Paolo Triestino e Nicola Pistoia e le ultime repliche di "Muratori": lo spettacolo ci mancherà tantissimo. L'intervista di Fattitaliani

“Muratori “di Edoardo Erba al teatro Ghione di Roma fino al 13 maggio. Con Paolo Triestino, Nicola Pistoia e Lydia Giordano. Regia di Massimo Venturiello. Scenografia: Francesco Montanaro. Costumi: Sandra Cardini. Disegno luci: Marco Laudando.



Germano e Fiore due muratori che pur di sbarcare il lunario, decidono di lavorare di notte. Hanno il compito di erigere un muro che segna il confine tra un magazzino ed un supermercato. Un muro che è una metafora segna i confini ma sottolinea anche l’incapacità di comunicare tra le persone. La piazza è stata sostituita dai Social e oramai si hanno molti amici virtuali e ci si allontana da quelli veri.
Il testo è un inno d’amore al Teatro ma anche alla Cultura, alle emozioni, all’amore. Fa bene Triestino nell’intervista a dire che è una “chicca” perché il Teatro è un gioiellino da preservare come un cristallo fragile.   

Un testo che è stato scritto venti anni fa che oggi è attuale più che mai.

Muratori è una commedia incentrata sul lavoro, oggi il lavoro è cambiato e per alcuni rappresenta una chimera, per molti soprattutto per i giovani è precario. Una battuta molto attuale è “il monno va storto”. Cosa ne pensate? 
Nicola Pistoia (Germano): L’idea è dell’autore perché ha avuto un'esperienza di avere operai in casa per tre volte a settimana. Il monno va storto è inteso in senso generale, non c’è più nessuna barriera da sconfiggere, è tutto aperto, libero. Da una parte è bello, aiuta ad avvicinarsi all’altro. Le frontiere non ci sono più e non c’è più un confine dove poter dire se dall’altra parte ci sta il buono o il cattivo. Siamo tutti uniformati in un   benessere o malessere. Il lavoro c’è, il lavoro manca, i disoccupati aumentano poi diminuiscono. È un momento di grande confusione, un momento particolare, nel senso che nessuno più riconosce chi ha davanti. Prima si riconosceva una persona di destra o di sinistra, una persona popolare. Adesso siamo tutti uniformati. In questo spettacolo, il pretesto è il lavoro. Siamo due operai che non conoscono nulla, non sono mai entrati in un Teatro ma pur di lavorare e guadagnare dei soldi in più, fanno un abuso di notte, in questo Teatro in disuso che ha avuto un passato glorioso mettendo in scena tutti gli Autori più importanti, italiani e stranieri e loro non devono fare altro che costruire questo muro. Ecco lì che ritorna il muro, i confini. Un muro che viene eretto sul palcoscenico per far posto ad un magazzino e per segnare il confine con un supermercato. È una metafora perché alla fine il muro viene abbattuto dalla Signorina Giulia di Strindberg. Penso che lo spettacolo sia positivo, un inno alla Cultura, alla Vita, di aprire alla conoscenza. Cosa che spesso noi attori che facciamo questo mestiere, ci chiediamo se ancora valga la pena impegnarci a fare Teatro, a mettere in scena spettacoli o a raccontare storie alle persone. Ci sono persone che preferiscono stare in casa a guardare la televisione. Siamo fortunati perché tante persone la pensano come noi ed affollano i Teatri. Le persone che vengono a vederci ci danno la spinta a proseguire in questo lavoro. Il testo è faticoso. È uno spettacolo da non perdere perché dopo sedici anni lo metteremo “in cantina” sperando che altri due attor giovani possano proseguire questa leggenda metropolitana di “Muratori”. 


Paolo Triestino (Fiore): Il particolare è vero ma in generale quella è una battuta dello spettacolo. La tua è stata una bella intuizione. Viviamo in un mondo in cui è più importante l’I-Phone piuttosto che un libro da leggere. Credo che sia un testo di una modernità assoluta anche se è stato scritto venti anni fa, ha la forza dirompente di un testo scritto da poco perché nel frattempo il mondo sta andando sempre più storto. Questa chicca è una delizia di amore, di storia, di intelligenza, di emozioni, che è il Teatro e non solo, è un gioiellino da preservare, è un cristallo molto fragile. 

Un inno d’amore al Teatro, il ritratto di due perdenti ma sorpassa i Social e racconta molto del nostro tempo. Cosa ne pensi?
Paolo Triestino: Racconta l’incapacità di comunicare perché ci troviamo in un Teatro vuoto, abbandonato. Siamo solo noi a parlarci, a raccontarsi anima, cuore, sogni, speranze come se ci fosse bisogno di un luogo altro per un contatto vero che non sia appunto virtuale come hai detto. Questa bella favola di due che raccontano le loro vite, all’interno di un Teatro, credo sia una bella metafora su quello che di bello bisogna cercare di conservare in questo mondo. Quello che ci circonda è un mondo virtuale in cui hai diecimila amici ma in fondo non ne hai nessuno. Due persone che hanno tempo per parlarsi tuta la notte in teatro, credo sia una bellissima metafora.
Come reagisce il pubblico?
Nicola Pistoia: Viene coinvolto perché assiste ad uno spettacolo diverso dal solito. Il sipario è chiuso ma all’apertura non c’è nulla, solo la Signorina Giulia che vaga per il palcoscenico osservandolo nei minimi particolari. Ci sono degli elementi di qualche precedente spettacolo, poi la signorina scompare e si piomba nel buio più assoluto. Si sentono due persone che parlano e non sono altro che i muratori che sono entrati. Non ci sono i canoni classici di una messinscena. Quando trovano il quadro luci e lo accendono, il teatro apparirà abbandonato. Noi metteremo in scena lo spettacolo sul palco di questo Teatro meraviglioso che ha visto i fasti di messe in scena famose, e compaiono carriole, cofane, cucchiare, palanche. Al mio ingresso in scena, porto una palanca lunga quattro metri e da lì parte lo spettacolo. La gente vede la polvere, la calcina, ci sente respirare e faticare. È uno spettacolo che richiede una certa prestanza fisica. La battuta più simpatica è “Le donne sono tute zoccole compresa mia madre” … Una mia amica mi ha raccontato che una signora in platea si è alzata chiamandoci cafoni. 
Negli anni è diventato un Cult e questa al Ghione è l’ultima rappresentazione. Non vi dispiace non farlo più? 
Nicola Pistoia: Come dicevo prima, richiede una certa prestanza fisica. Ecco perché dopo sedici anni lo abbandoniamo. Quando ho iniziato avevo quarantotto anni, adesso ne ho sessantaquattro.
Paolo Triestino: Ci mancherà tantissimo però fisicamente è pesante e come età siamo veramente al limite. Al di là dell’età è proprio la fatica fisica che deve venire su e giù con le palanche, le carriole, fare le corse per trasportare gli attrezzi. Se togli la parte fisica, l’ingresso dalla platea, le carriole che vanno e vengono, la palanca, togli molto. Rimane il sudore, il cemento e i mattoni. Lo spettacolo va fatto tutto così ed è veramente dura. Siamo stremati, da un lato ci dispiace da morire ma dall’altra non vediamo l’ora che arrivi il 13. Così lo abbiamo salutato con gioia perché la gente è molto felice però va bene così e nella vita si va oltre.

Elisabetta Ruffolo
Leggi qui gli articoli di Elisabetta Ruffolo.
Fattitaliani

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