Intervistare Maria
Letizia Compatangelo Presidente della Prima e della Seconda edizione
del Premio Cendic - Segesta è stato come aprire i cassetti dei
ricordi e poterli condividere.
Drammaturga e autrice di numerosi
saggi. tra cui uno sulla Prosa in Televisione, ci illustra i
meccanismi di partecipazione al Premio, il cui bando è in scadenza
il 13 luglio: la doppia giuria drammaturga e tecnica e la garanzia
dell’anonimato degli autori che in questo modo vincono perché sono
bravi. Parla della drammaturgia italiana lasciata ai margini per
molto tempo, della mancanza di una legge quadro sullo spettacolo dal
vivo ed anche di giovani a cui è impedito di fare la gavetta.
Lei
è Presidente della Seconda edizione del Premio Cendic – Segesta,
quali sono le novità di quest’anno? A dir la verità è andato
così bene che abbiamo cercato di restringerle alla questione
organizzativa. Nel senso che la Giuria dei Drammaturghi, sarà
organizzata in gruppi di lettori ai quali andranno alcuni gruppi di
copioni, mentre l’anno scorso in maniera veramente molto
donchisciottesca, ognuno di noi si è letto tutti i copioni, ossia 90
in meno di un mese: è stato un tour de force non riproponibile,
anche perché tutto è fatto sempre in maniera volontaria e
gratuita. Questo lo devo dire anche nei confronti della Giuria
tecnica, il loro è un gesto di solidarietà e di vicinanza agli
autori italiani. Abbiamo perfezionato queste cose e specificato il
campo del Mito con riferimento alle opere del grande studioso inglese
Robert Graves. Le cose fondamentali però rimangono invariate,
ovvero che il premio consista nella messa in scena: grazie al Centro
Teatrale Meridionale diretto da Domenico Pantano, ciò è stato
realizzato nella prima Edizione e così come avverrà nella seconda.
Mentre staremo scegliendo il nuovo vincitore o la nuova vincitrice
dell’edizione 2016, il testo vincitore della prima edizione
debutterà infatti a Segesta, il 3 agosto. La grossa novità è
rappresentata dalla partecipazione del Teatro di Roma e delle
Biblioteche di Roma alla Rassegna dei testi finalisti. Essendo il
Premio Cendic pensato dagli autori per gli autori, abbiamo cercato di
realizzare ciò che ogni autore desidera: avere innanzitutto la messa
in scena e poi che questa partecipazione o un piazzamento al Premio
non si esaurisca con un saluto, un complimento, una Targa. E’ per
questo che ogni finalista avrà una serata in Teatro, dove presenterà
il suo Testo a degli attori, a degli studiosi. E’ un riflettore che
si accende sul lavoro di ogni autore, che è quasi sempre molto
solitario. Parteciperanno alla realizzazione di questa Rassegna,
ospitandola, il Teatro di Roma e le Biblioteche di Roma con gli
attori della Scuola di Perfezionamento del Teatro di Roma. L’altra
caratteristica fondamentale del nostro Premio è l’anonimato, che è
stato molto apprezzato ed ha funzionato molto bene. Nessuno di noi ha
conosciuto il nome del vincitore fino a quando la giuria tecnica si è
espressa designando il testo vincitore tra i finalisti. Il vincitore
è un giovane autore ventisettenne, allievo della scuola del Biondo
di Palermo. L’anonimato è garantito anche quest’anno dal Notaio
Maria Borsellino D’angelo. L’opera viene letta e giudicata da
persone competenti, per questo è stato istituito il meccanismo della
doppia Giuria, la prima composta dai drammaturghi, che selezionano la
cinquina dei finalisti. Questa viene giudicata dalle Professionalità
teatrali: una regista, un’attrice, un critico teatrale, un
rappresentante della parte distributiva e poi un regista-produttore.
Il Premio è gratuito, viene spedito tutto in via elettronica, non ci
sono spese per l’autore.
Nell’ambiente il
grido di dolore è unico “Il Teatro è in crisi, il Teatro è
morto”. Perché?
La drammaturgia italiana è stata lasciata ai
margini per molto tempo, un po’ perché con l’avvento del Teatro
di Regia nel dopoguerra si è pensato a suo tempo ad un desiderio di
sprovincializzazione, ci sono stati vent’anni di fascismo che hanno
fatto segnare il passo all’Italia dal punto di vista della chiusura
degli orizzonti culturali - anche se c’è stato comunque Pirandello
che ha vinto il Nobel. Ciò ha fatto sì che il teatro si sia rivolto
al nuovo, sia dal punto di vista della regia sia dal punto di vista
dei testi stranieri. Anche questo però è diventato una sorta
di provincialismo, perché l’esterofilia non è altro che questo. A
ciò non è seguita una legge quadro sullo spettacolo dal vivo, per
anni siamo andati avanti a circolari per cui alla fine ci siamo
rassegnati alla mancanza di un regolamento. Il nostro provincialismo
si è spinto a dire che dovevamo essere europei senza contare che i
nostri cugini europei difendevano la propria drammaturgia e lo
facevano da decenni… se non da secoli, come nel caso
dell’Inghilterra e della Francia. Il MIBACT ha fatto una riforma
dei criteri di distribuzione del FUS ed anche della ristrutturazione
dei nostri Teatri pubblici, ispirandosi al modello francese,
dimenticando però che la Francia ha quattro teatri nazionali, di cui
due sono dedicati alla drammaturgia francese ed uno di essi alla
drammaturgia francese contemporanea. Non c’è stato nulla che abbia
difeso la drammaturgia italiana contemporanea e con essa l’identità
culturale e la lingua nazionale. Tutto questo è stato visto come
vecchio, stantio, provinciale. Dalla metà degli anni ‘80 c’è
stata un’inversione di tendenza, con una maggiore attenzione verso
la drammaturgia italiana, ma sempre in maniera molto saltuaria, e si
aveva maggiore attenzione della critica a seconda se si apparteneva
all’una o all’altra corte. Come struttura la drammaturgia
italiana non è entrata nella produzione perché come diceva Umberto
Orsini “ci deve pensare lo Stato”, invece lo Stato non ci ha mai
pensato. Per questo motivo ci siamo costituiti in un’associazione
che ha nel nome il suo obiettivo statutario e cioè che lo Stato
istituisca un Centro di drammaturgia italiana contemporanea ed un
Teatro per la drammaturgia contemporanea. Il prossimo autunno
abbiamo intenzione di rilanciare l’Appello Cendic “Per un Teatro
della Drammaturgia Italiana Contemporanea”, che nel 2014 ha
raccolto 1300 firme tra gli addetti ai lavori, perché questa
richiesta ormai è avvertita trasversalmente come un’esigenza che
non si può più rimandare. Sono venuta fuori come autrice perché ho
vinto il Premio IDI… che è stato chiuso nel 98. Dal 2011 è stato
chiuso anche l’ETI.
I 200 drammaturghi del
Cendic vogliono riempire un vuoto istituzionale. Riusciranno mai in
quest’impresa?
Stiamo lavorando per promuovere la drammaturgia
italiana all’estero, stiamo lavorando per la formazione del
pubblico e la formazione degli autori: lo Stato ad un certo punto
dovrà rispondere e dedicare uno dei Teatri Nazionali alla
drammaturgia italiana contemporanea, non solo come scelta individuale
ed artistica di un Direttore illuminato, ma come una scelta
strutturale, incardinata in una legge e quindi nella nuova legge
sullo spettacolo dal vivo che si sta ricominciando a discutere.
Speriamo di riuscire a far sentire la nostra voce. Abbiamo anche
chiesto un’audizione alla Commissione Cultura del Senato, ci hanno
riposto che ci chiameranno non appena tratteranno la materia.
Ha parlato di
formazione ed in un’altra intervista aveva già espresso il suo
pensiero “Per i giovani è diventato impossibile costruire una vita
lavorativa con il Teatro. A loro è vietata la possibilità di fare
la gavetta”. E’ ancora così? Che futuro hanno questi giovani?
A proposito di drammaturgia, un’altra cosa che non si è mai voluto
capire è la necessità di una Scuola di Formazione perché il
Talento può esserci o meno ma se c’è va comunque educato. Le basi
servono per risparmiare tempo e strada, per guadagnare credito, per
porsi in maniera seria e professionale e poi si può realizzare quel
meraviglioso incidente che è l’arte.
Ha scritto un saggio
sulla Prosa in Tv, come mai è scomparsa?
Ad un certo punto la
RAI non ha seguito più il gradimento ma l’audience, ossia gli
indici di ascolto, ha cominciato ad inseguire la televisione
commerciale e a relegare sempre di più il Teatro tra i programmi
culturali di “nicchia”. Sono assolutamente contraria a
ghettizzare la Cultura, perché essa può essere anche
intrattenimento ed invece è stata sempre più relegata in programmi
di seconda o terza serata. Quando avevamo uno o due canali, la prosa
veniva fatta in prima serata ma tutti ne erano compiaciuti. Il
Teatro è scomparso perché si pensa per stupido provincialismo che
la Cultura sia destinata solo ad una nicchia.
Elisabetta Ruffolo