conosce la mia musica
Hans Zimmer, eppure credo che l’esempio e il percorso musicale di Fabrizio De
André sia l’ispirazione più alta di come la musica possa veicolare particolari
sentimenti.
Ma solo a pronunciare il nome di
Ennio, che cosa provi?
Tanta stima, e la penso come lui; in realtà non facciamo nulla di
straordinario, siamo sì artisti, ma figli di chi ancora sente l’artigianato
nell’eredità di questo mestiere. Ultimamente sono stato a trovarlo, gli ho
regalato “La figlia del papa” di Dario Fo. Non ho ben capito se abbia gradito
oppure meno!
Quali studi sono assolutamente
necessari, uniti alla passione, secondo te per poter svolgere questo lavoro?
Gli studi di composizione. Poi a me ha aiutato molto il teatro. Ad
esempio, da Gabriele Lavia ho rubato molto l’idea di piegare totalmente interi
spettacoli in favore della musica. La musica ha un tempo molto più forte
rispetto al tempo teatrale e questo Lavia lo sapeva. Ma in generale bisogna
avere un occhio critico e di profonda conoscenza generica. Un bravo compositore
di colonne sonore dovrebbe essere in grado di scrivere e arrangiare in
molteplici stili musicali, e questo è possibile solo grazie ad un’ampia cultura
generale delle cose che ci circondano che non debba essere necessariamente
musicale.
Hai qualche progetto imminente
che ci vuoi anche solo accennare?
Alcuni film pronti e in uscita, altri su cui sono al lavoro e altri da
vagliare. Nei prossimi mesi sarò inoltre impegnato con alcune produzione
discografiche, cosa che alcune volte manca per chi scrive soprattutto colonne
sonore. Buona musica!