Teatro, GIUSEPPE CEDERNA a Fattitaliani: bisogna essere Maestri di se stessi. L'intervista

Al Teatro India di Roma dal 10 al 21 gennaioMozart Il Sogno di un clown” di e con Giuseppe Cederna. Liberamente ispirato al libro di Wolfgang Hildesheimer. Musiche di W.A. Mozart eseguite al pianoforte dal Maestro Sandro D’Onofrio. Regia di Giuseppe Cara - Elisabeth Boeke. Scene Francesca Sforza. Costumi Alexandra Toesca. Luci di Paolo Latini. Produzione artupart.

“Intervistare” Cederna non è stato facile, preso da mille impegni, l’ho rincorso per molto tempo, fino a trovare una data che fosse consona per entrambi.
Appuntamento a casa sua, zona Testaccio a Roma, una casa piena di ricordi provenienti da ogni angolo del mondo, davanti ad una tazza di ottimo tè. Comincia a parlare a braccio senza che io abbia ancora pronunciato una domanda e da grande affabulatore mi rapisce con il suo dire e la mia lingua diventa muta.
Più che un’intervista posso senz’altro dire che Giuseppe Cederna si racconta…! 
Cederna nasce in un famiglia di intellettuali, illuminati, giornalisti e scrittori lombardi, nel 1978 decide di fare il Clown ed il mimo, cominciando un’avventura che era molto strana per la sua famiglia che reagì con grande curiosità, aspettando di vedere cosa sarebbe successo. Erano anni in cui fare il clown per strada era una cosa coraggiosa. Insieme a Memo Dini fondarono una Compagnia “Afe Clown” e dal '79 all’86 hanno portato in scena uno spettacolo all’anno, girando anche all’estero. Avevano un certo talento autarchico e molto selvaggio. Evidentemente per Cederna era un altro modo per raccontare ciò che vedeva e raccontare anche il suo presente, il rapporto con l’identità, con quella cosa così importante che è trovare la propria passione e che poi è diventato uno dei suoi temi. Si ritiene fortunato ad aver conquistato dopo anni di gavetta, di scoprire che invece di fare infelicemente l’universitario si era messo a lavorare, raccontando storie con il corpo e continuando a studiare, ad impegnarsi, ad armarsi di cultura, affinando la capacità di comprendere i testi. Un po’ gli è mancato lo studio che non aveva fatto ma sempre in maniera autarchica e seguendo lo scorrere del tempo, i consigli del padre.
“È difficile a qualsiasi età ma per un ragazzo tra i diciotto ed i venticinque anni lo è ancora di più, capire cosa si vuole fare nella vita. La mia vita è fatta di tante deviazioni ma riguardando indietro sento che riesco a parlare agli studenti o ai miei nipoti, ai figli dei miei amici, posso raccontare la mia storia e capisco di aver avuto la fortuna di poter scegliere, di poter trovare quello che mi piaceva e quando lo trovi, tutto ti sembra interessante, sei disposto a studiare, a lavorare, a sacrificarti, però devi essere in quel solco di attenzione profonda che ti fa capire che stai seguendo la strada giusta. Poi ci sono tutte le deviazioni. Se prima facevo il lavoro di attore in maniera autarchica adesso lo faccio in maniera indipendente, personale che è bello ma a volte è più difficile perché sei fuori dal coro, devi costruirtelo anno per anno. C’è stata anche la fortuna dei film, di Marrachech Express, di Mediterraneo e di tutti gli incontri in un’altra stagione del cinema italiano, con Monicelli, Comencini. Cominciando anche lì dalle particine più piccole fino a quelle più importanti che mi hanno fatto capire che riuscivo a bucare anche lo schermo e ad arrivare con altre storie che non fossero quelle scritte da me ed invece poi sono tornato a raccontare le cose scritte da me. Sento che c’è una strada che ho seguito, quella di raccontare le cose che sento, quello che mi piace e quello che non mi piace. Mio padre mi ha passato anche questo, di essere informato su certi fatti e di fare anche delle scelte. Mio padre scriveva di ambiente, di città civili. In tempi remoti. Lui ha cominciato negli anni 50 a battersi per l’Appia Antica, in un periodo in cui la parola “pubblico” era importante. Il bene pubblico, il patrimonio pubblico, qualcosa che resti come un’eredità comune da condividere. Anche il Teatro è un bene pubblico, quando riesci a condividere le storie ed a trasformare una Platea in un “orecchio” quasi unico che ascolta qualcosa che parla anche personalmente. Per concludere quest’arco della mia vita, negli anni 90 c’è stata una crisi di lavoro ed anche personale, forse non ero l’attore che fa un film dietro l’altro, sono anche un attore particolare e dovevo anche accettare il fatto che dovevo continuare a trovare la mia strada, non perché hai successo con un film, sei arrivato e non devi fare nulla e sono gli altri che ti offrono. Questo non esiste in nessun lavoro ed in nessuna vita. Approfittando di questo momento in cui sono entrato in analisi, ho cominciato a lavorare su me stesso, ad accettare di dover scoprire ed accettare altri territori ed idee, ho cominciato a viaggiare. Il viaggio è diventato una parte importante della mia vita. Ho cominciato a pagarmi i viaggi, scrivendo i miei racconti. Ho scritto “Il grande viaggio” che racconta la storia di un bellissimo viaggio, nella meraviglia, nelle montagne dell’Himalaya, a quattromila metri, parallelamente alla scomparsa di un’amica che doveva venire con noi ma mentre noi andavamo a fare un viaggio di scoperta, la sua vita finiva con il suo ultimo viaggio, moriva cadendo con un aereo sulle montagne del Kossovo. La storia mi aveva così colpito che ho dedicato quasi due anni e mezzo per scrivere un libro per raccontarla. Successivamente l’ho portata in Teatro e l’ho passata in tanti modi. 

Ultimamente, faccio tantissime cose diverse, racconto il viaggio, il Mediterraneo, per due anni ho portato in giro uno spettacolo sulla prima guerra mondiale “L’ultima estate dell’Europa”. Dopo una sessantina di repliche sono passato ad un’altra cosa. Anche quello era uno spettacolo che non volevo fare ma poi l’ho fatto per l’esigenza di raccontare storie e mi ha dato molte soddisfazioni ed allo stesso tempo mi ha molto addolorato perché le storie erano molto drammatiche.  Avevo voglia di lasciare l’orrore della guerra, dei poeti della guerra. 
La mia più grande passione è la poesia che frequento quotidianamente per me ma che poi spargo nei miei spettacoli. Alcuni poeti mi hanno aiutato quando non stavo bene. I poeti servono ad approfondire i tuoi sentimenti più forti, per risvegliarti, per vedere la bellezza del quotidiano. C’è un film bellissimo “Paterson” di Jim Jarmusch che racconta una settimana di una coppia in una cittadina americana dove non succede mai niente ma invece succede tantissimo, tutto vissuto poeticamente come spesso sono le nostre vite quando riesci a non essere sommerso dall’angoscia, dallo stress, dal tempo che fugge o che non riesci a fermare e a vivere. Quasi un anno fa la Biblioteca di Ponte in Valtellina che è di frontiera perché è molto vicina alla Svizzera, mi ha chiesto di ricordare un grande personaggio che aveva vissuto lì e che era Wolfgang Hildesheimer, uno scrittore tedesco molto importante degli anni 60/70/80 e che negli anni 80 si è trasferito a Poschiavo nel Canton grigio a venti chilometri dalla Valtellina. A dicembre 2016 c’è stato il centenario della sua nascita ed avevano organizzato una rievocazione con mostre, convegni e mi hanno chiesto visto che avevo lavorato su un suo libro, la biografia di Mozart che era uscita negli anni 70 e che trent’anni fa avevo letto per prepararmi per Amadeus nell’87,  di fare delle letture accompagnato dalle musiche del Maestro D’Onofrio. Accetto, riprendo in mano questo libro e facciamo due serate, una a Poschiavo e l’altra a Ponte di Valtellina. Rientrando nella storia di Mozart con questo libro che è complesso, un po’ “psicanalitico” di un grande intellettuale che smonta tutte le interpretazioni romantiche di Mozart, basate sulle nostre proiezioni di come avremmo voluto Mozart e lo affronta da musicologo, da musicista, da appassionato totale, facendo un’opera d’arte. Riprendendolo in mano, ritrovo una grande storia, quella di un musicista che non ha lasciato traccia se non nella sua musica. Era espertissimo di storie, personaggi, tranne che di se stesso. Non sapeva bene chi fosse, non riusciva ad avere rapporti duraturi, è sempre stato trattato male o si faceva trattare male. E’ stato un Genio della musica e grazie a questo libro, mi sono appassionato ed ho scritto un testo in cui Mozart non riesce mai a farsi vedere. Torno nuovamente a fare Mozart dopo trent’anni, quando da attore grazie ad un provino, ho fatto Amadeus. Ero un clown ma Mozart continuava ad apparirmi sulla strada. Affronto questo personaggio inaffrontabile e di nuovo adesso, l’attore ridiventa Mozart. Continuando ad entrare ed uscire dal personaggio, cercando di farsi vedere sia come Giuseppe l’attore e sia come Mozart. Si vestirà come lui, si metterà la sua parrucca, combatterà con il mistero di questo personaggio che non aveva la socievolezza di stare con gli altri. Gli mancava qualcosa che mettesse insieme creatività e comportamento. Risultava infantile, sgradevole e lo era sicuramente. È nato questo spettacolo che si chiama “Mozart ritratto di un genio” che mi sta facendo combattere, emozionare, divertire molto perché tocca fare un po’ il clown perché Mozart è un clown, è un Genio perché scrive delle cose di cui uno non immagina la bellezza. Alla cuginetta scrive di cacca, di eros. Si sposa però poi vuole il padre ma cerca comunque di rimuovere continuamente però poi ha il problema che non ha soldi e muore da solo. Per tutto lo spettacolo chiederà “Riuscite a vedermi?” Racconta ciò che faceva, gli piaceva andare a cavallo, giocava a biliardo, gli piaceva ballare, quando suonava il pianoforte si trasformava. L’unico momento in cui lo vedremo veramente anche se si vede in tutto lo spettacolo, sarà alla fine quando si spengono le luci e si sente la musica. È uno spettacolo sull’impossibilità di vedere un genio del 700 ed è un tentativo che va fatto per amore, per affetto, per passione. C’è qualcosa che mi spinge a farlo. Scrivi uno spettacolo, lo riscrivi dieci volte, lo impari a memoria, non funziona. Provalo, rifallo ancora, sembro quello di venticinque anni fa. È uno spettacolo particolare, c’è un musicista, in costume anche lui che suonerà il pianoforte coperto da un forte piano come se fosse scenografato. Sarà un’immersione in questo Universo così miracoloso e nello stesso tempo così concreto di un ragazzo geniale che morirà a trentacinque anni e che componeva sempre nonostante questa vita difficile. Forse la lezione di Mozart era di non lamentarsi, di non piangersi addosso. Senza essere geni perché siamo persone molto più terreni e normali però se c’è una lezione è proprio questa, quella di ringraziare del talento che hai, di sfruttarlo, cercando di fare bene il proprio lavoro fino alla fine. Di essere quello che sei, non lamentandosi ma cercando di essere quello che sei.
C’è un altro filone in Cederna che è quello del viaggio, delle persone che stanno intorno a lui, verso quello che succede nel mondo che è drammatico, doloroso. 
Sappiamo forse la minima parte di quello che succede e di quello che ci dicono i mezzi d’informazione… 
Sì, ma quello che ci dicono è abbastanza per farci venire voglia di non leggere più i giornali, di non guardare più la televisione ma è impossibile. Uno dei grandi temi che ho sfiorato, ho incontrato nei viaggi ed anche come testimonial in Africa e poi invece qui come testimone quotidiano, è la migrazione, questa cosa inarrestabile, questo flusso storico che ci sarà sui libri di storia credo tra trenta, quarant’anni e parleranno della crisi dei ricchi e nello stesso tempo della c.d. invasione o comunque della fuga dalla guerra, della povertà, dell’impossibilità di vivere, di masse enormi di uomini che vengono dal Nord Africa.
Non tutti capiscono la loro disperazione… 
Dico inarrestabile perché poi è un problema. Noi siamo attaccati al nostro quieto vivere, viviamo la nostra crisi, i nostri soldi valgono meno. Quelli che puliscono i vetri ai semafori sono diventati centinaia, migliaia, è difficile avere a che fare con il bisogno umano. Quando sei impaurito, impoverito, è tutto più difficile. È un altro tema che attraversa le mie storie ed i miei spettacoli tanto che da un anno sto portando in giro per adesso la presentazione di un libro anche se è qualcosa in più perché quando presento un libro, racconto attraverso di me, attraverso la poesia, leggo, mi metto in ballo. Leggere è il minimo, ti devi anche sporcare raccontando cosa ti provoca ciò che leggi, la voglia di scoprire certe cose. Questo libro che ho portato in giro per un anno, è uscito postumo, si intitola “Da questa parte del mare” è di Gianmaria Testa, cantautore, poeta, molto conosciuto più all’estero che in Italia, una persona straordinaria con un pubblico affezionato. Era un ferroviere poi negli anni dopo il successo ha deciso di continuare a scrivere canzoni che sono poesie meravigliose. Dal 1998 ha capito che quello che stava succedendo era una cosa di grandissima portata. Ha quindi deciso di fare un progetto sull’emigrazione contemporanea. Insieme alla moglie hanno deciso di mettere su carta le sue canzoni e ne è uscito questo bellissimo libro di storie, d’incontri, di poesie bellissime. “Da questa parte del mare” perché noi siamo da questa parte e guardiamo quello che succede. L’ho nutrito con una mia storia, di un attore, di un uomo che per la sua storia personale, mio padre era un archeologo, stava a Creta, mi raccontava dei miti, era un uomo dotato di una grande cultura classica. La Grecia, la prima volta che sono andato ero molto piccolo, il mio film Mediterraneo girato a Kastellorizo e ci sono tornato sette, otto volte. Ho anche con la Grecia una relazione di piacere, di libertà e di affetto profondo. In uno di questi viaggi, due anni fa, ho incontrato i migranti, sulle barche, sui traghetti. Ho cercato di parlare un po’ con loro, con un po’ di pudore di chi è in viaggio ed in libertà, con la compagna, l’alberghetto, il motorino, con i soldi, la comodità di poter scendere, viaggiare. Invece loro erano sul traghetto e speravano di raggiungere l’Europa. Ad un certo punto mi avevano preso per uno di loro, mi sono divincolato ed ho capito per una frazione di secondo che basta un gesto, quello di un poliziotto che ti prende per un braccio e tu reagisci dicendo “Come ti permetti? Io sono diverso… “e ti vergogni della reazione, li guardi e sono uomini e donne che stavano con te sulla barca ma tu sei diverso perché puoi tornare a casa. Questa cosa mi ha così colpito che ho trovato, anche lì per caso perché mi hanno chiesto di fare una lettura per la giornata dei migranti, un libretto dove c’erano delle poesie alcune belle, alcune brutte e c’era una poesia bellissima che mi è saltata addosso e poi ho scoperto che era molto famosa nel web, scritta da una poetessa africana emigrata a Londra quando era molto piccola. Si chiama Home ed è la poesia di chi sa veramente cosa significhi lasciare casa. Una poesia molto drammatica, con le parole quasi tutti piangono, a volte io stesso faccio fatica a leggerla e l’ho imparata a memoria. Forse si trova su Youtube perché ho fatto un video con Giovanni Sollima, lui suona il violoncello ed io la recito. La storia di questo mio viaggio con questa poesia è diventata una parte di un racconto civile sulla migrazione che è diventato uno spettacolo. È la storia di un uomo che racconta i suoi incontri ed i suoi rapporti, attraverso le parole di Gianmaria Testa. È una bella sfida anche questa. 
Per Mozart, il pianista è Sandro D’Onofrio, un grandissimo mozartiano, mentre la Regia è affidata a Ruggero Cara che è lo stesso che ha curato la Regia di “L’ultima estate dell’Europa”, milanese, di grande finezza e di grande semplicità. Fa un tipo di teatro fatto con la Poesia, con l’interpretazione dell’attore che deve trasformarsi con un cuscino, c’è la mamma, c’è la fidanzata, c’è la moglie. 
Cosa avrebbe detto tuo Padre oggi, nel vedere quello che sei riuscito a fare? 
Mio padre era un grande Fan, era molto sorpreso nel vedere il figlio che fa la sua strada molto coraggiosamente e che ci lavora. Lui veniva a vedere i miei spettacoli, prendeva degli appunti, mi chiedeva cosa volessi dire. Mi ha scritto due sole lettere perché era un uomo timido, nella sua generazione non si usava parlare con i figli. Lui era straordinario, scriveva tutto il giorno, si impegnava, combatteva sulle cose. Aveva competenza ed un’autorevolezza che gli veniva riconosciuta, per cui era anche un punto di riferimento per tanti giovani che sono cresciuti sulle sue orme. Adesso è un po’ più difficile avere questi grandi Maestri. Bisogna essere Maestri di se stessi oppure cogliere le occasioni che ti si presentano nella vita. Non perderti d’animo è faticoso in tutti i campi. Bisogna impegnarsi perché la vita è tragica, bellissima e dolorosa ma bisogna viverla.
In quale dei personaggi interpretati ti riconosci maggiormente? 
La cosa che mi colpisce di più è che nonostante l’ultimo film che ho fatto “Maschi contro femmine” risalga ad un po’ di anni fa, mi riconoscono anche i ragazzini perché evidentemente in quel personaggio c’è molto di me stesso. Sono quei ragazzini a volte invisibili che fanno fatica a farsi notare dalle ragazze. Interpreto un personaggio che all’inizio è un po’ invisibile, non è alto, non è bello esteriormente ma ha un suo fascino per quello che fa, per come si comporta. Di lui s’innamorano delle bellissime donne, riesce comunque a trasmettere quello che ha dentro. Mi fa molto piacere che i miei personaggi, pur raccontando delle cose dolorose, siano umani. Si capisce che queste cose dolorose le ho eviscerate e le ho trasformate in cose positive. Se uno riesce a tirare fuori il dolore dall’esperienza, vuol dire che c’è speranza. A volte i giovani hanno paura di esternare un problema, di parlare di una delusione d’amore, queste cose io le ho trasformate riuscendo a raccontarle con la capacità di un narratore che ho pensato ed elaborato. Fare un Diario di un viaggio è una cosa, per raccontare un’esperienza bisogna riflettere, capirla. Ringrazi il pubblico che ti sta ascoltando e te la fa capire meglio, perché la percepiscono come una loro storia. A volte mi manifestano le loro percezioni ed è per questo che il nostro lavoro di attore ha un senso.

Foto copertina: Marco Caselli
Elisabetta Ruffolo 
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Fattitaliani

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